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Post n°284 pubblicato il 09 Marzo 2012 da mauroguidi17
Mafia/ L'uso processuale dei collaboratori di giustizia, i cosiddetti "pentiti"... Venerdì, 9 marzo 2012 - 08:43:00 Di Tiziana Maiolo Due notizie importanti dal fronte dei processi “antimafia”. In Calabria la prima sentenza di ‘ndrangheta dopo la retata che, nel luglio del 2010, con la collaborazione delle Procure di Milano e Reggio Calabria, portò in carcere oltre 300 persone. Nella stessa giornata, in Sicilia, quattro nuovi arresti nelle ennesime indagini sulla strage di via D’Amelio in cui furono uccisi il procuratore Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta. Calabria e Sicilia, ‘ndrangheta e mafia, due mondi e un denominatore comune, l’uso processuale dei collaboratori di giustizia, i cosiddetti “pentiti”. I quali in genere sono mafiosi e assassini non disinteressati, troppo spesso inattendibili. Diceva Giovanni Falcone che il “pentito” deve essere non più di un apriscatole, uno dei tanti strumenti per andare a cercare le prove. Non è stato ascoltato. Prendiamo il caso dell’omicidio Borsellino, tragico fatto di 20 anni fa. Oggi ci sono quattro nuovi arresti e la Procura di Caltanissetta ci fa sapere che il magistrato sarebbe stato ucciso perché non voleva un ( molto presunto ) accordo tra lo Stato e la mafia per l’abolizione dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario che prevede il famoso “carcere duro”. Tutto questo sulla base di dichiarazioni di “pentiti”, i nuovi “pentiti” che hanno sconfessato e scalzato quelli vecchi. Facciamo un passo indietro di circa 20 anni, quando fu costruito in vitro il collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino, detenuto nell’inferno del carcere speciale di Pianosa (da me più volte visitato e di cui ho pubblicamente e ripetutamente testimoniato l’orrore), vero “pentitificio”. Che Scarantino fosse inattendibile lo si sapeva allora e lo disse anche la stessa moglie. Pure in seguito alle sue false dichiarazioni (solo molti anni dopo ha detto di esser stato torturato) diverse persone finirono in carcere e furono condannate all’ergastolo nei tre gradi di giudizio. Il che la dice lunga su come vengono condotti certi processi. Ci sono voluti 20 anni perché arrivasse il nuovo “pentito” Gaspare Spatuzza a demolire il castello inventato dei primi tre processi. Si ricomincia daccapo, si scarcerano gli innocenti, si incarcerano i nuovi colpevoli. Speriamo almeno che questa volta siano quelli giusti. Ma chi restituisce la vita agli innocenti? E chi paga per gli “errori” (chiamiamoli così) fatti? Dalla Sicilia alla Calabria, dove sono stati processati con il rito abbreviato 108 imputati di un’inchiesta chiamata “Crimine”. Trentaquattro imputati sono stati assolti, cioè esattamente un terzo. Per gli altri, le condanne sono state ridotte mediamente della metà rispetto alle richieste del Pubblico Ministero. Al termine dell’udienza sia il procuratore capo Pignatone che il suo vice Gratteri si sono dichiarati soddisfatti, soprattutto perché è stata confermata l’impalcatura dell’inchiesta, che sanciva essere anche la ‘ndrangheta, come altre mafie, un’organizzazione verticale e unitaria la cui “testa rimane in Calabria”. Benissimo. Però, poiché, come recita la Costituzione, “la responsabilità penale è personale”, noi ci interessiamo anche alle singole persone, ai singoli imputati. Si può dire che ha avuto successo un’operazione di polizia che ha pescato a strascico più di cento persone di cui un terzo innocenti? E se invece di un processo abbreviato si fosse perseguita la strada del rito ordinario, quanti anni questi innocenti sarebbero rimasti a marcire in galera? E come ci sono arrivati, in carcere, sulla base delle calunnie di quali e quanti “pentiti”? Questa è la nostra giustizia, non certo europea o anglosassone. |
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