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La macchina perfetta della censura

Post n°97 pubblicato il 28 Aprile 2011 da ilmondocheiovorrei

Non possiede la chiave della sua casa di Shanghai, il mio amico. Gentili sorveglianti, giorno e notte, aprono e chiudono l'ingresso della vecchia dimora cinese, dove vive e lavora. Controllano tutto, per la sua sicurezza. Se vuole andare a dormire, o incontrare qualcuno, deve prima suonare il loro campanello. Le conversazioni telefoniche sono registrate e una voce cinese spesso suggerisce cautele che non è in grado di comprendere. La posta elettronica viene filtrata da un esercito di ingegneri del governo. Identificano le persone che lo contattano e, come gesto di riguardo, glielo comunicano.

Internet, in Cina, è sottoposto a verifiche automatiche ossessive. Spesso degenerano nella comicità, innescata dagli equivoci di caratteri linguistici consonanti. "Carota" è un termine bloccato: il primo ideogramma coincide con il nome del presidente Hu Jintao. Quando ingenuamente si cerca una parola proibita, o ci si attardo su un argomento vietato, lo schermo del pc si svuota e una scritta segnala l'errore tecnico commesso. Se i peccati sono più gravi, ancorché inconsapevoli, si viene educati.

Per qualche settimana, dopo l'uscita di un articolo "non armonizzato", è venuta a trovarmi la polizia, mi ha raccontato l'amico. Ragazzi sorridenti controllano visti, documenti e permesso di lavoro. Non è un "caso" quello del mio amico. Queste attenzioni gratificano tutti i quattrocento corrispondenti stranieri che lavorano in Cina. Per i giornalisti cinesi le cure sono più attente. Un Paese con un miliardo e trecento milioni di abitanti, guidato da un potere che non viene eletto dal popolo, non può permettersi di precipitare nel caos dell'informazione indipendente. I cronisti, prima di mettere piede in un giornale, o in una televisione, conoscono lo stretto confine di Stato tra lecito e illecito. Per cancellare il mio amico, ammesso che una simile frivolezza interessi a qualcuno, basta interrompere la corrente elettrica. Loro perdono il posto di lavoro e iniziano il pellegrinaggio in tribunale, anticamera della cella.

Il mio amico di Shanghai è felice di non possedere la chiave della sua casa. E' nelle mani sicure di vecchi militari che suonano il flauto. Quando esce, si accendono di entusiasmo e chiedono al tassista se per caso lo stiano per portare all'aeroporto internazionale, per la partenza con un biglietto di sola andata. E' una doppia paranoia, alimentata dalla paura, quella che si confronta in Cina: i cinesi pensano che i giornalisti stranieri siano spie di potenze nemiche, noi restiamo convinti di non poter mai credere in loro.

 
 
 
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Un blog di: ilmondocheiovorrei
Data di creazione: 06/01/2010
 

 

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