Dello stare a tavola...
Virgilio ebbe dal padre un'educazione che lo portò a studiare
grammatica, retorica e forse a frequentare la scuola del filosofo
epicureo Sirone.
A ventotto anni compose "le Bucoliche", idealizzazioni di vita
pastorale, che lo segnalarono all'attenzione di Mecenate e Ottaviano. Fra il 37 e il 30 a.C. scrisse il poema "le Georgiche", quattro
libri dedicati a coltivazione dei campi, coltura degli alberi e dalla
vite, allevamento del bestiame, apicoltura.
Virgilio consacrò gli ultimi undici anni della sua vita al
progetto più ambizioso e più caro ai suoi protettori: un lungo poema
epico che celebrò la romanità: "l'Eneide".
In questa opera il protagonista, l'eroe troiano Enea figlio di
Venere e fondatore della gens Julia, viene descritto nei sette anni di
pellegrinaggio fatti dalla caduta di Troia alla vittoria militare in
Italia, preludio della futura grandezza di Roma.
Qui l'autore riferisce anche di una maledizione legata al cibo
lanciata dall'Arpia, il demone dal volto di donna e dall’orrido aspetto
d’uccello, contro Enea e i suoi uomini:
"
tanta fame che addenterete anche le mense
".
Nel malaugurio, con il termine mensa si vuole indicare i dischi di
pane distribuiti a mo’ di piatti all’inizio dei banchetti, poi
destinati come avanzi ai servi.
Ogni mensa, utilizzata da due persone, serviva in epoca classica
ad ospitare e tagliare le carni, rimanendo così intrisa dei succhi e
dei resti del cibo. In Italia, gia nel XII sec. molto tempo prima che in altri paesi,
la mensa di pane venne sostituita dal tagliere, un disco di legno o di
terracotta. Si cominciò così a dire “stare a tagliere” con qualcuno,
indicando l'azione di cibarsi dalla stessa mensa. Solamente nel ‘400 si diffuse l’uso del piatto e del bicchiere individuale.