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Post N° 67


Chi chiede di morire è per forza depresso?La morte per eutanasia, a poche ore di distanza, dello scrittore fiammingo Hugo Claus e della signora francese Chantal Sebire ha riacceso, sui giornali italiani, il dibattito su questo tema. Non sono mancati, ovviamente, i commenti degli “esperti”, dagli oncologi ai preti. Tra i temi ricorrenti, quello per cui il suicidio assistito o il suicidio volontario di un malato terminale o incurabile sono una manifestazione clinica di depressione, per cui basterebbe curare questa per evitare il problema.La questione mi sta particolarmente a cuore, non solo perché sono da sempre una sostentrice della libertà di scelta individuale, ma anche per ragioni personali che potete leggere in questo post sul blog di mio marito. E così sono andata a rivedere la letteratura scientifica in materia, che ha cercato di rispondere alla domanda, apparentemente banale ma tutt’altro che semplice: chi vuole morire è per forza di cose depresso? Si può desiderare l’autoannientamento, contraddicendo così una delle leggi fondamentali della biologia, essendo completamente sani di mente e presenti a se stessi?Ci pensavo ancora recentemente ricordando il meraviglioso film di Denys Arcand “Le invasioni barbariche”, in cui un professore universitario malato di cancro mette fine ai suoi giorni in serenità, circondato dall’affetto del figlio e degli amici: certamente non una rappresentazione della depressione. Per contrasto, un altro film, “Lo scafandro e la farfalla” di Julian Schnabel, che racconta la tremenda vicenda del giornalista Jean-Dominique Bauby affetto da sindrome locked-in, mi ha fatto pensare che non sempre chi si trova in situazioni apparentemente senza speranza e intollerabili attende la morte come liberazione.Che cosa succede nella psiche di chi chiede di essere aiutato a morire? Saperlo è importante anche per gli aspetti legali ed etici del dibattito sull’eutanasia e sul suicidio assistito. Che la depressione possa giocare un ruolo, pare incontestabile: in uno studio uscito su JAMA nel 2000 su quasi mille pazienti terminali o gravemente malati, risulta che oltre il 60 per cento è sostenitore dell’eutanasia, ma solo l’11 per cento circa l’ha seriamente presa in considerazione per se stesso. La presenza di sintomi depressivi aumenta la richiesta di aiuto a morire, e anche la possibilità di cambiare idea nel tempo. Chi non è depresso ma vuole morire, generalmente non torna indietro sulla propria decisione. Lo conferma anche uno studio prospettico di coorte uscito nel 2005 sul Journal of Clinical Oncology e condotto in Olanda su malati di cancro, uno dei pochi Paesi in cui sono consentiti sia l’eutanasia sia il suicidio assistito; studio che insiste, tra l’altro, sulla necessità di curare la depressione nei pazienti terminali come parte integrante delle terapie palliative, dal momento che risulterebbe depresso il 44 per cento di coloro che chiedono di morire. Anche studi effettuati in Oregon su malati di sclerosi laterale amiotrofica o SLA (Ganzini L et al. NEJM 1998; 339: 967-973) e in Australia (Kissane DW et al. Lancet 1998; 352: 1097-1102), ambedue Paesi dove l’eutanasia è o era legale, forniscono dati analoghi, seppure in percentuali minori.Tutto chiaro, allora? Non proprio, perché uno studio uscito su Neurology nel 2005 mi ha fatto molto pensare: una ricerca retrospettiva su malati di SLA ha dimostrato che il 20 per cento circa aveva chiesto di morire e che in quasi tutti i casi risultavano sintomi di depressione alle scale di valutazione usate per diagnosticare questa malattia. Se però si escludono dalle scale stesse le domande che riguardano direttamente la cosiddetta “ideazione suicidaria” (cioè se si è mai pensato al suicidio, se si desidera morire), i pazienti che chiedono l’eutanasia non risultano più depressi degli altri. In pratica, siamo in pieno nel classico gatto che si morde la coda: voglio morire perché sono depresso (oltre che inguaribilmente malato), ma sono anche depresso perché voglio morire, e questo è considerato, nelle scale di misurazione della depressione, un sintomo inequivocabile di questa patologia psichiatrica.Anche familiari e infermieri di pazienti deceduti a seguito di suicidio assistito in Oregon affermano che la depressione non è la molla principale, bensì il desiderio di controllare i tempi e le modalità della propria fine, per andarsene con dignità e ancora in possesso delle proprie facoltà mentali, come è accaduto a Claus.I problema, adesso, è degli psichiatri e degli psicologi, chiamati a valutare la depressione nei pazienti terminali con strumenti diversi da quelli utilizzati normalmente: un compito arduo, tanto che la depressione appare la prima causa di rifiuto del suicidio assistito in Olanda, dove è legale solo se approvato da un’apposita commissione medica. E anche gli psichiatri dell’Oregon, interrogati sull’American Journal of Psychiatry nel 1996 , due anni dopo la legalizzazione del suicidio assistito, si dicevano spaventati dalla sfida e incompetenti a valutare.Per quel che mi riguarda, penso che casi come quelli di Piergiorgio Welby o di Giovanni Nuvoli (così come quello di Chantal Sebire), in cui la volontà di gestire la propria morte viene espressa con tanta determinazione e perseguita per un periodo così lungo e senza tentennamenti, costituiscano una sorta di “diagnosi per manifesta evidenza” dell’assenza di depressione. È una sensazione e non una valutazione scientifica. Ma gli strumenti che usano gli psichiatri sono, in questo caso specifico, sufficientemente “scientifici”?Autrice: Daniela Ovadiahttp://ovadia-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/