Il trono conteso

Post n°3 pubblicato il 10 Novembre 2005 da andrearts81

Per vendicarsi di Nut, Geb volle farla soffrire, impedendole il parto.
“Non ci sarà giorno dell'anno in cui tu possa dare alla luce i tuoi figli”, decretò. “Prigionieri del tuo ventre, non potranno vedere il tuo volto, né tu potrai vedere il loro”.
Ma Thot venne in aiuto all'amata. Non c'era rimedio che non riuscisse a trovare il signore della sapienza; non c'era ostacolo che non potesse aggirare.
In quell'occasione il Dio inventò i dadi, e sfidò al gioco il rivale, fissando come posta d’ogni partita un giorno dell'anno. Così, vincendo per cinque volte, guadagnò i giorni necessari a Nut per partorire.
La Dea accolse con esultanza il suo primogenito: Osiride.
“Ecco: viene alla luce il signore di tutte le cose, il discendente diretto di Atum-Ra, l'erede del trono d'Egitto, che Ra per primo ha occupato”.
Ma già Seth, impaziente di uscire, premeva con tale violenza da squarciare il fianco di Nut, squassata dalle doglie.
“Attento, Seth! Le mie dita sono coltelli taglienti, le mie unghie lame di metallo”, ammonì la Dea. E sentì di odiare irrimediabilmente quel figlio prepotente e malvagio.
Il travaglio non era finito. Vennero ancora alla luce due femmine: Iside, volitiva e tenace, che Osiride fece sua sposa, e Nefti, docile e tranquilla, che si rassegnò a sposare Seth senza amarlo.
Se fin dal momento della nascita i due maschi avevano rivelato la profonda diversità dei loro temperamenti, l'antagonismo andò crescendo con il passare del tempo: Seth detestava Osiride, che uomini e Déi mostravano di apprezzare tanto.
L'avversione si trasformò in odio, quando Nefti, fingendosi Iside, si fece ingravidare dal fratello maggiore, per riuscire ad avere il figlio che il marito non poteva darle a causa della sterilità che lo affliggeva.
Iside perdonò l'involontaria infedeltà del suo sposo. Ma Seth non aspettava che il momento opportuno per sbarazzarsi del gemello.
Divenuto sovrano d'Egitto, Osiride dedicò ogni cura al suo regno. Fissò le leggi, regolò le piene del Nilo, insegnò al suo popolo a coltivare i campi e a pregare gli Déi, mantenendo il controllo del territorio senza far uso di armi, semplicemente avvalendosi della forza persuasiva della parola, della musica e del canto.
La sua saggezza era tale che non di rado, invitato a civilizzare altre regioni, lasciava l'Egitto, affidandone la reggenza a Iside, di cui Thot era saggio consigliere. Gli accadde così di trovarsi in Etiopia, all'inizio dell'estate, quando il Nilo incominciava a gonfiarsi.
“Costruite robuste dighe sulle due sponde, per contenere la piena!”, dispose allora. “Ma lasciate che esca acqua sufficiente a fecondare le campagne circostanti”.
Poi si spostò verso il Delta, attraversò l'Arabia e giunse fino in India. Percorse le regioni dell'Asia e dell'Europa, insegnando dovunque agli uomini a coltivare il grano e lavorare i metalli; e dappertutto gli vennero dedicati templi ed eretti monumenti.
Nel frattempo, Seth aveva preparato un piano per spodestarlo. Corruppe un servo per procurarsi le misure precise del sovrano; quindi cercò la regina d’Etiopia, da sempre ostile al fratello.
“Aiutami, nel tuo vantaggio, a liberarmi di Osiride”, le disse. “Fa' costruire dai tuoi esperti artigiani una cassa riccamente intarsiata, in cui egli possa essere esattamente contenuto”.
Il Dio fece ritorno alla reggia nel ventottesimo anno di regno, mentre Iside era assente. In suo onore venne comunque organizzato un fastoso banchetto, a cui Seth si presentò col sarcofago.
“Benvenuto, fratello!”, lo salutò Osiride. “Ma che è quell'ingombro che ti porti dietro?”
“Un dono prezioso che mi è stato fatto. Guardate, guardate tutti!”
Gli Déi fecero cerchio, incuriositi; e tutti magnificarono l'arca d’ineguagliabile fattura.
“Sono disposto a cederla a chi ci starà dentro di misura”, buttò là Seth, guardandosi attorno.
Non riuscivano a capacitarsi che volesse davvero privarsi di un simile oggetto.
“Per la verità”, disse il Dio con aria indifferente, “dubito che l'avrà qualcuno dei presenti. Ma ci divertiremo un po'. Coraggio, chi vuole provare per primo?”
Fecero a gara per stendersi nella cassa, ma nessuno risultò di giusta taglia. Uno era troppo alto, l'altro eccessivamente basso, un terzo straboccava ai lati.
Allora Seth si rivolse al fratello: “E tu? Non vuoi stare al mio gioco?”.
Osiride si distese ridendo nel sarcofago. Quando videro che vi entrava di misura, gli Déi compresero di essere caduti in un tranello.
“Seth ci ha ingannati”, dissero tra loro. “Ha finto di metterci tutti alla prova, perché anche Osiride accondiscendesse a prendervi parte. Dobbiamo aiutarlo ad uscire”.
Ma, prima che qualcuno potesse intervenire, già Seth aveva fatto sigillare dai suoi fedeli l'arca con piombo fuso e, dopo averne fissato con chiodi il coperchio, aveva dato ordine di gettarla nel Nilo.
Tolto di mezzo il fratello, si proclamò sovrano d'Egitto.
Quando Iside venne a conoscenza dell'accaduto, fu presa da immenso dolore. In preda alla disperazione, incominciò a vagare per il paese, spingendosi fino alle più remote contrade, per ritrovare il corpo del suo sposo; e domandava di lui a quanti incontrava.
Alcuni ragazzi le diedero infine una traccia: “Laggiù abbiamo visto gettare nel Nilo una cassa; ma le acque l'avranno trascinata chissà dove”.
La Dea seguì il fiume fino al mare e ne costeggiò per un tratto la riva, finché nei pressi della fenicia Biblos non le capitò di sentire parlare dalle ancelle del re di un albero prodigioso cresciuto sulla spiaggia all'improvviso, col suo intrico di fronde.
“Quando è accaduto?”, s’informò.
“Poco tempo fa”, le risposero. “Correvano tutti a vederlo”. “Mostratemelo, dunque!”
“Il re lo trovò così bello che lo fece portare a palazzo, per farne un pilastro”.
Iside pensò: "Quella pianta è certamente nata per celare a sguardi indiscreti, nel viluppo dei rami, il sarcofago in cui Osiride è rinchiuso”.
Nascondendo la sua natura divina, chiese quindi ospitalità alla reggia, e si mostrò tanto abile nell'acconciare i capelli e profumare il corpo della regina che il piccolo principe venne affidato alle sue cure.
“Ricompenserò questa gente per le premure con cui mi ha accolta”, decise la Dea. E si accinse a bruciare le parti mortali del bimbo, per sottrarlo alla morte.
La madre la sorprese mentre esponeva alle fiamme il corpicino e, urlando d'orrore, si precipitò su suo figlio, per strapparlo alle mani di Iside.
“Il tuo inopportuno intervento ha spezzato l'incantesimo che stavo compiendo per rendere immortale il bambino: perché io sono Iside, potente in magia, e questo volevo fare per te!”, disse irritata la Dea.
Si gettarono tutti ai suoi piedi, e la regina prostrata invocò il perdono dalla Sua Maestà.
“Ordina, Iside, e ti ubbidiremo”, dichiarò il sovrano.
“Venererete il mio nome”, rispose, mostrandosi in tutto il suo splendore, “e in pegno della vostra devozione accetterò in dono l'albero che è stato portato alla reggia dalla spiaggia sulla quale era nato”.
Venuta così in possesso dell'arca di Osiride racchiusa nel groviglio dei rami, la trasportò in Egitto, e solo allora ruppe i sigilli, riportando alla luce il cadavere incorrotto dello sposo.
“Ti nasconderò nelle paludi del Delta, mio adorato, perché tu non corra nuovi pericoli, in attesa di restituirti la vita”, disse abbracciandolo la Dea.
Ma Seth rintracciò il corpo e lo smembrò in quattordici parti, che disseminò in tutta la regione.
Iside disperata chiese aiuto a Nefti e, insieme a lei, su una barca di papiro, perlustrò l'intero territorio del Nilo.
“Dove sei, mio amato?”, invocava piangendo. “Se ancora mi hai cara, torna alla tua dimora! Ti chiama la sorella che ami, la sposa diletta che non sopporta di starti lontana. Il mio lamento disperato giunge fino a Ra: e tu non mi senti, Osiride, vita della mia vita”.
Ad una ad una le Dee ritrovarono le membra sparpagliate, e un tempio venne eretto in ogni punto in cui ne recuperarono una. Allora il cuore di Ra si commosse.
“Ricostituite quel corpo martoriato”, ordinò a Thot e ad Anubi.
Con abile mano i due Déi ricomposero la salma e l'avvolsero in bende, compiendo i riti della sepoltura.
Mancava però il pene di Osiride, che era stato mangiato dai pesci. Iside ne preparò uno d'oro massiccio, e con un incantesimo richiamò in vita lo sposo per giacere con lui.
Quella notte, la sola che il Dio poté ancora trascorrere in terra, fu concepito Horus, che doveva succedere al padre sul trono usurpato da Seth. Osiride scese quindi nell'oltretomba, e ne divenne re. Iside, con la lunga chioma ondeggiante, coronata di fiori variopinti e l'abito disseminato di stelle lucenti, con in pugno il suo sistro di bronzo, annunciò allora cantando che la morte era stata sconfitta.
“Esultate tutti, perché ho vinto il destino, e d'ora in poi, grazie a me, l'uomo potrà estendere la vita oltre il tempo che gli è stato assegnato. Vi addormenterete per destarvi, o uomini; morirete per vivere”.
Ma ecco che il prudente Thot disse a Iside: “Nasconditi con tuo figlio, il bimbo che viene verso di noi. Quand' egli sarà diventato grande e forte, gli farai prendere possesso del trono delle Due Terre”.
Era sera, quando la Dea lasciò la sua casa, scortata da sette uomini-scorpione. Pete, Tetet e Matet la precedevano, aprendole la via; Mestet e Mestetef stavano sotto il palanchino, Tefen e Befen le proteggevano le spalle.
Raccomandò loro: “Tenete i volti abbassati, non riconoscete un Nero, non volgete il saluto ad un Rosso, non fate distinzione tra un nobile ed un miserabile, per non mettere sull'avviso chiunque intenda ricercarmi, fino a che non abbiamo raggiunto la palude e i sicuri nascondigli di Khemmi”.
Ma, mentre si avvicinavano alle case, una ricca signora li scorse da lontano e sbarrò le porte della sua dimora davanti a Iside, che fu invece generosamente accolta da un'abitante della palude. Mentre si riposava, i compagni della scorta concertarono di punire chi l'aveva respinta e, messo in comune il loro veleno, lo caricarono sul dardo di Tefen. Passando sotto i battenti dell'entrata, l’uomo-scorpione si introdusse nell'opulenta casa, e trafisse a morte il figlio della dama.
La donna, disperata, invocò aiuto. Ma nessuno era in grado di soccorrere quell'innocente: e Isidede ne ebbe pietà. Si presentò alla madre, dicendo: “Mio padre mi ha istruita nella scienza, perché sono la sua figlia prediletta. Sono Iside, la maga possente. Arresto i rettili con il mio comando, e la mia bocca possiede la vita”. Quindi, imponendo le mani al bambino, ordinò: “Non penetrare, veleno di Tefen; gocciola a terra, veleno di Befen; cadi, veleno di Mestet; non scorrere, veleno di Mestetef; non diffonderti, veleno di Pete; non circolare, veleno di Tetet; non avanzare, veleno di Matet! Risànati, ferita! Te lo impone la divina Iside, l'amata di Ra, alla quale Geb trasmise i suoi poteri”.
Ma, quando il bimbo si levò guarito, la Dea impose alla dama di portarle le sue ricchezze, dicendo: “Ne riempirò la casa della donna della palude; che mi ha accolta nella sua capanna, mentre tu davanti a me sbarravi l'uscio”.
Horus, il piccolino dai sandali bianchi con il dito in bocca, destinato a regnare per oltre tredicimila anni sull'Egitto, rimase a lungo nascosto tra i papiri del delta paludoso.
Quando Iside si accorse che il suo latte era scarso, andò questuando tra gli uomini, per avere di che nutrire il figliolo. Un giorno, tornando, trovò il bambino adorato, il piccolo senza padre, riverso sul terreno.
“Seth ha scoperto il nostro nascondiglio”, fu il primo pensiero della Dea, mentre si gettava sul corpicino inerte, lanciando un altissimo grido.
I pescatori della palude, subito accorsi, unirono i loro lamenti a quelli dell'infelice madre, incapaci di far altro per lei.
Ed ecco avvicinarsi una donna di grande sapienza e di stirpe regale, il cui nome era Selkis.
“Non temere, piccolo Horus! Non disperare, madre del Dio! Qui tuo figlio è al riparo dal male: non lo può raggiungere la morte, poiché Seth non percorre la regione di Khemmi. Cerca dunque altrove la ragione per cui giace incosciente, e grazie a te vivrà. Forse l'ha punto qualche bestia nociva”.
Isidede allora si accorse che l'alito di Horus rivelava la presenza del veleno, ed invocò suo padre.
“O grande Ra, l'erede del tuo erede, il bimbo sacro, il piccolino d'oro che non ha più padre, è stato punto. Invano gli ho cercato un nascondiglio, temendo per lui, fin da quando era ancora nel mio grembo. Rendigli la vita!”
Nefti, prontamente accorsa, piangendo esortava Iside a levare più alto il suo grido, per arrestare nel cielo l’astronave dei Milioni d'Anni. E finalmente Thot, disceso dall'astronave, venne a rassicurare le Dee.
“Non abbiate timore! Io porto soffi di vita. Si stende su Horus la protezione di Colui che con i suoi occhi illumina la Terra, il primogenito di lassù, il grande Nano che percorre l'aldilà dopo il tramonto. Veglia su Horus il nobile falco che attraversa volando il cielo, la Terra e l'aldilà, dove sono invisibili le cose e i vivi si rivolgono indietro. Proteggono Horus i nomi di suo padre, la magia di sua madre, gli Déi che lo circondano. Svegliati, Horus, vendicatore di chi ti ha generato! Immobile rimarrà la barca di Ra, i giorni ancora nell'ombra non verranno, le sorgenti del Nilo si disseccheranno, il nutrimento sarà tolto ai vivi, finché Horus non sarà guarito per sua madre Iside”
Il bambino d'oro si levò allora in piedi, e corse tra le braccia della Dea.
Raggiunta la maturità, il figlio di Osiride si presentò al tribunale degli Déi presieduto da Ra, per vedere riconosciuto il suo diritto al trono che Seth abusivamente occupava.
Thot stava in quel momento presentando al Signore degli Déi il sacro Occhio". “La giustizia è signora della forza”, sentenziò Shu, figlio di Ra. “Accogli la richiesta di Horus”.
“Sarebbe giusto un milione di volte”, aggiunse Thot. “Abbia Horus l'anello regale del nome e la bianca corona d'Egitto”. Iside lanciò un grido di gioia.
“Vento del nord”, disse, “va' verso occidente, porta a Osiride la gioiosa notizia”. “Come vi permettete di decidere da soli?”, intervenne Ra. E si chiuse in un corrucciato silenzio.
Allora Seth propose: “Meglio sarebbe che me la vedessi direttamente con Horus, affrontandolo in duello. Così l'Enneade potrà constatare quanto io valga più di lui”.
Il saggio Thot si oppose: “Dobbiamo semplicemente stabilire chi ha ragione e chi ha torto. Non è Horus, figlio di Osiride, il suo legittimo erede?”
Ma ad un giovane inesperto Ra preferiva Seth, il nume dalla gagliarda forza, che lo affiancava, la notte, sull’astronave dei Milioni di Anni. “Si chiami Banabgedet, il grande Dio vivente, perchè giudichi lui”, stabilì. Il Dio dell'isola di Setit giunse insieme a Ptah-Tenen; ma reclinò la responsabilità di emettere un verdetto: “Meglio sarà mandare una missiva a Neith, la divina madre, e fare quello che lei decreterà”.
L'Enneade affidò a Thot l'incombenza.
E questo scrisse il Dio: “Il re dell'Alto e del Basso Egitto, Ra-Atum, il Disco che percorre il cielo, il Nilo potente, il Toro in Eliopoli, preoccupato per l'eredità di Osiride, ti chiede come risolvere il contrasto che si trascina da ormai ottant'anni”.
Così rispose all'Enneade la madre divina: “Sia dato a Horus quello che è di Horus; e al signore dell'universo si dica: "Compensa e consola Seth, concedendogli le tue figlie Anat e Astarte!".
Quando la lettera venne letta da Thot agli Déi che sedevano nella Grande Sala, approvarono tutti. Ma il Signore dell'Enneade li tacitò, irritato.
“La bocca di Horus sa ancora di latte, le sue membra sono deboli per reggere un regno. E poi perché dovrei rimetterci di mio?”
“Perché troppo a lungo sei stato indeciso”, intervenne Thot. “Non serve al tribunale un presidente inetto”.
E Baba aggiunse: “Il tuo tempio è vuoto”.
Il cuore di Ra fu invaso da grande tristezza a quelle parole.
Allora l'Enneade si volse contro Baba: “Vattene fuori! Il crimine che hai commesso è molto grande”.
Gli Déi se ne andarono alle loro dimore; e Ra passò un giorno intero disteso sul
dorso nel suo padiglione, solo e scontento.
Ed ecco che Hathor, la signora del sicomoro del Sud, si fece avanti, e si scopri il sesso davanti a suo padre, suscitandone il riso.
Allora il grande Dio si alzò e, raggiunta l'Enneade, ordinò ai due pretendenti al trono di esporre le loro ragioni, perché i giudici prendessero una decisione. Parlò per primo Seth.
“Domandatevi solo: è preferibile che regga il regno chi è giovane e inesperto o chi è in grado di affrontare qualunque evenienza con accortezza, astuzia, abilità e coraggio? Stando alla prua dell’astronave dei Milioni di Anni, io uccido ogni giorno i nemici di Ra, quando di notte attraversa l'oltretomba per tornare ad oriente al mattino”.
“Ha ragione”, convennero gli Déi.
Ma Thot protestò con veemenza: “Si darà dunque la funzione di sovrano al fratello, mentre è vivo il figlio?”.
E Banebgedet, di rimando: “Si darà la funzione al bambino, quando c'è Seth, suo fratello maggiore”.
Iside allora gridò: “Si mettano queste parole davanti ad Atum, il principe di Eliopoli, a Khepri, che sta nell’astronave dei Millenni!”.
“Non ti inquietare”, disse conciliante l'Enneade. “Il diritto verrà accordato a chi tocca”.
Ma Seth si levò sdegnato: “Chi ha concesso a Iside la parola? Non ha alcun diritto di aprir bocca: non può dare un giudizio imparziale, dal momento che è madre di Horus”. E, facendo roteare il suo scettro, pesante quattromilacinquecento nemes, aggiunse minaccioso: “Ucciderò ogni giorno uno di voi, se il processo non verrà trasferito in un luogo dove a costei sia vietato di entrare”.
Il tribunale si riunì dunque in un'isoletta del Nilo, e Ra ordinò ad Anti, il traghettatore, di non far salire sulla sua barca nessuna donna che assomigliasse a Iside. Ma, mentre gli Déi sedevano a mangiare, la Dea si presentò al barcaiolo. Aveva assunto l'aspetto di una vecchia, che portava al dito un sigillo d'oro, e camminava curva, reggendo una terrina di farina.
“Portami nell'isola in mezzo al fiume, perché possa preparare da mangiare al mio figliolo, che da cinque giorni è là per badare al bestiame, ed è certo affamato”, disse.
“Mi dispiace”, rispose l'uomo. “Mi è stato ordinato di non traghettare alcuna donna”.
“Questo per via di Iside. Ti pare che io le assomigli?” “No certamente. Ma che ci guadagno a favorirti?” “Ti darò una pagnotta”.
“E io dovrei, per un pezzo di pane, rischiare un rimbrotto, dopo che mi è stato imposto di non trasportare femmine sul fiume?” “Ti darò il suggello d'oro che vedi alla mia mano”. Il barcaiolo accettò.
Sbarcata sull'isola, Iside s’inoltrò fra gli alberi, e tosto scorse gli Déi seduti a mangiare pane, davanti alla tenda del loro Signore. Allora con una formula magica si trasformò in un'avvenente giovane donna.
Appena Seth la vide, desiderò possederla. Le mosse incontro, e la chiamò da dietro un sicomoro.
“Vieni qui da me, bellezza”.
“Volentieri”, rispose prontamente la Dea. E, come bisognosa di conforto, tra. una moina e l'altra, prese a raccontargli di come suo cognato, dopo che era rimasta vedova, volesse portare via con la forza a suo figlio l'armento del padre.
“Il figlio è legittimo erede, e nessuna pretesa può avanzare il fratello”, dichiarò Seth, sollecitato ad esprimere il proprio parere.
“Finalmente!”, esultò la sorella, volando a posarsi in cima ad un albero, mutata in nibbio. “È la tua bocca stessa a darti torto: ti sei giudicato da solo”.
“Mi hai raggirato”, protestò Seth.
Ma Iside proseguì, senza prestargli ascolto: “Hai riconosciuto di usurpare un titolo che in nessun modo ti spetta. Adesso a Ra non resta che emettere il verdetto”. Seth corse da Ra piangendo.
“Ché c'è ancora?”, volle sapere il Signore degli Déi.
“Quella perfida mi ha nuovamente infastidito. Ha assunto l'aspetto di una bella donna, e ha incominciato a raccontarmi di essere la moglie di un mandriano, rimasta vedova. Ha inventato poi che il fratello del morto avanzava pretese sul bestiame, minacciando suo figlio. Ecco che cosa quella bugiarda mi ha detto”.
“E tu che hai risposto?”
“Si darà dunque ad altri il bestiame, quando c'è il figlio del mandriano? Spetta al ragazzo quanto era del padre”.
“Ti sei affossato da solo”, lo zittì Ra spazientito. “Con le tue stesse labbra hai pronunciato nei tuoi confronti un giudizio di condanna. Perciò Horus reggerà sul capo la bianca corona che già fu di Osiride”.
“Che cosa mi ripagherà di quel che perdo?”, piagnucolò Seth. “Mi darai le tue due figlie, secondo il responso di Neith?”
“Non se ne parla neppure. Hai torto, per tua stessa ammissione. Ma, se ti potrà essere di qualche sollievo...”
“Sì ...?”
“Il traghettatore verrà punito”.
Anti venne condotto davanti all'Enneade, e gli fu tolta la parte anteriore dei piedi.
Tra l'esultanza degli Déi e dell'intero paese, Horus salì dunque sul trono d'Egitto che era stato del padre.
Seth tuttavia impegnò ancora il giovane re in una serie di sfide, sino a che non fu definitivamente battuto.
Disse allora Ptha: “Che si farà di Seth, adesso che Horus ha preso il posto di Osiride?”.
Rispose Ra: “Mi si dia Seth, perché sieda con me come un figlio. Potrà urlare nel cielo, e gli uomini avranno paura di lui”. Quindi esortò: “Acclamate tutti, prostratevi a terra davanti a Horus, figlio di Iside!”.
La Dea esclamò lietamente: “Horus è sovrano. L'Ennéade è in festa, il cielo si rallegra, tutta la Terra esulta, perché Horus è salito sul trono di Osiride, signore di Busiri”.

 
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L'occhio di Ra

Post n°2 pubblicato il 10 Novembre 2005 da andrearts81

Anno dopo anno, Ra era invecchiato, per quanto le sue ossa fossero d'argento, le sue carni d'oro, le chiome di preziosi lapislazzuli.
È ormai decrepito per governare, pensavano gli uomini. E facevano progetti per liberarsene.
Il Dio amareggiato convocò gli Déi che stavano con lui quando era nel Nun, lo sconfinato oceano che abbracciava l'intero creato e i confini dell'oltretomba; e invitò Nun stesso nel Grande Palazzo.
Gli Déi lo attorniavano, inchinandosi a lui. “Parlaci”, dissero. “Ti ascoltiamo”.
“O Dio nel quale venni in esistenza, e voi tutti, Déi primordiali! L'umanità ingrata, nata dalle mie lacrime, mi si rivolta contro e trama per destituirmi. Ditemi che cosa pensate al riguardo. Io non sterminerò quella razza malvagia, finché non avrò conosciuto il vostro parere”.
Rispose la Maestà di Nun: “Figlio mio, tra tutti il più forte che io abbia creato! Siediti sul tuo trono: grande è il terrore che incuti, quando il tuo Occhio si volge contro i tuoi nemici”.
“Ecco: gli uomini già sono fuggiti nel deserto, poiché i loro cuori tremavano al pensiero del meritato castigo”, disse la Maestà di Ra.
“Ebbene, manda il tuo Occhio a snidare e afferrare per te quanti progettano qualcosa di male. Ma fa' che scenda sulla terra come Hathor, per essere in grado di uccidere!”, esortarono gli Déi.
Andò quella Dea, e decimò i rivoltosi nel deserto.
“Benvenuta in pace, Hathor, che hai compiuto per me ciò per cui ti ho inviato”, disse allora la Maestà di Ra.
“Ho avuto vittoria sugli uomini, e se ne è rallegrato il mio cuore. Domani terminerò il massacro, come leonessa assetata di sangue”, ribatté la Dea.
Così nacque Sekmet, la Potente, e si abbandonò al sonno, spossata dalla fatica, per ultimare l'indomani la strage.
Ma il Dio si sentì invadere il cuore da una grande pena, e consultò gli altri Déi per salvare i superstiti, poiché il tempo incalzava.
“Fate venire rapidi messaggeri, che corrano come l'ombra di un corpo, e portino da Elefantina rossa ocra”, dispose.
Le schiave schiacciarono l'orzo e ne fecero birra, in cui disciolsero la terra macinata, per renderla simile a sangue. Quando ne furono pronte settemila giare, Ra disse: “Ecco, così proteggeremo gli uomini. Portate la birra al luogo dove deve avvenire la strage, e versatela sul sentiero di Sekmet”.
Prima che finisse la notte, l'ordine era stato eseguito.
Destandosi, la Dea trovò il terreno allagato sino a tre palmi d'altezza. Ingannata dal colore, si gettò nella birra credendola sangue, e ci sguazzò dentro fino a cadere tramortita dall'ebbrezza.
Gli uomini sfuggirono in tal modo allo sterminio.
Dispose allora la Maestà di Ra: “Nella celebrazione della festa annuale, si preparino per questa Dea bevande soporifere e le si distribuisca tra le schiave”. Questa è l'origine dei rituali per la festa di Hathor fin dal primo giorno.
Ma aggiunse la Maestà di Ra: “La malvagità degli umani mi ha deluso. Sono stanco di vivere con loro”.
Lasciò l'Egitto, desideroso solamente di salire al cielo e ritirarsi sul dorso della Vacca Celeste.
A Geb consegnò le insegne della regalità.
A Thot affidò l'incarico di insegnare agli uomini la scienza racchiusa nei segni sacri dei geroglifici che aveva inventato.

 
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