Creato da nahan il 17/12/2008
Gonna find my way to heaven, `cause I did my time in hell... (Keith Richards)
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Il più feroce è l’inganno vigliacco di chi ci rifila un danno per frode. Ma pure usiamo inganni per proteggerci dal nemico aggressore. L’inganno in effetti è un’arma, usata via via, nei casi, per colpire, difendersi o perpetrare abusi. Nel mestiere militare son chiamati “stratagemmi” ben spiegati tra l’altro in un bellissimo libro cinese sull’arte segreta della strategia per difendersi e vincere su ogni campo di battaglia e così nella vita. Diversa luce emana la furbizia dell’arrogante che inganna per carpire a proprio fine: che sia il semplice passare avanti in una coda, all’atroce vigliaccata dell’arraffare la buonafede dell’indifeso. Ma ancor più dissimile e lontana da ogni confronto la menzogna o l’inganno che accompagna le pulsioni amorose. Perpetrato o subìto, l’inganno in questi frangenti è in realtà il rovescio di un’identica medaglia che ci si appende al collo, premio, vincitori o vinti. Sia negli ardori giovanili che velano la realtà, sia nelle mature certezze del controllare i dubbi e ancor più nel senile buonsenso del disincanto, noi tutti si inganna o ci lasciamo ingannare dall’intelligenza nascosta, e spesso ipocrita, del “… è colpa sua!”, logica assunta reciprocamente per potersi assolvere mentre ci sbafiamo il dolce dessert cucinato per altri. Direi quindi che sia buona norma, nella circostanza, l’allontanare da noi ogni idea di giudizio.
Del resto la vita è spesso tanto amara…
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Pavese pone in rilievo il tema della libertà, dello svincolarsi della necessità, dell'oziare e trovarsi nel nulla, con la coscienza costretta a prendere atto della propria condizione, del proprio passato... (da una recensione di Antonio Saccà)
Togli "Pavese" e metti "quarantena" e di colpo scopri che il pensiero di questi giorni è stato altrettanto considerato e scritto tempo fa. È il bello del leggere... pur in solitudine non sei mai solo. |
Post n°139 pubblicato il 29 Dicembre 2019 da nahan
- Bentornata, Miss Odile, ricamatrice di pensieri! - È gentile, Nahan ma il maestro è lei. - E cosa insegnerei, di grazia? No, mia cara, si tenga i complimenti meritati! - Va beh, se proprio insiste me li tengo così potrò fare a meno di una porzione di dolce a tarda sera. - Ma no! Si mangi pure il dolce! - Le confesso che il dolce è funzionale a riempire vuoti... - Edulcoro un ferino “no comment” con un etereo auspicio: che il “sostituire” diventi complemento! - Un miscuglio di deliziosi turbamenti,dunque. - E quale contesto migliore in questo bigio autunnale? - L'autunno mi si addice e ancor più l'inverno...del resto una donna semplice non chiede nulla di più della poesia delle piccole cose che provano a ricomporsi sotto il suo sguardo severo (quest'ultimo pensiero richiede uno sforzo d'interpretazione anche per me). - Leggo quello che scrive esattamente come guardo il centrino ricamato: e il vecchio comò si permea di un autunno d’antichità! E il capire è respiro. - Mi assimila a donna d'antan? - La considero una donna che sa condurre in altri tempi...
Odile, pseudonimo, tra i suoi innumerevoli, di un'adorata, capacissima blogger amica... |
Quale miglior legame il comprendersi tacendo difesi nelle intime ansie di custoditi segreti.
Intuiti e taciuti resteranno sempre tali. Se esistono modi diversi di amare questo è certo il più profondo.
E in sostanza l'unico che conosco.
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Carissimi, come state? Qui si sta come le foglie sugli alberi autunnali. Scusate la citazione ma non sapevo proprio come partire. Ho mille cose da dirvi e questo troppo ne intoppa il fluire. Vi ho rivisto spesso in questi ultimi tempi ed ogni volta era un frastornato trattenere lo slancio verso di voi. L'emozione sincera della gratitudine frenata dalla pragmatica inquietudine dello scrupolo. Di quanto sia vitale il vostro fare. Quanto voi mi siate necessari.
Ci si chiede cos'è l'arte? Ed io meglio non so che parafrasare, forse Dostoevskij: "...è tutto ciò che, con pensieri, gesti, colori, suoni, parole crea l'emozione condivisa!". Un linguaggio. Comunicare. Ci si sente meno soli nell'appartenenza del capirsi.
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Sento come te energia nel nostro stare |
Non hai avuto cura per me sicché neppure io di te Paradosso di un’istintiva incapacità nel rassegnarsi ad essere sia il farmaco che la malattia |
(post riciclato)
Il cancello di casa gli si aprì a tre famiglie. Senza contare gli zii non sposati e quindi poco più che teppistelli. Fu uno di loro, al solito, a portarlo a casa. Diventò quanto quel batuffolo zampettare plantigrado indicava: ad un anno era ormai quello che sarebbe sempre stato: fratello a quel Buck di Jack London, una irsuta selvatica livrea bruna bruciata dal grigio disegnava 50 chili di cane alla forma di un solido terranova vestito a malamute. Iniziò il cucciolo curiosare. Agli ovvi incidenti di percorso del crescere tra galline e conigli rimediò la pedagogia del nonno. Pur lontanissimo dal sapere montessoriano, erudì alla sua crescita e l’immagine di quel gigante che ostenta menefreghismo al becchettargli intorno, fu il risultato di quei dolenti metodi di efficace. Dell’interessarsi ai gatti conseguiva solo scorno. Non gli riusciva di annusarne. Svelti come tali, lo snobbavano annoiati, guardandolo con sufficienza dall’alto di un albero o di un alto davanzale. Finchè, satanico di felicità, gli riuscì lo stringere all’angolo l'allora sprovveduto Saltapicchio, un macilento gattino capitato da noi qualche giorno prima a rinforzare la già nutrita colonia felina. Imparò che non a caso le linee che descrivono quella razza sono quelle del leone, di cui il coraggio: pur terrorizzato da quel faccione ghignante d'annuso, inarcoso, il micino sfoderò le unghiette e lo fornì di un occhio blu da pus e di due settimane di pensiero al perder l'occhio (furono i giorni di un suo circolare sussiegoso, dichiarando a tutti quelli che incontrava pienamente soddisfatta la sua curiosità sui gatti). Che fibra di cane. Il nonno allevava conigli e quindi li adorava e quindi li macellava con la perizia delle tantissime volte. Per misteriosissimi motivi che si è portato con se, pover’uomo, stendeva il macabro vello a seccare al sole. Forse vendeva le pelli, non so, non ne ho idea. Resta che l’affamato la giurò leccornia e se la mangiò dando il via ad una terribile e letale occlusione intestinale. Non si chiamava il veterinario allora per un cane. Un cane era, per quanto amato, un cane. Forse per i rimedi fattucchieri di antichi saperi della nonna ma, credo meglio, per la sua mastodontica vitalità, sta di fatto che dopo un paio di giorni allibiti digerì il tutto e si presentò ciondolante ma allegro ancora ai nostri giochi. Non ci giocavo più di altri e chiunque lo accudiva ma per quelle strane alchimie della vita e, forse più, per quel modo simile al mio di crescere, per tutti diventò, senza dirlo, il mio cane. Significava essere responsabile delle sue malefatte. Amava il calcio ma non mi fu mai possibile inculcargli le regole e le nostre partite finivano sempre con il pallone sgonfio di azzanno: memorabile quando, durante una partita di prima squadra del paese, terrorizzò l’arbitro e sbranò il pallone tra stupore e ilarità degli astanti. Al calcio in culo che gli rifilò lo zio seguì immediato un mio stop al riso divertito e il pensiero: oggi è il caso torni a casa più tardi! Alle ire del punire fuggivamo divergendo. Mentre io scalavo scoiattolo i rami alti del possente albicocco a guardar negli occhi i piani alti della casa (dove incontravo il sorriso divertito della sorellina incredula al pensare che quel fratellone matto volesse entrare senza usare le scale), lui fuggiva ingenuo nell’unico luogo che sapeva rifugio, la sua cuccia, e dove veniva immancabilmente raggiunto dalla personalissima e manesca giustizia del nonno dispensatore. Al seguente silenzio di quel latrare, sia di paura che di dolore, lo raggiungevo e il mesto dell’incatenato si trasformava in allegria dello scodinzolo al nonostante tutto, nel vedermi. E, di contro, nel dolente del “quando toccava me”, lo vedevo arrivare contrito e sincero nel dirmi quanto gli sarebbe stato meglio il prenderle lui al posto mio. Proteggeva tutti gli esseri viventi della nostra tribù, uomini o bestie ed era micidiale di dolcezza con i piccoli. Non morse mai nessuna persona. Bastava il vederlo. Lola, una cucciolotta di pastore tedesco, (ennesima refurtiva istintiva dello zio cleptomane di cinofilo) durante una delle allegre passeggiate organizzate dallo stesso, si intrufolò curiosa dove non doveva e si prese un morso dal tignoso bassotto padrone di casa… il caì spaventato della piccola scatenò il bestione che ridusse a sangue il povero malcapitato (stavolta le rogne furono dello zio). L’occasionale permesso a partecipare ai pranzi o alle “soiree” nella grande sala durante le Grandi Feste Comandate ostinava di convinzione un suo erroneo pensiero all'essere gradito pure nelle cucine. Era scenetta frequente vederlo esplodersi fuori dalla casa mentre il grosso mestolo di rame gli rimbalzava sul groppone. Lesto l’affiancarlo, inseguito ora io dal: lega quel cane! Era anche un buon attore ma con poca cura al costume del travestirsi, sicchè, col faccione appoggiato a terra che usciva dalla cuccia, pur vestendo lo sguardo da pesce lesso veniva smascherato dalle piume ancora appiccicate sugli angoli della bocca: un comico non sufficiente a calmare l'ira delle persone al cancello che mostravano l'oca sbranata. Quel cancello, scordato aperto alle sue fughe, era viatico all’arrivo dei resoconti sorridenti degli amici: aie devastate con la maleducazione del tanto non è roba mia, contadini infuriati, risse tra cani… Gli fece qualche ripetizione il nonno e riuscì a passar l’anno con una sufficienza stiracchiata. Le litanie dei suoi guai snocciolatemi rabbiose quando tornavo si sommavano ai rimproveri dei miei per i miei. Mia madre ci battezzò fratelli mentre mi curava lo zigomo devastato dalla rituale rissa partita con gli "odiati" simili del paese accanto: non so chi è il peggiore tra voi due, te o il cane! e zittiva con un'occhiataccia mio padre e lo zio che, silenziosi e severi, nascondevano l'animo perplesso ad un sorridente orgoglio. Gli parlo: tu credi davvero che sia sempre un gioco? credi davvero funzioni così? fai quello che ti passa per la testa, ti prendi le tue legnate e fine? e via che si ricomincia? Mi rispose con l'entusiasmo del "certo che si!" balzandomi al volto per leccarmi e contemporaneamente sbilanciarmi al trascinarlo. Lottare con lui era gioia muscolare e non certo posa. Certe battaglie strepite sotto gli occhi sbigottiti delle donne atterrite dal latrare zannuto. Capitava che nella foga dell’istinto mi fosse dentata involontaria e allora, contrito e di immediato stop, si lasciava atterrare: era il suo modo per chiedermi scusa. Scuse di cui non ne sentivo certo il bisogno ma non glielo dissi mai: era il mio unico modo per batterlo e i sui morsi mi erano spaventosi solo d’innocuo. Si, la pensavo come lui. In sostanza la nostra comune filosofia era il circumnavigare il cerbero del nonno, incontrarsi sulla quella circonferenza e galoppare via insieme sulle rette divergenti del combinarne. E certe sere stanche, sul prato dietro l’orto, steso a mangiar frutta mi appoggiavo alla sua schiena cuscino e ascoltavo un raccontare silenzioso mentre si leccava i piccoli sbreghi degli scontri con altri molossi, rincretiniti come lui dagli odori delle cagnette. Ed io pure. E pura poesia era il vederlo avvicinarsi al nonno nemico, sul cui viso da sigaro era ospite raro il sorriso, e godersi i buffetti di quelle mani callute. Una scena che rinforzava la mia certezza: sempre e in ogni caso esiste una via d'uscita che porta al sereno.
Purtroppo grande grosso e coglione è sincero motteggio al dipingere l’ingenuo di certi eccezionali. Lui, tonto altezzoso di potenza che annulla l’imparare, l’altro, il nonno, ottuso di abitudine micidiale che derogò solo all’appendere più in alto il pellame dell’ennesimo coniglio macellato per la domenicale polenta. Ma la mia tigre non era colosso per modo di dire e i due metri a quel velenoso appeso non gli furono certo ostacolo, perenne affamato. Stavolta non ce la fece. Dopo una pesante agonia d’occhi da sangue e una sentenza d'impotenza si chiamò lo zio col fucile. Un doloroso gonfiare il petto a uomo forgiava la mia nuova voce. Lo faccio io! Nessuno ebbe niente da ridire, avevo già sparato e, del resto, era il mio cane. Con lo sguardo franco mi si spiegò il dove e come, fermo, che non fosse errore al far soffrire ancorpiù. Sorrisi, certo non visto, a quello sguardo spento. Ma so che mi sentì. E fu un rimbombo da tuono. Le donne, affaccendate in casa, illusero lo sguardo alle finestre ma il terso di un nessun temporale le chinò silenti al proseguo delle faccende, mentre un magone ladro rubò a mia madre la dolcezza del non poter mai più pensarmi bambino.
Tom. Il mio buon Tom. Figlio di una lupa innamorata di un orso. Aveva poco più di due anni. Avevamo la stessa età
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Post n°133 pubblicato il 25 Dicembre 2014 da nahan
...involucri di sentimenti comuni e di certi arrivi amanti dolci nel porsi al deciso darsi sorridiamo allo scordato perchè di tanto amore di cosa ti amavo? Le periferie son tutte uguali... |
Sconveniente, lo ammetto, scrivere senza tempo ma più ancora il non partecipare. Quindi una lirica azzardata e forse poco consona è tutto ciò che schivo scrivo sperando nella clemenza. (traduzione: sono di corsa e, neanche un gran poeta, mi vergogno di ciò che scrivo ma mi preme il contatto)
Musa che asciughi anime di fredda solitudine
a chi cerca passioni
il solo pensarti scalda
povero schiavo
nell’annegar dai sogni (traduzione: avrei davvero bisogno di chi mi passi un soffice e caldo... sensuale accappatoio)
Un'urgenza interiore mi costringe al declamo
ma altro non so dir che di grigiori
che del pensar di te trovan rischiaro
(traduzione: sono a pezzi e mi salva solo l'immaginar delizie)
Si perdoni quindi l'umile ardire
prostro servitore
al tuo comando pronto
(traduzione: beh, io ci provo, hai visto mai…)
e si accetti anelito a missiva
l’estemporaneo osare.
(traduzione: dire e far cazzate è tipico degli scombussolati dall’esigenza)
(traduzione al tutto: cosa non si farebbe per un liberatorio amplesso)
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La lama dell’errore devasta le carni del pensiero frantuma scudi di anime sgomente e allontana stelle
sono tuo simile un ghepardo ferito che frustrato azzanni col tuo non capire
che ignobile falsità la sconfitta del clemente
costretto a ceder passo alla logica imperatrice del severo vivere senza sogni |
Post n°126 pubblicato il 13 Giugno 2013 da nahan
Lungo i bordi di placide malinconie sostano i vecchi leoni a caccia di giovani apparenze.
Senza tentar di essere liberi dal tanto aver fatto sorridono senza suoni.
Note di una musica che rivela il compiersi dell’armonia cercata. |
Lontano dagli ovvi necessari nei giardini delle anime nascoste custoditi e mai toccati
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La siepe vicino casa. Separa la strada dalla china della collina. Mi siedo spesso qui dietro, nascosto, quando voglio starmene un po’ per i fatti miei. Dal declivio i pensieri spaziano a teorie di poggi. E laggiù, un riflesso sottile. Il mare. Eppure, non so perché, ma lì ho sempre la sensazione di non essere solo.
Un illustratore. Quando può copia dal vero. Gli occhi seguono le linee… i colori sono il toccare. Accarezza il fiore bianco, lieve. E lo coglie. Biancospino è una fanciulla sorpresa dal palpito al leggero tocco. E sussulto al pizzico di quello svellere. E impercettibile linfa sullo stelo senza fiore. Ed è goccia mielosa, appesa, nello slancio di quella non caduta. Brilla.
Il vecchio pioppo: Scostumata! Biancospino: Non ho fatto apposta! Il vecchio pioppo: Un po’ di ritegno! Ma guarda ‘sta gioventù! Dove andremo a finire, dico io! L’acacia: E lasciala in pace! Vecchio brontolone rinsecchito come un sentimento senza speranza. Venisse il marito della signora… sopporterei perfino quel rumore infernale mentre fa di te legna da ardere. Il vecchio pioppo: Ma senti che discorsi. Biancospino: Davvero, non ho fatto apposta! Che mi succede? L’acacia: Non ti preoccupare, cara, è solo un po’ di primavera. L’alloro: Capita anche a me quando mi colgono le foglie! L’ortica: Anche a me mi guarda strano, la vecchia contadina… Il sambuco: Preparati, stai per diventare ripieno per ravioli! L’ortica: Ripieno per che?! È orribile… mi difenderò! Il sambuco: Come se la signora non conoscesse il segreto per coglierti senza scottarsi. Basta solo… Il fico: Zitto! Se è un segreto, che lo resti! I giovani noci: Che succede lassù? Il sambuco: Biancospino è in calore! I giovani noci: Ma dai! Hey, dolcezza, allungati da questa parte! L’acacia: Non li ascoltare quei giovinastri… sono solo ragazzacci, scherzano. Smettetela, voi!
Più in là il prato sbiancheggia di risolini. Sono le margherite. Ridacchiano tra loro, comari al pettegolezzo. Ascoltano senza mai partecipare... sono delle ochette. E quando capita di chieder loro qualcosa, si guardano stupite: "chi è questo?" "che vuole?" E ti fan sentire un fesso. Vabbè che del resto, se uno parla con le margherite, è dura accampar pretesa di essere considerato altro... A meno che Margherita non sia la vecchia compagna di banco con la quale, fanciullo teso al curiosare... ah, al solito, sto divagando... ... no, dicevo, non mi sento mai solo quando mi siedo all'ombra di quella siepe. Vabbè! Buona Primavera, signori!
L’ortica: Cosa sono i ravioli?
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Il gruppo di amici nella hall si dispone. Sono coppie. I visi ardiscono alla maschera serena di vacanza che sfratta gli attriti e i pensieri dell’anno. Dal gruppo, l’elegante austero della alta signora si stacca per la reception.
È molto lontano il centro da qui? Sorrisi accennati che cercano occhi. Da dietro il bancone del bureau... Quindi consiglia a piedi? ...pratico ed efficiente il portiere le mostra una piantina Mentre spiega e traccia a penna, posiziona sopra la mappa un foglietto per appunti.. …e con la maestria tipica del personale addetto all’accoglienza, impassibile senza che nessun altro se ne accorga, scrive qualcosa … e vi ritroverete in piazza... Gira il biglietto verso di lei... Vedrà, sarà più semplice a farsi che a dirsi. ...la calligrafia è chiara e decisa: Sei sempre bellissima! …mi creda! Lei è immobile al tradirsi del sussulto interno Posso prenderla... questa piantina? Le dita si avvicinano: al leggerissimo sfioro si cristallizza l’eternità dell’attimo, il ricordo viola il tempo e deflagra. Certamente! Tutto il detto, il loro ridere, quel capirsi. E stato davvero molto gentile, grazie! Nella borsetta il biglietto e l’ansia: Di nulla. Buona giornata Che sia!
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En las orillas del duero
La lotta che si combatte nell’animo umano e che sfugge talvolta alla realtà è ben espressa nell’immagine del visionario “artefice di spettri”
Pensava d’essere ozioso
nelle sue prigioni anguste
e mai ha potuto esserlo
colui che, fermo sulla breccia,
in lotta disperata
contro se stesso combatte.
Pensavano che fosse solo,
e mai lo fu
l’artefice di spettri
che vede sempre nella realtà
il falso, e nelle sue visioni
l’immagine della verità.
Pablo Neruda
AD ALCUNI PIACE LA POESIA
Ad alcuni -
cioè non a tutti.
E neppure alla maggioranza, ma alla minoranza.
Senza contare le scuole, dove è un obbligo,
e i poeti stessi,
ce ne saranno forse due su mille.
Piace -
ma piace anche la pasta in brodo,
piacciono i complimenti e il colore azzurro,
piace una vecchia sciarpa,
piace averla vinta,
piace accarezzare un cane.
La poesia -
ma cos'è mai la poesia?
Più d'una risposta incerta
è stata già data in proposito.
Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo
Come alla salvezza di un corrimano.
Wislawa Szymborska
Inviato da: surfinia60
il 08/06/2023 alle 06:46
Inviato da: surfinia60
il 14/09/2022 alle 16:30
Inviato da: cassetta2
il 12/05/2022 alle 08:58
Inviato da: Deaebasta
il 20/03/2021 alle 08:17
Inviato da: Deaebasta
il 20/03/2021 alle 08:13