Creato da leitraot il 27/10/2005

Nugae

Bisogna continuamente ricominciare dalla fine

 

 

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A PIEDI NUDI

Post n°8 pubblicato il 03 Dicembre 2005 da leitraot
 

CAPITOLO I

LONTANO DA DOVE

PARTE SECONDA

Slacciò le scarpe, il vento accompagnava il dolce rumore della risacca, il nero del cielo, orfano della luna e povero di stelle, l’avvolse come in una carezza. Lenta, cominciò ad allontanarsi.

Via di casa, di uomo e di non-vita, sradicata come dente dolorante dalle fauci di un destino assurdo. A piccoli passi frapponendo assenza, maciullando abitudine, sconfessando rinunce.

 A piedi nudi, lontana, libera e sorda a quella voce che da dentro continuava a sottolinearle l’ingenuità del suo gesto, rimproverandole quanto fosse evidente la necessità di restare e aspettare, per lottare, capire e cambiare, per non mandare in frantumi la fatica profusa nel convincere e convincersi che dividere il presente con Vittorio era amore, amore vero.

Occhi rivolti al vuoto, dritta incontro all’incognita di tempi nuovi in spazi diversi. A piedi nudi verso se stessa ridisegnandosi addosso un’altra ombra.

In tasca il cellulare prese a suonare nel suo trillo ossessivo, Elisa negò voce a Vittorio scagliando in acqua il gioiellino hi-tec e si voltò indietro verso la finestra della camera da letto, poi, con in mano ancora le scarpe, si avviò verso il garage.

Camminava noncurante del contatto ruvido con l’asfalto che dopo pochi metri era subentrato alla sabbia soffice sotto i suoi piedi, e accompagnava la passeggiata scalza a profondi respiri.

Quando scorse la sua vecchia utilitaria accanto al coupè regalatole per riscattare fughe in altri letti tra altre braccia, le parve quasi di recuperare un frammento dimenticato del suo passato. Aprì la portiera e si accasciò al posto di guida. Ingranò la retromarcia, avvertì il trepestio della ghiaia sotto i copertoni ed uscì come un gambero dagli anni trascorsi in quella villa, distante da sé, conforme al modello di non-donna che le avevano imposto di essere.

L’alba la sorprese col viso schiacciato sul volante e le scarpe abbandonate sul sedile accanto. Si guardò intorno, occhiata furtiva nel retrovisore, e riconobbe il caos multietnico del parcheggio antistante la stazione di piazza Garibaldi: una Babele di lingue e volti, una casba straripante di colori percorsa dall’elettricità impaziente di gente in lotta contro le lancette dell’orologio.

Lasciò il guscio verde del suo catorcio e si spinse tra la folla senza accorgersi di aver dimenticato le scarpe. Sin da bambina le seccava costringersi ad indossarle, cercava il contatto col suolo, le permetteva di percepire meglio il suo percorso. Le scarpe erano un divieto all’immediatezza delle sue sensazioni e alla sua libertà, erano un dazio da pagare alla “civiltà” che riusciva a sopportare meno di altri ben più esosi.

 Ma la sua ribellione si consumava soltanto tra le quattro mura di casa o nelle lunghe passeggiate tra la schiuma delle onde che venivano ad infrangersi contro la sua pelle così, mentre riviveva il ricordo dei bonari rimproveri paterni per i suoi piedi disobbedienti, li aveva già ingabbiati coi lacci delle sue nike orgogliosamente d'imitazione, perché se prigione dovevano essere, era inutile preoccuparsi delle griffe.

 Davanti alla biglietteria nessuna titubanza, solo la proiezione della noia di otto ore di viaggio a fermarla dall’avvicinarsi allo sportello. Pensò che con l’aereo avrebbe risparmiato la tortura, che in meno di un’ora sarebbe giunta a destinazione, che per lei, nata e cresciuta in un quartiere costola dell’aeroporto di Capodichino, sarebbe dovuta essere la scelta più ovvia.

Ma volare annullava il legame col suolo, proiettava tra le nuvole e innalzava lo sguardo al cielo squalificando la sua testa curva a contare i passi stanchi di chi vive coi piedi per terra. Per terra, ma nudi.

Scelse il treno, senza stupirsi della naturalezza con cui aveva scartato l’ipotesi più ragionevole. Scelse la vigliaccheria rassegnata delle rotaie: binari contorti a consumare lo strappo prendendo a morsi il grigio scialbo che correva dai finestrini. In un lampo cieli nuovi e case nuove, e vite ignote dietro porte serrate; un carosello monotono che si susseguiva di stazione in stazione.

Rumori, voci impastate su voci in parole spezzate, confuse: mille discorsi addossati a tagliarsi spazio in un brusio senza sosta, sottofondo sconnesso e costante. E odori, intensi, a mescolarsi fra loro, più forti dell’energia inesauribile di quei bambini mai stanchi di inseguirsi nei corridoi. Così piccoli eppure così vivi, Elisa non poté fare a meno di restarne incantata, scostò la testa dalla tendina dietro la quale si riparava dal mondo che correva fuori, chiuse il suo romanzo-antidoto ed alzò lo sguardo verso quei piccoletti ora alle prese con la merenda.

Non c’era nulla di più tenero: occhi brillanti di gioia e mani protese verso la madre esausta che elargiva cioccolato. Quei visetti paffuti riuscivano a farle perdere la cognizione del tempo, riuscivano a congelarle i pensieri. Restò a fissarli estasiata e nostalgica, di loro non aveva paura. Allungò il braccio in una carezza, distese le labbra in un sorriso. Di lì a poco ne avrebbe incontrati tanti, erano loro il motivo ufficiale che giustificava il viaggio, erano loro l’illusione di ricominciare.

Ennesima fuga a celebrare la rinuncia. Ennesima porta chiusa dietro le spalle senza voltarsi, col buio a uniformare il magma dolente dei ricordi e il legno a sigillare una nuova falsa partenza. Ricominciare: morire al passato, imbavagliare giorni pesanti di lacrime per rinascere nella perduta innocenza di una nuova pagina bianca, svolta fittizia da imporre alla vita per impedirle di spegnersi stanca sotto le ceneri di incendi smorzati da noia e sensi di colpa.

Ricominciare: esilio dal prima per costruire un anonimo poi, estranea a se stessa prima che agli altri.

Via dalla sua Napoli, sciolta dall’abbraccio di quel golfo antico ciclope capace di fissare indolente col suo unico occhio e col suo sguardo sopito da anni spogliare l’anima ponendola in conflitto col tempo, per arrivare ad insegnarle la lezione del fatalismo dogma per chi vive all’ombra del Vesuvio.

Nelle orecchie la melodia incalzante di quella lingua affamata che addenta le parole troncandole, per cucirle insieme con la fretta di chi pronuncia i pensieri rincorrendo il ritmo che li vede nascere e poi mutare nell’arco di pochi istanti.

Nel naso il profumo salmastro del mare e sulla pelle il desiderio della carezza delle onde a lambire le caviglie come quando, bambina, si divertiva a correre sulla battigia in un trionfo di schizzi: a piedi nudi picchiando sull’acqua che generosa ritornava alla sabbia in una pioggia di spruzzi festosi.

Commenti al Post:
ParoleMaddalene
ParoleMaddalene il 04/12/05 alle 16:36 via WEB
Spero tanto possa continuarlo.E fai bene a postarlo qui,mi auguro possano leggere in tanti perchè sono righe bellissime.Un bacio angioletto.
 
leitraot
leitraot il 05/12/05 alle 17:27 via WEB
Bacio a te, Morgana..
 
leitraot
leitraot il 05/12/05 alle 17:28 via WEB
Ho seguito il tuo consiglio, Enrico. Spero ora la lettura sia meno stancante. Merci.
 
occhiodivolpe
occhiodivolpe il 05/12/05 alle 21:30 via WEB
il post ha una fruizione divera dalla pagina...bel pezzo , carnale e napoletano,affollato di gusti,sapori e immagini ...
 
 
leitraot
leitraot il 05/12/05 alle 21:45 via WEB
Ricordi, trasfigurati in storia d'altri... Ancora grazie.
 
ParoleMaddalene
ParoleMaddalene il 07/12/05 alle 22:55 via WEB
Tutto bene per l'operazione :) solo stanco e dolorante...bacio,angioletto.
 
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