QUER FATTACCIO

blog di politica, notizie curiose, amenità varie in ordine più o meno sparso, così come mi vengono nello Zibaldone della mia mente...

Creato da Quer_fattaccio il 03/02/2010

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« I RISCHI DEL LINGOTTOCONFESSO: PER ME IL VERO... »

SILVIO E GIANFRANCO, SEDICI ANNI DI GELO

Post n°127 pubblicato il 30 Luglio 2010 da Quer_fattaccio

 

L'alleanza fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini è iniziata ad ottobre '93

 

Il titolo c’è già: «C’eravamo tanto odiati...». E non importa come e quando sia finita, in fondo Berlusconi e Fini sono rimasti due estranei per tutti questi sedici anni, diciassette perfino, se si fa cominciare la storia da quelle fatidiche elezioni comunali del ’93 in cui il Cavaliere, che era ancora un imprenditore, in un’improvvisata conferenza stampa nell’ipermercato di Casalecchio sul Reno dichiarò che a Roma come sindaco, tra Rutelli e l’allora segretario del Msi avrebbe scelto senz’altro il secondo. 

Poco più d’un anno fa Fini, il 30 giugno, alla vigilia del G8 dell’Aquila, aveva ammesso che quel voto «cambiò la storia d’Italia. Ero il candidato di un partito che aveva il quattro-cinque per cento, persi con il 47 e tutto cambiò». A ben vedere, l’equivoco su quel passaggio storico è rimasto irrisolto. Perché Fini è sempre stato convinto che, dato a Berlusconi quel che è di Berlusconi, non gli sia rimasto più alcun debito da pagare, e il suo ruolo nella vicenda del centrodestra sia stato, semmai, sottovalutato: come se appunto la sua leadership e la storia della destra italiana che lui ha trasformato, da partito nostalgico e postfascista a membro di diritto del club delle moderne destre mondiali, non faccia ancora pienamente parte di diritto di quella del centrodestra italiano. 

Berlusconi al contrario pensa che senza il suo scatto del 24 novembre ’93 Fini sarebbe rimasto dov’era, nel suo ghetto di fascista che doveva ancora «uscire dalle fogne». Ci voleva coraggio, occorre riconoscerlo, nell’Italia di Tangentopoli che si avviava a consegnare tutte le metropoli italiane alla sinistra, a uscirsene come se ne uscì quel pomeriggio il Cavaliere. 

Quel che accadde di lì a poco cambiò nuovamente, e inaspettatamente, il panorama politico italiano. Mentre Fini, nel gennaio del 1994, archiviava il vecchio Msi e fondava la nuova Alleanza Nazionale, per spogliarsi del polveroso abito nero postfascista, Berlusconi, il 26 dello stesso mese, inviava la sua famosa cassetta tv ai telegiornali e dava il via alla più incredibile avventura politica mai vissuta in questo Paese. Insieme, di lì a poco, i due si sarebbero ritrovati in quel complicato marchingegno della doppia alleanza, al Nord con la Lega, al Centro e al Sud con An, che il 27 marzo portò il Cavaliere alla vittoria e al suo primo governo, e l’Italia, dal manto rosso uscito dalle recenti comunali, a quello azzurro in cui era avvolto il partito in provetta del Cavaliere. 

Qui la vicenda psicologico-politica del matrimonio freddo tra i due cofondatori conosce un secondo scompenso, destinato ad allungare i suoi effetti fino ad oggi. Mentre infatti Fini cerca di comportarsi con Berlusconi da alleato, facendo la campagna elettorale nell’interesse della coalizione oltre che del suo partito, Bossi non perde occasione per attaccare il candidato premier e il suo alleato meridionale, definendoli, senza mezzi termini, «imbroglioni» e «porci fascisti», apostrofando il Cavaliere come «Berluscone e Berluskaz», definendolo «il Garibaldo di Fini» o più semplicemente «povero pirla», e promettendogli che «la Lega glielo ficcherà in quel posto». 

Si dirà, e Berlusconi lo ha detto tante volte, acqua passata. Ma siccome a quelle ingiurie pronunciate in campagna elettorale, senza che il leader della coalizione trovasse modo di replicare efficacemente, Bossi fece seguire il famoso «ribaltone» di fine ’94, che riportò Fini e il Cavaliere all’opposizione per sette lunghi anni, è comprensibile che il leader di An i due pesi e due misure di Berlusconi nei confronti dell’alleato-concorrente nordista se li sia legati al dito. 

Anche se poi, della durata del periodo di opposizione, la cosiddetta «cavalcata nel deserto», Fini e Casini, che nel frattempo erano diventati amici stabilendo un asse che doveva durare nel tempo, portano la loro parte di colpa. L’uno e l’altro, peccando di presunzione, s’erano messi in testa che Berlusconi e il berlusconismo fossero un fenomeno passeggero. Ed è per questo che alla fine del ’96, quando il governo tecnico di Dini si era esaurito e si tentava di metterne su uno politico di larghe intese affidato a Maccanico, preferirono le elezioni anticipate, contraddicendo il Cavaliere e mettendo in conto la sua sconfitta, che avvenne puntualmente, e la sua uscita di scena, che invece non ci fu. 

Come sia riuscito Berlusconi a tenere insieme quel che era rimasto della sua coalizione, è ancora oggi sorprendente. Bossi se n’era andato per conto suo. Fini e Casini, si capiva benissimo, erano a caccia di altre avventure. Nella Bicamerale D’Alema del ’96-’97 ognuno si muoveva per conto proprio, e quando il Cavaliere, dopo il famoso «patto della crostata», mandò tutto per aria, Fini fece di tutto per soccorrere il leader Pds, inutilmente. Un anno dopo, cogliendo l’occasione delle elezioni europee votate con sistema proporzionale, diede una riverniciata ad Alleanza Nazionale collegandola al movimento referendario di Segni e a una parte dei radicali. La nuova lista, che aveva per simbolo l’Elefante, e correva in aperta concorrenza con Forza Italia, ricevette dalle urne una brutta delusione, fermandosi al 10 per cento laddove Fini alle ultime politiche aveva sfiorato il 14. 

Così che a molti parve un miracolo nel 2001 rivedere insieme i rissosi alleati del centrodestra, compreso Bossi che, novello figliol prodigo, nel frattempo s’era deciso a rientrare. Di quel miracolo, a dire la verità, molte responsabilità le aveva il centrosinistra, che era riuscito ad apparire perfino più litigioso dei suoi avversari nei suoi cinque anni di governo con tre diversi leader a Palazzo Chigi. 

Nella seconda legislatura di Berlusconi premier, 2001-2006, l’asse Fini-Casini, vicepremier e ministro degli Esteri il primo, presidente della Camera il secondo, prese le sembianze di una radicale opposizione interna, un «sub-governo», come venne definito, che arrivò a chiedere e a ottenere la testa del potente ministro dell’Economia Tremonti. Il resto, anche se sono passati anni, è storia che si ripete fino ai nostri giorni. Berlusconi lasciato solo nella campagna elettorale del 2006, persa per soli 24 mila voti (lo stesso avverrà nel 2010). Berlusconi dichiarato finito da Fini, che intona il «de profundis» nel 2007. Berlusconi che il 18 novembre dello stesso anno fonda il nuovo partito sul predellino di piazza San Babila e Fini che commenta: «Siamo alle comiche finali». Berlusconi che trova il modo di espellere dall’alleanza Casini alla vigilia delle elezioni del 2008, Fini che abbandona al suo destino il vecchio amico del «sub-governo», e con una giravolta impensabile anche per i suoi amici dell’ex An torna al fianco del Cavaliere. 

Da allora in poi, dopo la vittoria e la formazione del nuovo governo Berlusconi, con il cofondatore che va a presiedere la Camera, non si contano gli argomenti delle polemiche. Il voto agli immigrati. I troppi decreti. Le troppe fiducie chieste dal governo al Parlamento. La Finanziaria. Il cesarismo nel Pdl. La legge sulle intercettazioni. La difesa della legalità. Il garantismo e le dimissioni dei membri del governo inquisiti, come Brancher e Cosentino. In un «fuori onda», mentre aspetta in studio di partecipare a un talk show con il procuratore Trifuoggi, a Fini scappa detto che «Berlusconi scambia la leadership con la monarchia assoluta». 

La sensazione che il vaso sia colmo e l’alleanza finita precedevano da molto tempo la rottura annunciata e consumata in questi giorni. La previsione era che i cofondatori si sarebbero separati l’anno prossimo, alla vigilia dello scioglimento anticipato delle Camere, ormai messo nel conto apertamente anche da Berlusconi. Invece le elezioni arriveranno anche prima, proprio perché i due alla fine non ce l’hanno fatta a restare insieme.
(MARCELLO SORGI)

 
 
 
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