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La Strada

Post n°27 pubblicato il 02 Gennaio 2009 da altromestesso

Lampi di luce nella caligine. Il primo giorno di un nuovo anno mi ha portato l'assoluta meraviglia di un'esperienza struggente e vertiginosa. Come uno squarcio morale sul Bene e sul Male. la lettura del Libro di Cornac McCarthy (probabilmente nella grafia fonetica errata) di un impatto emozionale al limite del sostenibile. Lacrime purificatrici, mai cosi' abbandonate e inevitabili. Davanti a qualcosa che sta negli stretti paragggi della Verita'. In un mondo del futuro e senza futuro, la strada (il controcanto a Kerouac non poteva essere piu' amaro) verso il Sud (?la speranza) di un uomo e di un bambino, senza altri nomi che non il loro implacabile attaccamento al loro amore. alla Bonta'. Perche' loro sono i buoni, nonostante Tutto, e non si arrenderanno all'abominio della devastazione ("ce la caveremo papa? si, ce la caveremo. ok. Perche' noi portiamo il fuoco? vero papa? si', perche' noi portiamo il fuoco")

Ancora una volta un vecchio di 73 anni americano parla direttamente al cuore.

Sperando che questo fuoco acceso in un anno della postmodernita' guidi ancora ogni mia scelta.

P.S. chi voglia leggerlo - e tutti dovrebbero farlo- NON legga il commento che riporto. Lo legga dopo averlo letto.

"Nessuna lista di cose da fare. Ogni giornata sufficiente a se stessa. Ogni ora. Non c'è un dopo. Il dopo è già qui. Tutte le cose piene di grazia e bellezza che ci portiamo nel cuore hanno un'origine comune nel dolore. Nascono dal cordoglio e dalle ceneri. Ecco, sussurrò al bambino addormentato. Io ho te".
Un padre e un figlio, senza nome, senza niente che non sia il legame indissolubile che li unisce. Non esiste più nient'altro: non esiste più il mondo, la storia, il tempo, la civiltà, non esistono più le città, le case, le famiglie, non esiste più neanche il cielo – perennemente oscurato, plumbeo "come l'inizio di un freddo glaucoma che offusca il mondo". Esiste solo la strada lungo cui spingono i loro scarsi averi – qualche coperta, il poco cibo in scatola rimasto – dentro il carrello arrugginito di un supermercato. Si spostano verso sud, verso il mare, dal cuore dell'America al Golfo del Messico, in cerca della speranza di un po' di calore, di luce. Ma ciò che gli si apre di fronte è un oceano vasto e freddo che ha "la desolazione di un qualche mare alieno che bagna le coste di un pianeta sconosciuto. Più a largo, sulle secche create dalla marea, una nave cisterna arenata".
Nel nuovo romanzo di Cormac McCarthy, La strada, un non meglio specificato disastro planetario – probabilmente una guerra nucleare, o un meteorite scagliato dall'alto dei cieli – ha posto fine alla vita sulla terra: ogni forma di vita, animale o vegetale, è stata spazzata via, i pochi sopravvissuti non hanno più nulla di umano e attraversano quest'immensa terra desolata in cerca di cibo come morti che camminano. E poco importa se il "cibo" è un altro essere umano: il cannibalismo è solo uno dei tanti orrori che la fantasia scatenata di McCarthy ci offre, quasi non ci fosse un fondo all'abisso, ma solo nuove parole per declinare un infinito catalogo di sofferenze. La catastrofe ha rivelato lo scheletro – come se a un'esplosione sopravvivessero solo le ossa bianche e scarnificate – della società, se non della natura, secondo McCarthy: una brutale lotta per la sopraffazione reciproca, in cui gli esseri umani sono nettamente divisi tra carnefici e vittime, tra cannibali e prede.
Sono passati dieci anni da quella catastrofe: padre e figlio sono riusciti a sopravvivere fino adesso, ma non resisteranno un altro inverno. Il romanzo è il racconto del dolente e disperato pellegrinaggio verso il mare, delle difficoltà e degli incontri che accadono loro lungo la via, solo ogni tanto intervallati dai ricordi e dai sogni dell'uomo (soprattutto sulla moglie – la madre del bimbo – che decide di uccidersi piuttosto che sopportare ulteriormente tale inferno).
Tutti i loro averi sono su quel carrello; il cibo è poco e devono periodicamente avventurarsi tra le macerie a cercare dei viveri. Si succedono così una serie di episodi e incontri: la visita alla casa d'infanzia dell'uomo; l'esplorazione di un supermarket abbandonato, il figlio che beve per la prima volta una lattina di coca cola (il bambino è nato proprio nei giorni del disastro, e quindi non possiede ricordi che siano precedenti all'apocalisse: il padre tenta di tramandargli la memoria di un'epoca dimenticata nella cenere che il piccolo non ha mai vissuto). Quando i due incontrano un vecchio sperduto e sotto shock – il cui nome, Ely, è un chiaro riferimento al profeta Elia – questi inizia a blaterare che il bambino è una specie di prescelto, un messia che riporterà la luce nel mondo. E poi ancora treni abbandonati, villaggi devastati, case miracolosamente scampate ai saccheggi: ma sempre all'interno di un paesaggio estinto, infernale, in cui l'unico colore è quello delle fiamme degli incendi che ancora bruciano alberi morti.
La natura, come sempre nei romanzi di McCarthy, è uno specchio infranto che non rimanda altro che un riflesso di orrore e mistero impenetrabile, trascendente: un qualcosa che nella distruzione rivela il suo volto terribile e cieco, forse divino, di certo disumano, impietoso, indifferente.
La violenza e la brutalità che già erano la cifra caratteristica dei suoi romanzi western così come dell'ultima opera d'ambientazione contemporanea (Non è un paese per vecchi, Einaudi, 2006; cfr. "L'Indice", 2006, n. 5), assurgono qui a una dimensione allo stesso tempo letterale e metafisica: la morte, la negatività, la caduta sembrano essere gli atomi fondamentali di cui è composta la realtà. E contemporaneamente l'unico orizzonte possibile di un universo gnostico in cui la colpa – l'esistenza – coincide con la pena.
Ma in tutta questa devastazione spicca lo struggente rapporto tra padre e figlio, l'amore insuperabile che li lega. Le poche e asciutte parole che si scambiano sono imbevute di un affetto dall'inaspettata dimensione domestica, familiare. Il loro rapporto, le rassicurazioni che cercano l'uno nell'altro, le storie che il padre racconta al figlio di fronte a una notte senza fine o la fiducia che il bimbo riserva al genitore scrivono pagine di grande emozione, capaci di riscattare – e approfondire – una visione del mondo altrimenti tanto cupa da risultare grottesca. È questa inaspettata tenerezza, disperata e malinconica, il regalo più importante che McCarthy riserva ai suoi lettori.
La strada non è solo un testo visionario e potentissimo, ma anche un romanzo inaspettatamente avvincente, spettacolare, ricco di tensione e di curiosità per il destino dei due personaggi. Le avventure vissute dai due protagonisti riescono a tenere il lettore con il fiato sospeso, a farlo appassionare a questo mondo fantastico e pericoloso che ha qualcosa degli zombie movie di Romero. Il tutto viene però filtrato da un'"immaginazione della fine"quasi beckettiana che sembra contenere in sé l'intera tradizione "apocalittica" novecentesca, da T. S. Eliot a Philip Dick, oltre che da una tensione morale e stilistica che pochi altri autori oggi riescono a permettersi. Una lingua (resa in maniera eccellente dalla traduzione di Martina Testa con il contributo di Maurizia Balmelli) secca, asciutta ed essenziale, che non ha più Faulkner o Melville come modelli. Se proprio volessimo cercare dei modelli letterari dovremmo rivolgerci più alla tagliente precisione del miglior Hemingway, a cui McCarthy deve anche un certo modo di disegnare il rapporto padre e figlio, il loro immergersi nella natura (anche se nuclearizzata, in questo caso), e una certa idea di "uomo d'azione" che rivive nel personaggio del padre. Ma allo stesso tempo McCarthy riesce a ottenere una lingua solenne, profetica, biblica, in cui ogni immagine diventa immediatamente allegoria, ogni figura è rimando sfuggente a un significato ormai estinto. O forse di là da venire: perché non si può negare il sottotesto mistico, se non letteralmente cristologico, che La strada possiede. D'altronde non c'è apocalisse che alla fine del mondo non faccia seguire il ritorno del Messia, del Figlio risorto che fonda il regno millenario sulle rovine della storia. Il viaggio dei due personaggi, il destino che aspetta il figlio, la sua empatia, la sua volontà di cercare o di fondare un sistema morale – le continue richieste che rivolge al padre per aiutare le persone e i disperati che incontrano nel loro viaggio, la pietà che riserva ai sopravvissuti – spingono verso questo tipo di interpretazione, senza però mai fornire certezze conclusive.
La strada potrebbe essere quasi catalogato come un'opera di fantascienza, ben piantata nella solida tradizione del filone catastrofico-apocalittico, se non fosse anche il romanzo di McCarthy più intenso, visionario e definitivo, oltre che uno dei più belli e struggenti che il nuovo secolo ci abbia, per ora, offerto. Un romanzo enigmatico, misterioso, che da una parte spinge il lettore a cercare una chiave che ne risolva il segreto, dall'altra resta refrattario a ogni tentativo di decifrarlo. Impenetrabile, altero, struggente. Così come le parole su cui si chiude: "Una volta nei torrenti di montagna c'erano i salmerini. Li potevi vedere fermi nell'acqua ambrata con la punta ambrata delle pinne che ondeggiavano piano nella corrente. Sul dorso avevano dei disegni a vermicelli che erano le mappe del mondo in divenire. Mappe e labirinti. Di una cosa che non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare. Nelle forre dove vivevano ogni cosa era più antica dell'uomo, e vibrava di mistero".

 
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Una domanda semplice(?)

Post n°26 pubblicato il 09 Dicembre 2008 da altromestesso

A che giova all'uomo guadagnare il mondo intero se perde la propria anima?

E cosa puo' mai offrire l'uomo in cambio della propria anima?

P.S. I soliti raffinati e liberi pensatori potranno innalzare piu' di un ancelottiano sopracciglio dinanzi a espressioni ritenute metafisiche o fantastiche quale "anima" et similia..

ma credo che ognuno possa intimamente capire cosa si intende per anima..la propria feicita' di persona, la propria dignita'. E in ogni caso fare dei distinguo letterali non scalfisce per nulla la terribile domanda di senso che emana da un cosi' semplice e percio' radicale interrogativo.

 
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Per un approccio di teoria universale

Post n°25 pubblicato il 03 Dicembre 2008 da altromestesso

Qualsiasi delle seguenti considerazioni non ha alcun pregio rispetto a qualsiasi sequenza dell'ultimo Eastwood e meno ancora rispetto allo sguardo divertito Giovanneo sulle cose e sul resto.

Due principi. L'Essere e il Divenire. nihil novi (Parmenide ed Eraclito).La Forma e la Sostanza.

La Forma e' astrazione. tentativo di ricondurre ad ordine il magma del reale. Un approccio di Destra. Razionalismo. Trascendenza

La Sostanza e' (?quale parola traduce il contrario di astrazione) concretezza. tentativo di inseguire l'in se' (il noumeno o il fenomeno?) della realta'. Empirismo. Immanenza. un approccio di Sinistra?

Il primo e' movimento ascendente. Insegue l'assoluto e l'universale. Ha a che fare con la componente cerebrale, forse spirituale. Vuole sicurezza ed eternita'.

Il secondo e' movimento discendente. Ricerca il particolare. Ha a che fare con la componente piu' fisica, sensibile, forse animalesca. Vuole autenticita' ed immediatezza.

La componente umana partecipa di questi movimenti. La sintesi e' il cuore.

 
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L'insonnia della ragione genera mostri

Post n°24 pubblicato il 10 Ottobre 2008 da altromestesso

Parafrasando Goya, una visione allucinata sulla catastrofe. Il dominio della mente, una signoria cerebrale che ormai nutre solo fantasmi. Spettri che soppiantano umanita'.

Nell'economia, nella comunicazione, persino nell'amore alla realta' si va sostituendo un universo immaginifico costruito sul diabolico potere del cervello che si pretende libero dai volgari vincoli della materia. Oramai tutto e' linguaggio, suo malefico figlio unigenito. Ed io stesso adorante carnefice ne cado vittima in fuga tra i libri o peggio tra gli altrove telematici di solitudini condivise.

Dove ogni cosa e' volonta' o rappresentazione.

Non conta ormai la connotazione oggettiva di cosa sei (la geografia, la storia, il sangue, il luogo e le facce, la forma delle nuvole e l'odore dell'aria dove uno nasce e cresce) ma la proiezione di te, il tuo destino, la tua volonta' -vera arbitra di ogni cosa.

Che cosa e' vita che cosa e' morte che cosa e' amore. Il testamento biologico (formule di raccappricciante ragionevolezza). 

Si dimenticano due cose:

1) la Verita' del Verbo presuppone e insieme pretende la sua Incarnazione (su un piano teorico generale)

2) la Pura saggezza degli infanti non ci richiede la Parola ma il calore di un corpo che li abbraccia (su un piano pratico particolare).

Piu' si prescinde dai bisogni primari (la serenita' del cibo, del sonno, del lavoro manuale, di un bacio), piu' ci si innalza (?vera elevazione?) da essi, negli empirei inferni di un'economia di servizi, di artifici immateriali in cui il fatto non conta piu'.

La strada contro la recessione sentimentale sessuale economica valoriale politica istituzionale?

Rifiutare l'astrazione in nome di una concretezza pratica. Per cui quando iniziamo a sentire parlare questi soloni in termini di ---ita' (il suffisso dell'astrazione) conviene iniziare a dire: "ma togliti il tappo".

 
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L'arte e l'artificio.

Post n°23 pubblicato il 18 Settembre 2008 da altromestesso

L'arte e' cio' che non ti aspetti da essa. cosi' pietr mondrian, o almeno cosi' riferisce un blog scorto furtivamente.

L'artefice, colui che crea che plasma. quale immenso piacere, quale potere. Mio padre ha l'immensa forza di un artefice e soprattutto l'umilta' per dimostrarlo. Con il suo orto iperproduttivo, con le sue sculture lignee e la sterminata fucina di una bottega in brianza, con il suo entusiasmo innato verso qualunque cosa. e l'istinto del cacciatore che non teme il sangue e la carne.

un entusiasmo iconoclasta e polemico, tipico del freigeist, con certe venature manichee, forse semplicistiche (ma la semplicita' e' una delle massime virtu') , ma sempre pronto al riconoscimento del talento e della bellezza. e dunque allo smascheramento violento e non mediato di quanto lo soffoca-pertanto ovviamente martirizzante agli occhi di sua moglie (che si ostina a definire belloccia con un amore commovente e autentico).

Nonostante egli, come me, non sia insensibile al fascino femminile.

"L'en peca' diventa' vech." -ma nei suoi 67 anni sprizza una gioventu' che io solo ora riesco a pensare di poter esprimere-.

Pertanto io amo i suoi racconti, vacanzieri o venatori. perche ' non indagano la metereologia (acnhe se spesso divagano nella politica, cioe' nell'applicazione pratica del sistema delle idee) ma colgono il senso e trasmettono sensazioni- (il mimetico latrare dei cani all'inseguimento, il lampeggiare del sole sui riflessi di una bionda che passa il metro e ottanta, il lento degradare dell'esperienza in saggezza).

Dichiaratemente adulatore e terribilmente esteta.

E' cosi' sottile il confine con l'artificio. con il manierismo. Lui ne sta al di qua, salvato da un temperamento eccessivo e istintuale. io sono al di la' della linea rossa e citare borges (e le sue Finzioni) non mi redime. anzi. troppo cerebrale la mia adorazione del bello. troppo filtrata da parole -spesso non dette con voce fisica ma scritte-e fin troppo meditate. controllate.

ovvio che vagheggio immagini, squarci di bellezza, epifanie divine.

E' difficile trovare una parola che designi cio' che sta agli antipodi del nichilismo. Quella parola vorrei che mi definisse, con il suo vago perimetro. Perche' se c'e' una cosa che vorrei salvare e non sommergere e' la straordinaria significanza del tutto. ma non un tutto generico e indistinto. un universo di dettagli, magari rappresentato dal talento iconografico di christopher nolan.

oppure un msn -con versi di Verlaine- mandato per il compleanno di un'amica (ma ovviamente sono ben consapevole che non esiste un'amicizia al femminile).

Il varco e' qui?

 
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