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Panze, presenze e insipienze

Post n°5 pubblicato il 10 Febbraio 2007 da Patonsio

Panze,
presenze e insipienze





La sera, rimbecillita
dalla calura, s’era ormai decisa a stravaccarsi sul terreno
dell’anzianotta contea di M*****, dove la cenere dei morti
istruiva la polvere delle strade sul da farsi, ed ebbra d’invincibile
indolenza, senza neanche rendersene gran conto, lasciava che le
ombre, prive dei controlli di rito, si adagiassero al suolo come –
svogliate anch’esse – onde stracche.


Il tramonto, dal canto
suo, tanto per non star con le mani in mano (ché, in queste
terre, come niente, è facile che gli sparlano dietro pure a
lui), aveva insanguinato, come un carnefice invisibile, il litorale
non distante, in ultimo spruzzando – per sfregio (s)quasi –
una gala arancione al confine tra la fascia di cielo incendiata di
violetti schizzati di strisciate verdi e blu, e un mare di petrolio
profumato di iodio e vaghi zolfi. Ai lati dello sguardo
dell’(eventuale, non indispensabile) osservatore si allargavano
e si sdilinquivano lampi di colori già cotti, sfumati dalla
mano d’un artista esagitato e fuor dai gangheri parecchio.
Tutto quel ben di Dio di stupore visivo si portava dietro come una
musica ossessiva e ipnotica, che si ripeteva all’infinito, ma
non era identica a quella di un minuto prima.


Dopochè, senza
immaginabile preavviso, quell’arte di suoni si placò per
lasciar posto a un sassofono attempato, con la voce logora un poco,
ma sempre “in gamba”, capace ancor di fiati e sospiri
avvincenti.


Da qui in poi, la luna
se la pensò d’inghiottire pigramente qualche
pipistrello, mentre le stelle cadevano come cicche di sigarette,
gettate da spiritelli strafottenti, dalla terrazza celeste.





(Tuttavia, a
dispetto di tutto ciò, il docile lettore sta per esser
condotto presso il portone dell’Ospedale Civico di C*****.
Entriamovi, quindi, senz’altri pittoreschi indugi, se vogliamo
conoscere il fattaccio: è già ora
).





Finché lo
possiamo


di pergole il succo


allegri beviamo:


godiamo lo scrocco


dacché
insudiciamo


con fiero cipiglio


il mondo balordo.


Liquore vermiglio


succhiamo a baluardo


(senz’altro
consiglio)


di nostra
incoscienza


ch’è
bella e ch’è santa


nel darci demenza


bastante ed alquanta


ad ogni occorrenza.


Noi siamo la feccia


dell’orbe
terraqueo,


noi siam la
corteccia,


l’osceno
corteo


che lieto
impiastriccia


il cosmo correo:


così avrebber
cantato, presumibilmente, due induriti beoni che bivaccavano in una
saletta antistante una delle corsie infami – in cui v’erano
sconciamente ammassati (novello girone infernale) lungo e
mediodegenti assortiti in tutte le taglie e per ogni pervertito gusto
– se fossero stati avvezzi a stornellar cavatine, cabalette o
consimili ariette, erano invece due qualunque farabutti, ma
abbigliati da infermieri.


E veramente, in spregio
a qualsiasi decenza o ragionevolezza, tali erano.


La vita è così.


Cionondimeno,
trincarono della grossa per tutta la notte, certi che guaderebbero –
more solito – il turno loro, indenni traversando sopra
gemiti e lamentazioni dei sofferenti, ma al mattino una specie di
pernacchia li importunò, malamente scrollandoli dall’ipnosi
etilica: era la soneria che li reclamava in servizio.



Poco dopo, maledicendo Dio e quanti malavveduti imploranti
supplicassero soccorso, assistenza, medicazione, cura o scocciature
affini al lor passaggio – a certuni non lesinando spintoni
villani, triviali versacci a talaltri, sputi e farda catarrosa ad
altri ancora – si diressero verso la sala operatoria, seco
trascinando un malato, addormentato, su una barella pericolante.
Questa usarono come ariete per forzare i battenti martoriati, quindi
ne scaricarono l’infermo sul letto chirurgico. L’anestesista
col medesimo garbo applicò la maschera ed aprì il
rubinetto dell’etere, che col suo fischio di serpente
lusingatore regalò al paziente il sorriso che premia in sogno
i miracolati, gli alienati estatici, gli inebriati (in generale) e
gl’inebetiti d’oppio (in particolare).


Poi – purtroppo –
entrò il famoso dottor *, chirurgo.


***


(Vieni lettore,
vieni, trattieni lo stomaco, ché ora ti si offre (agra)
distrazione, poiché…
)


Non distante, in un
mondo parallelo a pochi metri in linea d’aria, in una stanzetta
sorvegliata dall’esterno da un tristissimo, malriuscito
Redentore in legno sbreccato – ma speranzosamente rischiarato
da lumicini sempre rinfocolati da mani (privatamente) peccatrici –
e da uno sbavazzante cagnone mastigoforo – che ad un esame più
approfondito rivelava l’identità di Suor Crocifissa
(consumata maîtresse di giovinette perdute a tariffa variabile)
– la giovanissima *, viso cupo e fanciullesco, di quelle
incaricate di soffrire ogni volta che si può, dava alla luce
un cosino fracidiccio che, sotto sguardi avviliti e increduli, tempo
dodici ore, prese ad incartapecorirsi al punto che, raggiunta
sembianza di un mostriciattolo fossilizzato, si risolse – per
il suo stesso bene – di crepare in fretta, senza troppi
scrupoli. Senza troppi complimenti.


Schiattò, in fin
dei conti, al modo d’una castagnola inesplosa, che sbuffi un
esiguo fumacchietto dalle polveri mollicce.


(Penoso – et
incredibile dictu
–, ma l’orecchio aguzzo, proprio
nell’attimo in cui il piccolo scherzo di natura si ricongiunse
con il suo angelo custode dal risolino malizioso, avrebbe sentito:
Fffssssssshh…”).


A fianco del suo
lettino, due baciapile ipocrite, per maggior gloria di Nostra Signora
Martire dello Scoramento e del Flagello Intrinseco, sgranavano
rosarî, rugumando come conigli che mangiano l’erbetta.


Per una madre quasi
bambina è un brutto inizio. Pessimo inizio.


Ma per una devastante
malattia di nervi, oh, bisogna ammettere, è un inizio
eccellente.


Anzi, sebbene con le
donne non si può star mai sicuri di nulla, fu un inizio che
ebbe in sé qualcosa di miracoloso. Tant’è vero
che in seguito, bellamente trascurando illustri precedenti, “Giovanna
la pazza
” fu il nome con cui il paese intero riconobbe e
salutò la poveretta, cui vennero attribuite facoltà
medianiche imprecisabili, ma suscettibili d’approssimazione
nelle discipline della lettura delle carte e proiezione del malocchio
previa caparra confirmatoria di poche – invero – migliaia
di lire.


***


– Bisturi! –
comandò il famoso dottor * (chirurgo di questo paio di
stivali
1),
palpeggiando il ventre sferico del poveretto, disattivato sotto le
sue granfie – Bisturi! Forza! Movimento! Ché
già ’ni sta scurànnu!
2


Un’infermiera
grassoccia e zoppa, allora, depose malvolentieri il fotoromanzo con
cui stava provvisoriamente dissetando la sua inestinguibile brama di
baci – linguacciuti – stampati e trottignò, armata
del prescritto stromento, che le era appena servito per la cura delle
unghie, verso l’infelice spento sul tavolo, ma non prima –
sia detto a suo merito – d’averne sommariamente nettato
la punta sul proprio quarto posteriore.


Presto l’epa
abbondante fu scoperchiata del poco di tessuto che la fasciava, e il
famoso dottor * (che Dio se ne rammenti nel momento dei
rendiconti…3),
essendosi fatto largo di tra il folto pelame con manovre ampie
d’avambraccio, sicuro incise e spalancò il marsupio
umano.


Eccheschìfo!
– poi sclamò – Ma guardate, guardate questo come
se ne va in giro! Ma io dico! Non pretendo certo che si rispettino le
proporzioni anatomiche al millesimo, ma costui esagera! Quando fanno
così, io… io… manco li opererei, guarda un po’!
mi fanno perdere tempo, mi fanno perdere! Eh! Non è che non ho
niente da fare, io!


Raggiòne
ha, professòre! – gli fecero in coro i balordi
intorno – la ggènte sono pazzi!


Quindi un solista:


– Lei perché
è troppo bravo, professòre… io, per me,
lo lascerei a panza all’aria, così si impara
l’educazione, ’stu strun…


– No, no,
Ingallinera, – l’interruppe il famoso dottor * – la
scienza (di cui io sono umile ministro), ci comanda di soccorrere,
qua, questo paziente! Che egli faccia schifo (anatomicamente ed
esteticamente), per noi non deve fare la minima differenza! Noi siamo
missionari! Siamo stati chiamati! Dico bene? Ingallinera! Forse che
io non sono stato chiamato?


Professòre,
io qua ero… niente ho sentito, veramente…


– Che cosa?


– Che l’hanno
chiamato, Professòre… – si scusò il
diseredato.


– Quando mi hanno
chiamato? Possibile che devo sapere le cose sempre all’ultimo
momento!?! Ingallinera! Io ti esautoro!


– No Professòre,
l’ha detto lei che l’hanno chiamato…


Ossignòre
benedetto! La chiamata, la chiamata, Ingallinè, la chiamata è
… la missione, no? La mia, missione. Tu devi fare conto che
io, anche se sto qua con voi, io sono, nel mio esercizio, un
missionario! Io sono un sacerdote!


– Il professòre
parla vangelo! – ruttò la zoppa, che aveva
approfittato del pistolotto per vedere se, nella pagina seguente del
suo fumetto le lingue lubriche avessero già operato,
decretando il trionfo definitivo dell’amore sull’avversità
varie (« ’Mmalirìtti, fìgghi ’i
sugamìnchia e ’bbastardùni tutti pàri!

»).4


– Grazie Favaloro
– la ricompensò il luminare, afferrando un tratto
d’intestino a portata di mano e sollevandolo – ma non
dobbiamo esagerare! Vero che sono, certe volte, anche meglio d un
prete, – (ad ogni strattone alle sue personali
frattaglie, intanto, tormentato nell’equilibrio coprostatico,
benché silenziato dall’anestesia, lo sventurato gemeva
pietosamente) – ma ogni tanto pure io perdo la pazienza!
Guardate a questo! Guardate! E che si fa così? C’ha
più vermi lui di un negozio di esca viva! Eh! Quand’è
così mi schifo pure a vederli!


E in effetti mostrava,
senza mitigarne l’apparenza, la più viva ripugnanza alla
vista del suo orologio d’oro, tutto imbrattato dall’entragne
violate e lasciate, per la verità, un po’ in disordine.


***


Il famoso dottor *
(possa egli soffrire i tormenti più atroci chiamando a
soccorso con i nomi più amorevoli gl’indifferenti
parenti suoi negli attimi esiziali) non era certo l’unico
primario affaccendato, quella mattina.


Un altro prestigioso
terapeuta, governato sicuramente dallo zelo più
rimarchevole verso l’esplorazione scientifica, in una stanzetta
ambulatoriale del reparto psichiatrico al piano superiore, indagava i
segreti smegmatici5
della signorina Vincenzina *, affetta da – oggi si direbbe, con
terminologia aggiornata – psicosi maniaco-depressiva –
allora si diceva, più empiricamente: “scattiàta”.


La poverina –
della bellezza malaticcia e gracile degli indifesi perseguitati –,
non riuscendo a comprender bene qual tipo di incursiva terapia le
stesse praticando quella bestia sudata, fissava sgomenta il soffitto
con occhi di vetro impassibili, dietro i quali pensava fortemente –
quasi a dolersi le meningi affaticate – ai campi odorosi
intorno a casa sua, dove ancor qualche giorno prima sgambettava,
felice insino all’isteria. Pensava alla mamma che le
accarezzava malinconicamente la testolina graziosa.


Pensava a Morettina (la
sua mucca preferita, quella con lo sguardo più sbigottito che
si possa ritrovare in un bovino).


Pensava ad un
giovanotto gentile che, una volta, le aveva offerto un fiore: «
com’era carino!», e si figurava nella mente che
quel ragazzo la amasse tanto, e la ricoprisse di baci appassionati.


Sì, si trovava
proprio con lui. Nessun altro. E facevano – cosa meravigliosa –
all’amore!


Concepiva con la
fantasia, dunque, che nel momento presente stava in dolcissima
compagnia con quel bel ragazzo, che le diceva parole di miele.


Ma, fuor della sua
comprensione, nella sordida realtà di quella stanza, non era
il ragazzo a depredarla, il maturo e prestigioso terapeuta
bensì.


Nel suo intimo, quel
giorno, Vincenzina, faceva all’amore.


All’esterno,
Vincenzina faceva all’amore, nello stesso modo con cui, certe
volte, quando la testa gli girava forte, si mordeva le unghie.


***


– Ingallinera! –
disse il famoso dottor *, fattosi d’un tratto pensieroso –
Che cosa dobbiamo togliere a questo signore?


Professòre,
non me lo ricordo… – piagnucolò lo sgherro, che
temeva gli accessi d’irascibilità del maestro –
…forse che magari lo sa Porrovecchio! Ieri c’era
lui di servizio… – sperò.


– Oh, camurrìa
buttàna!
6
Forza! Chiamatemi a Porrovecchio! Alè! Alè! Movimento!
Forza gioventù, trottare!


(Tal altro scherano,
Porrovecchio Giuseppe, tuttavia – irrintracciabile –
anche volendo, non lo sapeva, e poi non lo voleva, intensamente
preferendo, in quel momento, perdere altri soldi con i suoi compari
di scommesse sui combattimenti clandestini di cani).


Professòre,
non si trova! Forse che è a casa di sua zia Natalina ’a
lavannèra
7:
là non ce n’è telefono…


– Ma sempre devo
fare tutto da solo! Favaloro, forza! Fammi il numero di casa, vediamo
se mia moglie si ricorda qualche cosa! Forza! Làssili
fùttiri ’di minchiàti di giurnalètta!
8


La sciancata sorteggiò,
con la mano buona, i numeri adatti sul disco selettore:


– Signora,
bongiònno, scusasse tanto, ma oggi ’u
prufessùri è ’ncazzatu
: vò sapìri
chi ’c’iama scippàri a ’stu strunzu ka c’è
kà…
9


– A me, a me,
movimento! – le strappò la cornetta, quel
sapiente – Giovannina, amore della casa, che per caso
ti ricordi cosa dovevo asportare al paziente qua oggi?


– E che mi
conti
a me? Che sai, che m’immischio io negli affari
che non mi riguardano? Ne ho tante cose da fare, io… aspetta,
aspetta che cambio mano se no lo smalto si rovina e poi me lo devo
mettere un’altra volta. Senti che fài, invece:
quando torni, non ti scordare di passare da tuo cognato: mi ha
promesso un caciocavallo. Non te lo scordare, hai capito? Pàssici,
ché poi quello ne vuole una scusa e non me lo manda
mai! Mi raccomando. Ora mi ddevi scusare gioia: ti devo
lasciare, ché c’ho assai che fare.


Infatti, appena chiusa
la stringata conversazione, riaprì subito le cosce,
allargandole a favore del dottor *, che soffiava come un mantice,
infastidito non poco per l’interruzione, giacché
parecchio gli seccava rinunziare a parte del tempo a sua
disposizione, essendo già denudato, nella stanza accanto,
anche il dottor *, pronto a coglier quel che restava della virtù
– giornaliera – della signora.


***


(Ora vieni, lettore,
ché abbiamo da svolgere un pietoso ufficio. Questione d’un
minuto: a qualche metro di distanza, solo un par di porte, si va a
far visita ad un brav’uomo. Gli sarà di conforto…
).





Pipitone Paolino,
panettiere rifinito, e pasticciere eccellente altrettanto – del
resto non si vede come possano impedirlo preferenze sessuali…
personalissime… –, un cristaccione d’uomo
di chilogrammi centotrentasette (senza la tara), giaceva su una
branda, torturato dai dolori che gl’eran procurati dal bacino
fratturato.


Attentamente curava di
non farsi scoprire, dai parenti che visitavano gli altri malati nella
sua stanza – si sa: in paese, andare a far visita a Paolino
voleva dire, quasi sicuramente, che… ma insomma, nessuno ci
andava… –, ma quando poteva, di nascosto piangeva.
Piangeva di cuore. Per le fitte, certamente, ma anche, e soprattutto,
per un altro motivo.


(Ebbene, isoliamolo,
questo motivo: è l’ultima occasione utile. Poi non si
potrà più
).





Paolino col bacino


fratturato, si
vorrebbe


magro, fine,
mingherlino,


piccolino piccolino


e il fardello
lascerebbe


solo agli incubi
cattivi.


Come un piccolo
ragnetto


che la brezza poi
prelevi


e per l’aria
lo sollevi;


quasi un esile
rametto:


trascinandolo nei
cieli.


Liberato
nell’azzurro


tra le piume e gli
asfodeli


ed i fiori senza
steli:


solo il peso d’un
susurro.


Senza più un
solo osso,


ma neanche un
ossicino!


Te l’immagini
che spasso,


che delizia, che
gran lusso,


volteggiar come
uccellino?


Paolino Pipitone


non ha più
alcun bisogno:


con i venti, a
meridione


s’allontana in
ascensione


e non dice «
Mi vergogno… »


nella vita replicata


con un corpo senza
peso


su per l’aria
depurata,


l’atmosfera
trasvolata


dell’empireo
più esteso.


Pipitone Paolino


se ne viaggia via
lontano:


è scappato da
un buchino


ormai gioca a
nascondino.


Non è più
un ergastolano


nella gabbia dei
reietti.


Giace morto nel suo
letto,


non subisce più
dispetti


degli stupidi e dei
gretti:


ora, è solo
un angioletto.


***


– Ha saputo
qualche cosa, Professòre?


Zero
Carbonella!
10
Figurati se mia moglie sa mai niente, quando le chiedo una cosa!
Quella è buona a fare una cosa sola!


Temettero tutti,
realmente conoscendo (a differenza del marito) gli svaghi
della signora, che l’operazione stesse per andare a farsi
benedire: nessuno osò pertanto proferir verbo, né
tantomeno chiedergli a cosa alludesse. Ma ormai il famoso dottor *
era già in viaggio, destinazione filippica:


– Mi fa diventare
pazzo solo se ci penso!


(Apprensione
generale
)


– Lo sapete che
fa (pare che me lo fa apposta!)?


Il mutismo e l’omertà
regnavano sovrani.


– Nessuno se lo
immagina?


La saggia storpia cercò
di riparare:


– E ’bònu,
bònu, prufessùri… nènti ci fa…

Lo sa com’è sò mugghièri: ci
brucia. Ci vùgghi ’u pignatièddu quannu sènte
ciàuru ’i citròla!
11


– Ma che dici,
Favaloro! Certe volte non lo capisco neanche io il tuo vernacolo
fiorito! Mia moglie lo spreme dal centro!


(Tutti, a cappella):
Ma no, professòre; la gente conta minchiate;
parlano per invidia (quant’è brutta l’invidia!);
ma quale…; io manco li sentirei, quelli che dicono cose
storte
; ma figuriamoci; a lei sua moglie ci vuole bene; si
stàsse tranquillo; ma tu guarda, quello che si
escono
dalla bocca; se ogni cane che passa uno ci tirana
pètra
…; sìnni futtìssi prufessùri;
etc., etc.


– Invece è
vero! – cassò – Lo spreme dal centro! Ogni volta
devo raccogliere io tutto il dentifricio dalla fine del tubetto!
Mentre lo sa, la disonesta, che mi fa imbestialire! Ma non sono cose
da delinquenti?


(Tutti, risollevati
– già scappellati da prima, tranne la zoppa
): Ah,
vabbè; niente, niente; Professòre… ô
Professòre
…; non si deve preoccupare, per queste
cose; non è che lo fa per cattiveria; non si deve fare il
sangue acido; etc., etc.


– Insomma! –
li sovrastò il famoso dottor * – è una brutta
cosa. E basta. Ora lavoriamo, signori. Movimento! Allora, che
dobbiamo togliere a questo? A me già mi sta passando la
voglia! basta, ! Svegliamolo!


– Ma come
Professòre


– Niente, niente,
mi sono seccato. Svegliamolo. Magari lui lo sa che cosa gli dobbiamo
levare.


Il capro squarciato fu
richiamato in vita. Ci volle il bello e il buono, dato che s’era
affezionato alle soffici lusinghe del coma narcotico, ma alla fine si
risvegliò.


– Bene,
giovanotto – gli disse, un poco scocciato, il famoso dottor * –
che vogliamo fare?


– E che vogliamo
fare – rispose Patonsio, ancora frastornato – che
’ssàcciu
io che dobbiamo fare? Ma lei cu è?
Chi è ka vòle ’ri mìa?12
Matre santa! Tutt’a pànza mi squartò! E che ci
pàru, piscispàda?
13


– Giovanotto,
giovanotto! Le sembra che siamo qua per giocare? Eh? Favaloro, che
fa, giochiamo qua?



non si gioca e non si scherza! – rincalzò la malformata,
agitando in faccia a Patonsio un dito basculante in segno di
sprezzante diniego – Che t’hai mìsu ’na
tèsta, maravìgghia?
14


– Comunque,
lasciamo stare gli scherzi ora. – riprese il famoso dottor * –
Che cosa le dobbiamo togliere noi? Me lo vuole dire, per gentilezza?


Patonsio era basito,
sconcertato:


– Ma lei che è,
pazzo? Ma che sùgnu, kà, ’ne Mau-Mau?15
Uno non si può addormìscere cinque minuti che
subito ci volete scippare qualche cosa? Ma cose, cose dei pazzi! Io
qua sono venuto a trovare a mio zio Rosario che c’ha la
prostata
. Forse che mi sono addormisciùto
cinque minuti, e mi trovo tuttu squartatu com’a’n
kràstu!
16
– strepitò imbufalito, ma non per questo consapevole
d’aver dormito, invece, una notte intera, dato che la sera
prima, vinto dal sonno, s’era adagiato su una barella –
Ora mi cucite subito, qua, ’i vurèdda sfàtti17,
se no vi scàsso tutti a legnate! Ma che siete, tutti
pazzi qua dentro?


Patonsio, però,
si sbagliava. Il mondo è pieno di pazzi.


Parola d’onore.















1Diciamo
così… (N. d. A.)




2Poiché
la tenebra della sera ormai sta per avvolgerci! (N. d. C.)




3Non
è certo una bella cosa (e neanche buona educazione, del
resto), ma il famoso dottor *, con buona pace dei suoi pochi
sopravvissuti, a tutt’oggi campa e sciala. Maledetto! Che Dio
ce ne scansi e liberi! (N. d. A.).




4La
tenera e sentimentale paramedica qui rivolge, con animo
appassionato, risentite note di vivo biasimo all’indirizzo
degli empi avversatori del sentimento romantico che avvince i suoi
temporanei beniamini (N. d. C.).




5Smegma:
sostanza bianchiccia caseosa, formata dalla secrezione
di alcune ghiandole sebacee e da epiteli desquamati, che si deposita
fisiologicamente tra il prepuzio e il glande nei maschi e nel solco
interlabiale della vulva nelle femmine (N. d. C.).




6Disdetta!
(N. d. C.).




7Artigiana
esperta nella detersione della biancheria (N. d. C.).




8Orsù,
lieta deponi quelle letture illustrate scarsamente edificanti! (N.
d. C.).




9Il
primario amerebbe conoscere qualche fondante dettaglio
sull’intervento da effettuare sul paziente al quale qui
destiniamo ogni scrupolosa sollecitudine… (N. d. C.).




10Niente
di niente! (N. d. C.).




11Via,
egregio maestro, la sua signora è un esemplare eterotermo: il
sangue” le ribolle, al solo odor di cucurbitacea
verace! (N. d. C.).




12Cosa
mi richiede ella? (N. d. C.).




13Santa
Vergine Celeste! Il mio addome è dilaniato! Forse le ho
l’aria del vertebrato acquatico? (N. d. C.).




14Cosa
mai ti frulla pel capino, bizzarra creatura? (N. d. C.).




15Forse
mi trovo presso una temibile tribù di selvaggi antropofagi?
(N. d. C.).




16Eviscerato
come un caprone adulto (N. d. C.).




17Le
interiora scompigliate (N. d. C.).


 
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