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Ex comunisti al soldo della finanza e sinistra neoliberale di Eugenio Orso (IV e V capitolo)

Post n°7 pubblicato il 16 Gennaio 2013 da eugenioorso58

(IV) Origine della trasformazione del pci

La trasformazione del pci, che lo ha portato a diventare nel tempo una componente di rilievo della sinistra neoliberale e neoliberista, è cominciata impercettibilmente (si potrebbe dire embrionalmente) in un passato ormai abbastanza lontano, nell’immediato dopoguerra, molto prima del fatidico sessantotto, quando Palmiro Togliatti, uomo di Stalin e dell’URSS, intelligente e rispettato, sicuramente degno di elogi ma leader per certi versi ambiguo dei comunisti in Italia, ha assunto responsabilità di governo diventando prima vicepresidente del consiglio, e in seguito ministro di grazia e giustizia del governo De Gasperi, partecipando i comunisti di allora ai CLN assieme alle altre forze politiche antifasciste. I punti da considerare sono due, nel caso del pci togliattiano ancora ben ancorato all’anticapitalismo, al mito dell’Unione Sovietica, quale entità collettivistica guida e modello, e a quello rivoluzionario dell’operaio di massa.

In primo luogo, la rinuncia alla rivoluzione proletaria e socialista in Italia, paese assegnato al campo occidentale e quindi capitalistico, democratico e liberale. Se in Grecia, nel dopoguerra, è scoppiata una sanguinosa guerra civile, quella del triennio 1946-1949, perché i comunisti filosovietici greci, sicuramente rivoluzionari, non accettavano la monarchia, intendevano liberare una seconda volta il paese e aderire al blocco comunista, la stessa cosa non sarebbe potuta accadere in Italia, pena una nuova guerra mondiale a ridosso della seconda, questa volta combattuta con armi atomiche fra l’est e l’ovest. Stalin non lo voleva e si mostrava intenzionato a rispettare nella sostanza gli accordi con l’occidente (con gli americani e gli inglesi, in poche parole) scongiurando un simile pericolo. Piccolo particolare non però irrilevante c’era all’epoca un ritardo, uno svantaggio sovietico rispetto agli USA in termini di sviluppo delle armi nucleari. Inoltre, l’Unione Sovietica era appena uscita, vittoriosa ma provatissima, con immani distruzioni e perdite di vite umane, dal precedente conflitto. Di conseguenza anche Togliatti, tributario di Stalin, non voleva simili esiti, e ciò ha avuto l’effetto di “tarpare le ali” a un pci ancora (potenzialmente) rivoluzionario, disposto all’insurrezione armata per l’instaurazione del socialismo nella penisola, Yalta o non Yalta. Si può affermare, con (amara) ironia, che la fedeltà nei confronti del paese-guida dei comunisti, il rispetto delle sue esigenze geopolitiche ha allontanato inesorabilmente la prospettiva rivoluzionaria in Italia. D’altra parte, i comunisti greci del kke impegnati nella rivoluzione ricevevano aiuti dalla Jugoslavia di Tito e non da Stalin, che non sembrava entusiasta di quella prospettiva. Quando ci fu l’attentato a Togliatti del luglio 1948, ferito a colpi di pistola dallo studente “qualunquista” e liberale Antonio Pallante, e si materializzò il rischio dello scoppio di una guerra civile in Italia come preludio della rivoluzione, a parte il distrarre la popolazione con le gare ciclistiche e la vittoria inattesa del grande campione Gino Bartali al Tour de France, gli stessi comunisti togliattiani si diedero da fare per placare gli animi (“a sinistra”) e scongiurare la minaccia.

In secondo luogo, in qualità di ministro di grazia e giustizia nell’allora governo De Gasperi, Palmiro Togliatti il 22 giugno 1946 ha concesso l’amnistia ai fascisti (quelli che non si erano macchiati di gravi delitti, in un’interpretazione restrittiva) per poter ricostituire la burocrazia statale in un momento difficilissimo, dal punto di vista economico, sociale e occupazionale, dato che il paese doveva essere ricostruito a partire dall’amministrazione dello stato. L’antifascismo al governo della nazione non aveva quadri sufficienti per raggiungere questo scopo vitale. Togliatti ha concesso l’amnistia in quanto ministro della neonata repubblica italiana (nata il 2 di giugno 1946, in seguito ai risultati del plebiscito monarchia-repubblica), senza coinvolgere nella decisione i dirigenti e la base del suo partito, contrari alla riabilitazione dei fascisti. Se la motivazione più nota era quella della “riconciliazione” fra gli italiani, il motivo più concreto era la necessità di riavviare la macchina dello stato. Con quella scelta, Togliatti ha mostrato di lavorare concretamente per la rinascita di uno stato, e di un intero paese, assegnato dagli accordi fra le potenze vincitrici al campo occidentale e capitalista, a quel punto sotto l’ombrello atomico americano, e che tale sarebbe rimasto nei decenni successivi. Si può affermare che Togliatti, in qualità di ministro comunista della giustizia, ha lavorato sicuramente per il bene del paese (e delle masse popolari provate dal conflitto), ma non altrettanto bene per la rivoluzione proletaria e socialista, favorendo l’avvio della ricostruzione postbellica e la “riconciliazione” all’interno del blocco capitalistico di allora.

 

(V) Dall’origine della trasformazione del pci alla sua fine

La negazione della possibilità concreta della rivoluzione anticapitalista e socialista, viva soltanto come speranza proiettata in un futuro indeterminato, e la collaborazione nella ricostruzione della macchina dello stato accettando la collocazione dell’Italia nel campo capitalistico e nel blocco occidental-americano, hanno costituito i primi segnali, allora difficilmente interpretabili come tali, dell’inizio della trasformazione del pci in qualcos’altro. Un passo successivo è stato l’abbandono dello stalinismo, ma non del filosovietismo, dopo la denuncia dei cosiddetti crimini di Stalin in URSS avvenuta nel 1956, in occasione del XX congresso del PCUS, per opera di Krusčev e di una nuova generazione di burocrati del partito nata (per ironia della sorte e della storia) dall’industrializzazione staliniana dell’Unione Sovietica.  Ciò che è accaduto in seguito, nei tempi più vicini a noi, lo conosciamo, e il partito comunista italiano è diventato sempre più interno al sistema, sempre meno “soggetto rivoluzionario” e avanguardia della classe operaia, sempre meno fattore K bloccante – fattore Kommunizm, secondo una definizione del giornalista Alberto Ronchey – di ostacolo al ricambio di governo nel paese, e sempre più di sostegno a quel sistema di potere politico che faceva perno sulla dc. Un sistema politico che non avrebbe retto, in determinate circostanze storiche – si pensi agli anni settanta e al fenomeno destabilizzante del terrorismo, con un morto a settimana – se non ci fosse stato un atteggiamento “costruttivo”, collaborativo e benevolo dell’altra “metà del cielo”, rappresentata proprio dal pci. Se ancora nei primi ottanta in pieno eurocomunismo si parlava, in relazione ai militanti e ai quadri del pci, di “baffoni”, ossia di stalinisti, e di “baffini” figli del sessantotto passati al leninismo (Giorgio Bocca), o addirittura della contrapposizione interna al partito fra “filosovietici” e “revisionisti”, oggi, queste espressioni ancora in uso una trentina di anni fa sembrano appartenere a una lingua morta, e rischiano di non essere comprese. Di sicuro non hanno più alcun senso in questa nuova realtà, anche se numerosi “baffini” dell’epoca e qualche “baffone” esistono ancora in vita. Dal 1956  al dicembre del 1981 il partito comunista italiano è passato, nella via crucis della sua trasformazione che ha rimosso, parzialmente ma non completamente il fattore Kommunizm, da un appoggio sostanziale all’invasione sovietica dell’Ungheria (o da una non vigorosa condanna, se si preferisce cavillare) alla condanna esplicita del “colpo di stato militare” del generale Jaruzelski, in una Polonia ancora interna al Patto di Varsavia e al blocco sovietico (Riflessioni sui drammatici fatti di Polonia, documento della direzione del pci berlingueriano del 30 dicembre 1981). La Rivoluzione d’Ottobre aveva dunque esaurito la sua spinta propulsiva, ma vi era ancora necessità che continuasse lo sviluppo del socialismo seguendo un’altra strada, cioè una “terza via”, ancora largamente indeterminata, da costruire con gli altri partiti comunisti europei, secondo quanto dichiarava Enrico Berlinguer. Lo storico segretario del pci, ancora comunista benché con il suffisso euro, si è mantenuto al fianco degli operai della Fiat in sciopero, prima e dopo la decisiva sconfitta torinese del 14 ottobre 1980, non desiderando gettare alle ortiche un patrimonio di lotte e tradizioni assieme ai ritratti di Gramsci e Togliatti. Dal 1984, anno della morte di Berlinguer, alla svolta occhettiana della Bolognina del 12 novembre 1989 e ai primi novanta, alla fumosa “terza via” eurocomunista non più apertamente filosovietica (nata con la conferenza di Berlino del 1976), che implicava comunque il bisogno di socialismo e una prospettiva futura – per quanto vaga – di uscita dal capitalismo, il pci sostituì progressivamente l’accettazione passiva, quasi fatalista, di un capitalismo che si profilava vincente, pur senza dichiararlo esplicitamente e in modo chiaro alle masse e agli elettori.

L’avvento di Gorbaciov in URSS, con tanto di glasnost (trasparenza) e perestrojka (ristrutturazione) al seguito, contribuì a liberare nuove forze nel pci, sempre più lontane dalla tradizione comunista, tanto che dopo l’infarto e l’abbandono della carica di segretario da parte di Alessandro Natta, nel 1988, alla guida del partito arrivò la segreteria di Achille Occhetto, che si fece carico del “cambiamento” non solo del nome, ma del partito stesso. A suo tempo il Berlinguer eurocomunista si era mostrato contrario all’abbandono definitivo delle tradizioni del pci, e così fecero in quei difficili frangenti esponenti rispettati del partito, in particolare Giancarlo Pajetta e Pietro Ingrao, ma opporsi al “cambiamento” non servì. I tempi erano ormai maturi per un grande salto, non proprio nel vuoto, o nel nuovo ma armi e bagagli dall’altra parte della barricata, e questo si sarebbe ben compreso con il solito senno di poi. Dal Migliore, cioè da Togliatti, al Più Amato, cioè a Berlinguer, le trasformazioni del pci sono state significative, di primo rilievo, passando dallo stalinismo filosovietico e dell’attesa rivoluzionaria all’eurocomunismo (parzialmente e moderatamente) critico nei confronti della potenza socialista, ma alla fine degli ottanta qualcosa di importante cambiò, si delineò un “nuovo mondo” dominato da un Neocapitalismo spietato, finanziario e assolutista, dotato di nuovi agenti strategici, globali, postborghesi e privi di etica, che si avviava a chiudere la partita con l’alternativa collettivista targata URSS. I dirigenti comunisti italiani di allora, vista la malaparata, dovettero decidere in fretta se resistere su posizioni che sarebbero diventate, storicamente, sempre più scomode, oppure se aderire all’epocale cambiamento. I giovani dirigenti, che sostenevano la segreteria Occhetto, fecero la seconda scelta, un po’ per opportunismo e “istinto di sopravvivenza”, un po’ per “esplorare” le nuove possibilità che si delineavano. Ne consegue che l’ultimo, vero segretario di un pci di là a poco morente è stato Alessandro Natta (dal 1984 al 1988), come lui stesso ha dichiarato, mentre il primo segretario del nuovissimo pds è stato Achille Occhetto (in carica fino al 1994). Possiamo considerare Achille Occhetto, con i suoi giovani dirigenti ultrariformisti, fra i quali Massimo D’Alema e Fabio Mussi, il Gorbaciov “de noantri”, un Michail di provincia di nome Achille. Volendo essere buoni, non pensando male almeno per una volta, anche per lui potrebbe valere il detto che vale per il dissolutore dell’URSS Michail Gorbaciov e per la sua Trojka ultrarevisionista, e cioè “di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno”. Così, quella “cosa” in cui si era trasformato il pci diventava ancor più informe e il cambiamento, velocizzandosi, spingeva non tanto verso l’approdo definitivo del revisionismo e di una socialdemocrazia rivendicativa un po’ più coraggiosa di quella tedesco-occidentale, ma verso l’esito finale dell’internità politica, ideologica e culturale dei comunisti italiani a quello che stava diventando sempre di più un Nuovo Capitalismo finanziarizzato, globalizzante e vincente, compendiato politicamente dalla liberaldemocrazia occidentale, anch’essa in trasformazione. Non per caso la soppressione definitiva del partito comunista, ormai altro da sé, è avvenuta nel 1991, alla fine del cosiddetto “mondo bipolare” USA-URSS e del confronto fra l’ovest capitalista e l’est collettivista. Nato come partito comunista d’Italia il 21 gennaio 1921 a Livorno, il pci morì a Rimini, in occasione del XX congresso, il 3 febbraio 1991. Un settantennio di vita, quanto la compianta Unione Sovietica (n. 1922, + 1991).

Arco costituzionale (che inglobava a pieno titolo il pci), convergenze parallele (secondo l’Aldo Moro che mediava), consociativismo politico (nei fatti, per governare l’Italia), eurocomunismo (di Berlinguer e dei suoi) sono tutte espressioni di epoche successive a quella dei primi governi unitari antifascisti, da Bonomi a De Gasperi, cui partecipava il pci. Neologismi che sintetizzano le fasi trasformative del pci postbellico, nel suo difficile e contradditorio rapporto con il capitalismo e il sistema politico vigente. In questa lunga marcia di avvicinamento al capitalismo, con progressivo abbandono del mito della rivoluzione socialista e adesione implicita a una più “tranquilla” visione socialdemocratica, sono nate e morte nuove generazioni di comunisti (il pci ufficialmente non aveva correnti), come i miglioristi amendoliani “di destra” e gli ingraiani loro avversari, i berlingueriani del distacco dall’URSS e dal sovietismo e i più ortodossi cossuttiani confluiti, in seguito, nel partito della rifondazione comunista. Alla fine il partito comunista, sempre di più “la cosa” e sempre meno la guida e il riferimento politico per le masse proletarie, è stato sciolto, mentre si faceva avanti una nuova generazione di esponenti insensibili alle grandi questioni sociali insorgenti, alle crescenti disparità che un capitalismo geneticamente mutato e rinvigorito diffondeva, alla sorte di milioni di lavoratori e di soggetti economicamente deboli. Una nuova generazione sempre più disposta, negli anni, a mettersi al soldo della finanza trionfante e delle élite dominanti postborghesi, per sopravvivere politicamente, in posizione subordinata, nel “mondo nuovo”. Per tali motivi, dopo le prime sconfitte operaie degli ottanta la situazione è precipitata e gli attacchi contro il lavoro si sono estesi, negli anni novanta fino ai giorni nostri, investendo le giovani generazioni precarizzate, la stabilità del posto di lavoro e una buona fetta del ceto medio. Se non fossero maturati gli eventi ricordati in questo saggio, sarebbe stato impossibile imporre i dogmi neoliberisti in questo paese senza incontrare alcuna resistenza, e demolire la sovranità nazionale dell’Italia senza contrasto, com’è effettivamente accaduto, ponendo il paese sotto il pieno controllo di organismi sopranazionali privati.   

Ecco il triste esito di quella che è stata definita la via italiana al Socialismo: il riciclo degli ex comunisti negli apparati ideologici e politici di un capitalismo privo di etica e di socialità, senza alcuna possibilità di ravvedimento e di ritorno a un glorioso passato di lotte, ormai completamente dimenticato.

 
 
 
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