La voce di un uomo

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SOCIETAS

Se la nostra società
assolve e incoraggia la
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dobbiamo rifare la società
in modo che felicità e
virtù coincidano.

Tsunesaburo Makiguchi

 

RAGIONE

Chiunque pretenda di pronunciare una verità nel campo pragmatico  dei rapporti morali, politici e sociali, in virtù di questa pretesa dice una falsità

Theodor Geiger

 

ART. 21 COST

Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.

Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili.

In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell'autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all'autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s'intende revocato e privo di ogni effetto.

La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica.

Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.

 

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G8 il monopolio della forza

Post n°51 pubblicato il 19 Novembre 2008 da zalo88

Quest'articolo è apparso ieri su Repubblica. L'autore è Valerio Onida, Presidente emerito della Corte costituzionale nonché professore di giustizia costituzionale alla facoltà di giurisprudenza dell'Università Statale degli Studi di Milano (l'Università a cui sono iscritto).

IL TONO prevalente dei commenti alla sentenza di Genova sui fatti della scuola Diaz commessi in occasione del G8 del 2001 è stato di indignazione e rabbia, o al contrario di sostanziale soddisfazione, per le mancate condanne dei "vertici". Questo secondo il consueto schema che vede contrapporsi coloro che accusano le forze dell´ordine e coloro, soprattutto nella maggioranza di governo, che le difendono "a prescindere".

Vale però forse la pena di fare una riflessione più a freddo. Intanto la sentenza segue e si aggiunge a quella del 14 luglio scorso, sui fatti accaduti nella caserma di Bolzaneto, e che ha visto la condanna di tredici operatori della Polizia di Stato (fra cui un vice questore e un commissario capo) e della Polizia penitenziaria (fra cui un ispettore responsabile della sicurezza del sito), nonché del coordinatore e di un altro medico del servizio sanitario, per i trattamenti cui erano stati sottoposti gli arrestati. La sentenza sui fatti della Diaz ha condannato a sua volta dieci operatori di polizia (il comandante e diversi componenti di un nucleo) per l´uso arbitrario della violenza nei confronti dei giovani che si trovavano nella scuola, lo stesso comandante del nucleo per falso e calunnia, nonché due operatori (un vice questore e un assistente) per calunnia in relazione all´episodio delle due molotov introdotte nell´edificio.

Sul terreno degli accertamenti giudiziari bisognerà naturalmente attendere ancora le motivazioni delle due sentenze, vedere se ci saranno appelli, capire quali saranno gli effetti della non lontana scadenza dei termini di prescrizione: aspettare dunque la conclusione di un iter (sin troppo) lungo e complesso. Ma intanto sembra già possibile, dopo i due dibattimenti e le due pronunce dei giudici, fare alcune considerazioni.

Sono stati accertati dai giudici numerosi fatti, non isolati, di uso arbitrario della violenza fisica e morale da parte di esponenti delle forze dell´ordine nei confronti di persone inermi o poste in stato di arresto. La cosa è in sé di enorme rilievo. La Costituzione afferma solennemente che "è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà", e più in generale garantisce i diritti inviolabili della persone. La convenzione europea dei diritti, sulla scia e in attuazione della Dichiarazione universale dei diritti dell´uomo, stabilisce che "nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti". è un principio di civiltà che sta alla base dello Stato democratico di diritto, e sul cui rispetto devono vegliare tutte le autorità, e veglia altresì la Corte dei diritti umani di Strasburgo, che è chiamata ad accertarne la violazione da parte delle autorità dei paesi che hanno sottoscritto la convenzione. Lo Stato può giustamente pretendere il "monopolio" nell´uso della forza, vietandolo agli individui anche per farsi ragione da sé, in quanto garantisce che l´uso "pubblico" della forza sia legittimo e sia contenuto nei limiti dei modi e dei casi previsti, cioè quando sia necessario ad evitare la compromissione di interessi essenziali dei singoli e della collettività. Se i rappresentanti dello Stato fanno della forza, di cui dispongono, un uso illegittimo e dunque "privato", viene minato alla base il "patto" sociale. La forza dell´autorità diventa violenza privata, il diritto di cui lo Stato è espressione diventa arbitrio. La credibilità delle istituzioni preposte a mantenere l´ordine e la legalità è compromessa.

Quando questo accade, ci si deve domandare come mai sia accaduto, che cosa non abbia funzionato a dovere, e quali siano le misure da prendere perché non accada in altre occasioni. Non basta cioè dire: bene, sono stati accertati i fatti e puniti coloro che li hanno commessi. Non si tratta di una rissa in un bar, i cui protagonisti siano stati identificati e portati in giudizio, dopo di che tutto finisce lì. I fatti accertati coinvolgono, e gravemente, le istituzioni. Se rappresentanti delle forze dell´ordine hanno infierito su persone inermi, accusandole ingiustamente di fatti di cui li sapevano innocenti; se altri rappresentanti di queste stesse forze hanno usato o consentito di usare violenza, hanno umiliato e insultato persone arrestate, è in gioco oggettivamente l´onore e la stessa identità, per così dire, dei corpi di polizia. Non si può cavarsela con la teoria delle "mele marce". Quando fatti di questa natura e di questa portata avvengono per responsabilità non di un isolato agente cui siano saltati i nervi, ma di gruppi qualificati di funzionari e agenti dei corpi di polizia, ci si dovrà domandare come vengono formati costoro, quali direttive e quali codici di condotta vengono loro indirizzati, quali controlli effettivi vengono svolti, qual è la "cultura", insomma, a cui sono informate le strutture preposte all´ordine pubblico. E ci si dovrà attendere che i responsabili dei reati vengano allontanati dal corpo o quanto meno dalle funzioni che hanno dimostrato di non sapere svolgere.

Molti hanno lamentato che (nel caso della Diaz) le condanne non siano arrivate più in alto (ai vertici operativi locali, anch´essi imputati, ma prosciolti): viene sempre il sospetto che in questi casi, come si dice, volino gli stracci. E tuttavia, mentre da un lato non si può non restare fermi a ciò che è (o sarà) giudiziariamente provato, dall´altro lato chi sta più in alto non può allontanare da sé la responsabilità "oggettiva" per deviazioni così gravi dalle elementari regole di condotta che debbono caratterizzare l´attività delle forze dell´ordine in un paese democratico, per violazioni così aperte degli elementari doveri che gravano su tutti coloro che operano in nome dello Stato, il dovere cioè di adempiere le funzioni pubbliche "con disciplina ed onore", come dice la Costituzione, e di rispettare, in primo luogo, i diritti fondamentali della persona. Se ai giudici si chiede di accertare scrupolosamente fatti e responsabilità individuali, ai "vertici" si chiede e si deve chiedere di dare conto di "macchie" di questa portata che colpiscono l´intera struttura.

Da un Governo democratico, poi, cioè dai responsabili politici da cui le forze dell´ordine dipendono, ci si dovrebbe attendere, anzitutto, che chiedano ufficialmente scusa ai cittadini, cioè a coloro che credono nella Costituzione e su di essa fanno affidamento (il chiedere scusa da parte di chi ha una posizione pubblica non è purtroppo usanza diffusa nel nostro paese, diversamente che in America); e poi che provvedano ad adottare tutte le misure necessarie per impedire altre deviazioni, modificando, ove occorra, anche le norme esistenti. Fra queste, urge una legge che esplicitamente preveda e punisca il delitto di tortura, anche in attuazione degli obblighi assunti con la ratifica della Convenzione di New York del 1984, cui l´Italia ha dato esecuzione con una legge del 1988. La Convenzione vincola gli Stati ad adottare misure efficaci per impedire che siano commessi atti di tortura, e a proibire anche altri atti che costituiscono trattamenti crudeli, inumani o degradanti, allorché siano commessi da agenti della funzione pubblica; e obbliga altresì gli Stati a vigilare affinché l´insegnamento e l´informazione relativi all´interdizione di tali atti siano "parte integrante della formazione del personale civile o militare incaricato dell´applicazione delle leggi"; a inserire il divieto nei regolamenti o nelle istruzioni promulgate in merito agli obblighi e alle competenze di tali persone; a esercitare una "sistematica sorveglianza" su regolamenti, istruzioni, disposizioni relative alla custodia e al trattamento delle persone arrestate o detenute; a vigilare affinché le autorità competenti procedano immediatamente ad inchieste imparziali quando vi siano motivi ragionevoli di ritenere che atti di tale natura siano stati commessi; a garantire il diritto di denuncia e a proteggere i denuncianti e i testimoni contro intimidazioni (artt. 2, 10, 11, 12, 13, 16 della Convenzione). Obblighi costituzionali e obblighi internazionali, anche in questo caso, confluiscono, si integrano e si rafforzano reciprocamente.


 
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SENTENZA N. 24 2004 DELLA CORTE COSTITUZIONALE

[...]

La CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 2, della legge 20 giugno 2003, n 140 (disposizione per l'attuazione dell'art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle più alte cariche dello Stato);

dichiara ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, commi 1 e 3, della predetta legge n. 140 del 2003.

Così è deciso in Roma nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 gennaio 2004.

 

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