Nonostante sia uno dei chitarristi più sottovalutati e meno pienamente apprezzati sia dal punto di vista tecnico che compositivo, Gary Moore è un vero e proprio poliedricissimo genio della “sei/corde” dotato di un gusto eccezionale di un tocco letteralmente bollente. Nato il 4-4-52 a Belfast, Gary si innamora della chitarra grazie all’influenza di Jimi Hendrix, di Eric Clapton e soprattutto di Peter Green, “axe/man” dei grandiosi Fleetwood Mac. Trasferitosi a Dublino nel 1968, Moore si unisce agli Skid Row (quelli di “18&Life” verranno venti anni dopo…) capitanati dal cantante bassista Phil Lynott il quale, però, poco dopo lascia la band per fondare i Thin Lizzy. Gli Skid Row vanno comunque avanti e, di lì a poco, riusciranno ad aprire i concerti proprio dei Fleetwood Mac il cui splendido chitarrista, Green appunto, vende a Moore la propria Les Paul e procura alla band del giovane nord-irlandese un importante contratto discografico. Gli Skid Row fecero uscire il loro debutto omonimo del 1970 ed il successivo “34 hours” del 1971 ma, nonostante tours negli U.S.A. in supporto della Allman Brothers Band e dei Mountain, non riescono a sfondare. L’anno seguente quindi Moore se ne va e, dopo una prima esperienza con i “folk-rockers” Dr. Strangely Strange (“Grindin’ Stone” il nome dell’album in questione), fonda prima la Gary Moore Band e poi, per poco, si unisce agli ormai famosissimi Thin Lizzy del periodo della “mega hit” “Whisky In The Jar”.
Nel 1975 collabora, prima, con Eddie Howell al di lui “Gramaphone Record”, facendo seguire a questa partnership, sempre nel 75, il proprio ingresso nei Colosseum II di John Hiseman, con Neil Murray (basso, più tardi con gli Whitesnake), Don Airey (tastiere, più tardi con i Rainbow e con la Ozzy Osbourne Band) e Mike Stars (voce), iniziando, in tal modo, una triennale fase sperimentale al termine della quale aiuterà i Thin Lizzy durante il loro tour statunitense nel corso del quale i T.L. aprirono per i Queen. Il 1978 fu un anno indubbiamente positivo per Moore il quale collaborò a “Variations” di Andrew Lloyd Webber, a “Moving Home” di Rod Argent e ad “Electric Glide” di Gary Boyle trovando, per di più, anche il tempo per realizzare il proprio secondo solo album intitolato “Back On The Streets”, forte del contributo di Phil Lynott e la cui meravigliosamente malinconica blues ballad “Parisienne Walkaways” (Lynott alla voce) entrò, nel maggio del 1979, nella top ten britannica. Nuovamente al fianco dei Lizzy per il fantastico “Black Rose” (il loro album migliore, quello, cioè, che segna il ritorno della band di Phil alle proprie radici celtico/irlandesi) ma giunto di lì a poco ad una nuova rottura con Lynott nel mezzo di un ennesimo tour nord/americano, Gary lavorò prima con Cozy Powell (Malmsteen Band, fra gli altri, e…R.I.P.) e poi al progetto G/Force: un originale “impasto” di chitarre heavy, melodie jazz e ritornelli pop.
Decisosi finalmente a dedicare maggior spazio alla propria carriera solista, Moore svolta sensibilmente in direzione dell’ hard‘n’heavy trasformando indubbiamente gli anni ’80 nel periodo decisamente migliore della propria vita artistica, giungendo così, non certo casualmente, a costruirsi una rilevante “fan base” tanto in Europa quanto in Giappone (meno lusinghieri, anche se non certo disprezzabili, i risultati ottenuti dall’altro lato dell’Oceano Atlantico) a cominciare dal validissimo “Dirty Fingers”, che tra l’altro annovera fra i propri ranghi una riuscita cover di “Please, Don’t Let Me Be Misunderstood”di Santa Esmeralda e vede Tommy Aldridge alla batteria, Jimmy Bain al basso, Don Airey alle tastiere e l’ex-Ted Nugent Band, ex-Victory ed ex-Humble Pie Charlie Huhn alla voce, seguito a breve scadenza dal live “Gary Moore And Friends.Live At The Marquee”. Unite “estemporaneamente” le proprie forze a quelle di Greg Lake, il Nostro torna sul proprio “sentiero solista” dando alle stampe nell’ordine: l’ottimo e commercialmente fortunato “Corridors Of Power” (Moore alla voce ed alla chitarra, Neil Murray al basso, Ian Paice alla batteria e Tommy Eyre alle tastiere), l’altrettanto riuscito “Victims Of The Future” (un album a base di un “hard‘n’heavy” di classe squisita), il fondamentale live “We Want Moore!” (anche se Bobby Chouinard-ex Billy Squire Band-non è Ian Paice…) ed il gradevolissimo “Run For Cover”.
L’ennesimo ritorno con i Thin Lizzy per “Life/Live” (al quale partecipano tutti gli ex-membri della band) e la nuova collaborazione del 1985 per le tracks “Military Man” e “Out In The Fields” (splendido pezzo anti/militarista, come del resto la appena citata “M.M.”, e giustamente premiato da un notevole successo nel Regno Unito) sembrarono segnare l’altrettanto ennesima riconciliazione con Lynott il quale però, l’anno successivo (1986) cadrà purtroppo vittima di consolidati abusi. Con “Wild Frontier” Gary si ripresenta al grande pubblico all’insegna di un originale hard rock melodico infarcito influenze folk irlandesi, (sentito omaggio a lynott) ed il Malmsteen di “Braveheart” (da “Facin’ The Animal”) ne riprenderà la title/track in modo tanto riuscito quanto evidente. Svolto lodevolmente il proprio “dovere umanitario”con lo splendido assolo per “Let It Be” dei Beatles rifatta dal progetto benefico Ferry Aid (il 6-3-1987, al largo di Zeerbrugge nei Paesi Bassi affondò un traghetto e decine furono le vittime. Al progetto appena citato parteciparono anche: The Alarm, Rick Astley, Bananarama, Kate Bush, Boy George, The Christians, Dr&The Medics, Drum Theatre, Frankie Goes To Hollywood, Go West, Jacki Graham, Imagination, Nick Kamen, Nick Kershaw, Paul King, Mark Knopfler, Paul Mc Cartney, Mel&Kim, Pepsi&Shirlie, Maxi Priest, Suzi Quatro, Mandy Smith, Steve Strange, Taffy, Bonnie Tyler, Kim Wilde, Working Week), il Nostro, coadiuvato da Ozzy Osbourne, dal cantante dei Sisters Of Mercy Andrew Eldricht e da Cozy Powell “dietro le pelli”, sfodera un pregevolissimo album di “mainsteram hard rock”-intitolato “After The War”- e dedica allo scomparso amico, tratta dal disco in questione, la toccante “Blood Of The Emeralds”.
L’ inizio dell’ultima decade dello scorso secolo/millennio coincise con il ritorno di Gary al primo amore, cioè al blues. Nato da un estemporaneo progetto di cover blues messo in piedi con Don Airey (tastiere ed arrangiamento fiati), Andy Pyle (basso), Brian Downey (batteria, ex-Thin Lizzy) l’eccellente album “Still Got The Blues” risultò, di gran lunga, il più venduto capitolo della “Moore-saga” tanto sulla scorta della fortunatissima “title track/singolo apripista/ballad/‘Parisienne Walkaways’ parte seconda” quanto sull’onda del duetto con il leggendario bluesman Albert King per un ottimo remake di “Oh Pretty Woman” di Roy Orbison; senza, però, con ciò dimenticare né l’ispiratissima vena creativa/esecutiva del Nostro né una guest-list formata, fra gli altri, da: Albert Collins, Albert King e George Harrison. Il successivo ed altrettanto pregevole “After Hours” (seguito da “Blues Alive”) proseguì sulla strada di una felicissima fusione di blues e rock per poi lasciar spazio, prima, al super gruppo B.B.M. (Jack Bruce al basso e Ginger Baker alla batteria) e, poi, al “doveroso” e sentitissimo omaggio/tributo a Peter Green (“Blues For Greeny”). Stendendo il classico “velo pietoso” su “Dark Days In Paradise” e su “A Different Beat” (due momenti di poco riuscite sperimentazioni “elettro/non-si-sa-che-cosa”), è bene ricordare come Gary sia rinsavito con “Back To The Blues” (un titolo che è tutto un programma…) e come ultimamente-autunno 2002-abbia virato in direzione di un taglientissimo power/(hard)/rock con l’omonimo debutto del trio Scars accanto a Cass Lewis (basso, ex-Skunk Anansie) ed a Darrin Mooney (batteria, Primal Scream).
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