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COME UN CANE

Post n°11 pubblicato il 13 Agosto 2008 da sangueedanima
 

Aveva sbadatamente lasciato le grosse scarpe ai lati del fiumiciattolo che aveva appena sbollito le sue calure e, intimorito dall’essere braccato da una polizia che neanche sognava la presenza di Grant in quel bosco, aveva rinunciato all’idea di tornare a prenderle. Camminava coi piedi martoriati sempre più da piccoli calli e vesciche, come gli antichi, e con la bocca piena di un sapore salmastro di sangue e polvere. La lingua batteva la bocca alla ricerca di piccole ferite e spesso trovava schegge di vetro che ne tagliavano la superficie, procurando al fuggitivo Colbain piccoli e duraturi dolori che gli impedivano di mangiare. Era fuggito da molto dalla sua macchina incidentata, ma nonostante ciò le sirene della polizia o della guardia forestale non si facevano ancora sentire. Si aspettava da un momento all’altro il suono di un elicottero, lo stridere delle ruote delle volanti sulla mulattiera, ma le sue aspettative venivano disattese di minuto in minuto. La speranza che fosse riuscito a sfuggire definitivamente alla polizia si faceva più forte mentre un grosso interrogativo irrompeva nella sua mente. Quel pensiero, quel quesito che fin dall’inizio della fuga lo aveva tormentato, facendolo barcollare tra un ponte di certezze e un abisso di incertezze. Era giusto fuggire per qualcosa che forse non si aveva commesso? Era forse sicuro della strage che aveva compiuto quella sera d’estate con quel grosso macete d’acciaio? Era stato lui? Di sua volontà? Era forse stato costretto? Perché avrebbe dovuto massacrare quelle persone, pur minacciato da qualcuno? La sua vita era più importante di quelle che aveva estirpato? Non aveva forse cercato nella morte, nell’oscura e orrenda morte, nel suo nulla e nel suo sollievo, una fuga da questa vita? Era stato veramente lui? Non poteva essere. Perché scappava dunque? Non era innocente? Avrebbe dovuto dichiararlo alla polizia! A quella stessa polizia che ora lo cercava, lo braccava, gli dava la caccia come ad un grosso animale feroce.  Chi gli avrebbe però creduto con quella faccia? Chi, alla stazione di polizia o tra gli stessi giornalisti che lo avevano messo sulla pubblica gogna, lo avrebbe preso sul serio? Con quel viso sfregiato? Con quel viso goffo, mostruoso, con quella maschera di bruttezza e orrore? No, non era possibile: i giornalisti lo conoscevano e lo avevano riconosciuto ormai come unico colpevole. Chi? Chi altri avrebbe potuto commettere quei delitti se non quel mostro dalla faccia di cuoio, sfigurata e corrugata come una patata, arroccata sugli zigomi e sulle sopracciglia come un ammasso di grossi vermi sudici e umidi, come un complesso lebbroso di pustole e cicatrici? Chi, se non quell’essere dalla faccia tondeggiante e ripugnante? Toccando i grossi rigonfiamenti e le bolle sulla sua faccia si accorse che stava pensando correttamente, che questo era ciò che tutti pensavano. I suoi sentimenti si inasprivano. L’odio verso sé stesso e verso quel suo atteggiamento, quel comportamento che, in qualsivoglia modo, aveva portato alla morte persone innocenti e forse amate, cresceva indisturbato e enorme nel suo cuore di bestia. Si grattava con forza quel viso cercando di estirparlo, di buttarlo via, per scordarsi chi era e iniziare una nuova vita, per distruggere ciò che era stato e cambiarlo in qualcosa di nuovo, di diverso. Il sangue fluiva piano dalle ferite, eliminando dal corrucciato volto alcune delle schegge che ancora vi erano ben conficcate, tagliando le sue dita con frammenti di vetro  e bagnando il terreno di uno scarlatto liquido. L’erba, come un fiore rinsecchito che attende la pioggia e viene poi investito dalla tempesta,  accoglieva le grosse gocce rossastre tra i suoi fili inebriandosi di quell’inatteso sollievo. Le mani di Grant, sporche di un vivido rosso sanguigno, venivano continuamente percorse da veri e propri flussi di fluido scatenati dalla sua rabbiosa voglia di cambiare. Le unghie, corrose dal viola dei capillari che avevano ormai tinto l’intero volto di un tizianesco colore, percuotevano il viso con un’insospettata durezza, spaccandosi talvolta nel tentativo di liberarsi da schegge di vetro. Le labbra, continuamente morsicate, avevano assunto ormai un colore violaceo, facendo da diga a quel vivido lago putrido. Grant stava distruggendo rabbiosamente il suo viso, trasformandolo in un perfetto nido per mosche e lombrichi. Cominciò inavvertitamente a piangere, quasi come se il suo stesso corpo volesse avvisarlo del dolore e fermare la sua pazzia. Il suo fisico lo avvertiva, lo percuoteva, colpendo il suo cervello con impulsi di ragione e sollievo. Non poteva fermarsi ora. Non doveva più pensarci. Quello che era stato era stato. Dio non esisteva e non avrebbe certo punito quel suo gesto tanto efferato, se proprio lo aveva commesso. Non era questo che pensava? Perché si preoccupava, dunque? Perché si torturava? Si sciolse in un pianto e appoggiò la nuca a terra, inchinandosi in una sorta di preghiera al nulla. Poggiò le ginocchia pucciandole nel suo stesso sangue; le mani intorno al cranio, nella posizione che assumono le persone in via di  arresto da parte della polizia,tenevano una testa imbizzarrita; la fronte, appoggiata a terra, sul terreno che poco prima i suoi piedi scalzi avevano percorso, era  bagnata dalla fresca rugiada. Il sangue era lavato dall’acqua della natura, che alleviando il dolore bruciava il suo odio. Doveva fuggire. Nessuno gli avrebbe mai creduto. Doveva fuggire.

Non pensando al miracolo che forse la provvidenza divina, in cui lui non credeva, o forse il caso gli avevano donato rendendo la sua macchina irriconoscibile agli agenti locali, Grant alzò il capo e sollevò il massiccio corpo cominciando a correre verso nord, dove il Canada lo aspettava ancora.

 

 
 
 
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