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FUGA DA ATLANTIS

Post n°10 pubblicato il 12 Agosto 2008 da sangueedanima
 

Scrivere un nuovo capitolo è come scrivere un’altra storia: diversa per caratteristiche, tempo, struttura, incipit e fine. Un racconto che ha personaggi diversi, solo in apparenza simili a quelli passati. Perché, come nella realtà, in un libro la gente cambia. Cambia ad ogni risveglio, ad ogni respiro, ad ogni pensiero. E può così accadere che colui che all’inizio era carnefice diventi in realtà vittima, chi era colpevole diventi innocente, chi Era diventi Essere. La vita, l’esperienza e il dolore cambiano le persone, le mutano in nuove esperienze e nuove vite.

Accadde così che Grant Colbain, vittima della strage di Norwich, diventasse, forse, il carnefice di un altrettanto efferato delitto.

La nostra vecchia storia era finita nella sua gioventù, nel racconto di un dolore che ne aveva mutato profondamente la psiche. Il nuovo racconto inizierà con Colbain, smarrito nuovamente nell’oscurità e nel nulla, intento a cercare un’origine, una base. Procederemo dunque con lui in questa ricerca.

 

Traumatizzato dall’aver perso la madre nel mare della pazzia, da tutti quei cadaveri osceni, pustolenti, congelati e viscerali e dal tradimento del suo tutore passato in poco più di una sera da angelo vendicatore a demone mascherato, Grant vagava ora nella più profonda determinazione all’estinzione. Solo una cosa lo tratteneva al mondo, solo un dubbio. Quel dubbio, quella ricerca, quella domanda a cui non sapeva dare alcuna risposta. Perché? Perché viveva? Perché era stato salvato da morte certa? Il fato era stato crudele, lo aveva beffato, deriso, schernito. Il destino si era preso gioco di lui, lo aveva usato come un burattino in un buffo teatrino. Ed ora era lì, solo, a tormentare il suo spirito ferito.

Passarono mesi prima che si accorgesse che non aveva nessuno. Nessuno lo voleva, nessuno lo cercava. In tanti avevano saputo di quel delitto. In tanti, leggendo i giornali, avevano provato pietà per quell’esserino innocente. In tanti si professavano pronti a coccolarlo,  ad accoglierlo, a confortarlo. In tanti avevano detto di averlo cercato a lungo per prenderne la potestà. In tanti, ma nessuno che fosse arrivato a parlargli, a fargli una carezza,  a vederlo, a pensarlo. Tutti si professano buoni quando non hanno nulla da perdere, ma quando la posta in gioco è più alta nessuno attua le proprie promesse. Nessuno.

Abbandonato da tutti, perfino da quell’angelo nero che tanto aveva ammirato, Grant trovò subito conforto nelle larghe braccia granitiche di un collegio minorile a Nord. La vita in questo luogo era tutt’altro che facile, ma, come si sa, le asperità induriscono cuore e carattere. Fu così che dopo anni di pestaggi, soprusi, angherie e sfottò Colbain trovò la forza di reggersi in piedi da solo, di combattere contro un mondo che non lo cercava e tantomeno lo voleva. Il suo fisico cominciò a seguire l’irrobustimento caratteriale e in poco più di un anno crebbe di ben trenta centimetri. Questa spaventosa crescita lo portò ad accrescere ulteriormente la propria autostima, facendone un buon amico e un cattivo avversario. I giovani che tanto duramente lo avevano schernito e picchiato ora non pensavano neanche lontanamente di farlo nuovamente. Le sue mani, piccole come le chele di un granchio, erano state sostituite da arti grandi come guanti da baseball che incutevano timore in chiunque gli si avvicinasse. Qualche volta, tentato dall’usarle per volgere a proprio favore un dibattito, aveva provato il suo animo nobile, in cui ormai non riponeva fede alcuna, che era sempre riuscito a fermarlo in tempo. Il suo grande fisico era anche riuscito ad attrarre qualche donna; poche per la verità, principalmente per due motivi: in primo luogo il collegio era principalmente maschile, inoltre le femmine avevano paura della sua massa e delle reazioni che potesse avere. Alla veneranda età di diciotto anni non era giunto quasi a nulla in campo sentimentale, escludendo qualche bacio rubato e qualche palpatina. Giunse così alla maggior età senza aver avuto alcuna esperienza sessuale, candido e puro nella sua anormale oscurità. A dir la verità conosceva quasi tutto sull’argomento, ma solo per sentito dire, in modo teorico e presupposto.

Dopo avergli donato un’istruzione sufficiente ad iscriversi a qualsiasi indirizzo universitario di medio livello, una piccola borsa di studio e uno scarso indirizzamento alla vita sociale e civile, il collegio lo rilasciò nel mondo libero, abbandonato alle sue scelte e al suo destino.

In realtà la sua istruzione era stata tutt’altro che entusiasmante e spesso era giunto alla conoscenza di determinati argomenti solo grazie alle proprie forze e alla curiosità che ancora fortemente lo caratterizzava. Pur non tralasciando l’attività fisica, la sua vita collegiale era principalmente costituita dalla ricerca e dalla lettura. Era giunto, per noia, a divorare interi scaffali di libri in poche settimane e a lasciare nel panico qualunque professore lo interrogasse su un testo già letto.

Uscì così dall’istituto pieno di curiosità per quel mondo che lo aveva precedentemente deluso, ma che ora lo attirava come una terra inesplorata attira la fame di gloria di un esploratore. Quel cosmo, conosciuto solo in parte durante l’infanzia, gli sembrava un vasto quaderno bianco completamente da riscrivere. Lo attirava respingendolo al medesimo tempo, urtandolo verso una maggiore ricerca. La ricerca di quel qualcosa che tanti anni prima, a Norwich, aveva perso, e che nei libri del collegio non c’era: un’origine. Un’origine diversa da quelle panzane su Dio a cui aveva sempre creduto, un’origine scientifica, provabile, documentabile.

Un volume, in particolare, nella sua vita di lettore, lo aveva stimolato: ‘Il culto di Slaat’ del famoso storico Brian Lodge. Quel libro, imbottito di confutazioni, tesi, sofismi e ipotesi, lo aveva entusiasmato più di qualunque altro.

Uscito da quell’antro che lo aveva imprigionato per anni, rilegando la sua libertà solo al viaggio mentale della lettura, il suo primo pensiero, invece di ricadere sulla madre e la sua pazzia o sul lavoro che lo avrebbe sostentato durante i prossimi studi, piombò su quel libro e su quell’autore che tanto avrebbe voluto conoscere durante la prigionia. Prese il portafoglio dalla tasca e,dopo averne estratto alcune monete per pagare il biglietto del mezzo pubblico che attendeva, lo rimise rapidamente in saccoccia. Guardando il marciapiede e cercando di non essere turbato da tutta quella improvvisa libertà, si sedette in una cabina d’attesa per autobus. Fissò l’ampio cartellone bianco con le indicazioni del tragitto fissato sul giallo ferro del cabinato e pensò a quale delle linee avrebbe dovuto seguire per arrivare a casa del suo nuovo idolo, del suo nuovo eroe, del suo nuovo faro, della sua nuova base e colonna, dell’essere che poteva ora rispondere ad ogni suo quesito. Inebriato da tante possibilità, fu per un momento annebbiato da un’indecisione cronica che lo fece cadere nel panico più totale. Quale strada avrebbe dovuto prendere? Le macchine passavano veloci davanti ai suoi piedi, alzando piccoli granelli di polvere e foglie accartocciate ai lati della via e confondendo ancor di più le sue già poco calme idee. I finestrini, illuminati dalla calda luce del sole che scaldava il volto di Colbain, lasciavano trasparire qualche sfocata immagine dei passeggeri. Qualche bici e qualche vecchia in sella, due o tre motorini e qualche moto, qualche giovane e qualche anziano a passeggio; fu questa tutta la compagnia consentita a Grant, che immaginava nei loro visi indaffarati e noncuranti una vita, esperienze, un motivo, un carattere, parole , un conforto. Provò a rasserenarsi cercando un po’ di sicurezza guardandosi nel vetro della struttura d’attesa,dove non vedeva altro che un ragazzetto felice, un po’ spaesato e ingenuo,ma entusiasta e esaltato dal suo prossimo incontro. Il volto bianco, quasi incipriato, dalla mascella ampia e spelacchiata, dal naso piccolo e abbozzato, quasi a patata, tra i piccoli occhi, parecchio distante dalle grandi labbra rossastre, lo calmò un poco. Lui era lì, fermo, con quei capelli castani, ondulati, un po’ mossi, mediamente lunghi e dai riflessi dorati; il taglio semplice e dalla riga in mezzo non molto marcata, la rosetta folta e piena a ricordare quanto lontana sarebbe stata la vecchiaia. Le spalle, grosse, coperte da una camicia nera ad ampi quadrettoni di un verde brillante ma non troppo sormontata da una giacchetta marrone in morbida pelle. La cintura di pelle scura marrone a sostenere quei calzoni blu un po’ larghi donatigli da un compagno di stanza un po’ più anziano, stufo del solito look da collegiale. I mocassini neri a coprire calze lunghe tinte di un blu scuro e grossi piedi da calciatore. La schiena, leggermente inarcuata per lo sforzo di rimanere sotto il padiglione, sosteneva una testa proporzionata al corpo e un petto ampio e forte. La pancia, non troppo allenata, brontolava  vistosamente, ma ciò non importava. Era nervoso, solo, squattrinato, senza domicilio e aveva fame, tanta fame da trasformare il suo ventre in una pentola a pressione, ma neanche ciò importava.  L’unica cosa che ora importava era salire sull’autobus che portava da Brian Lodge, al numero 210 di Alabama street.

Un ampio soffio, colpendo l’atmosfera e i timpani del giovane, preannunciò la frenata del bus, pronto a fermarsi dinnanzi a lui. Quel mezzo gli ricordava l’ultimo pullman preso prima dell’imprigionamento nel collegio, quello scuolabus assalito dai suoi compagni di classe di un tempo e tanto odiato per quanto gli faceva ricordare. Quel ricordo, quell’oscuro ricordo che gli riportava alla mente il suo angelo, fermo sul ciglio a controllare che salisse, statico e calmo nel suo ampio sorriso, salutandolo con una foga falsa e ipocrita. Pensava a quanto era stato falsamente buono con lui e a quanto lo aveva fatto soffrire quando, quella notte,  aveva scoperto Il Segreto. Pensava a Dio, e questo era impossibile e inutile per lui, reputando che nessuna divinità esistesse. Pensava troppo. Pensava a cose che troppo lo avevano tormentato durante la sua prigionia e che troppo lo avevano cambiato. Pensava che l’unica risposta era lui, lo studioso, lo storico, lo scrittore, Brian Lodge. Pensava, mentre quasi inciampava salendo sull’autobus e cercando di trattenere l’emozione, il nervosismo e la paura. La paura che quell’incontro non gli sarebbe servito a nulla. La paura che un altro incontro lo avrebbe cambiato ancora, tramutandolo in qualcosa di nuovo, qualcosa che non voleva essere. Pensava, mentre la sua ricerca aveva inizio.

 

 
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