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Un blog creato da sangueedanima il 03/08/2008

Sangue ed anima

Un capitolo al giorno del mio primo libro

 
 

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L'INIZIO DELLA CADUTA VERSO L'INFERNO

Post n°16 pubblicato il 18 Agosto 2008 da sangueedanima
 

 

Grant stava a quel bancone, lavando la superficie con un panno, lentamente e delicatamente. Il Dritto era uscito già da qualche minuto ed ora lui era lì, solo, al buio delle lampade sfocate. Lo stridere del tessuto, passato sulla cera innaffiata poco prima sul legno, risuonava nella camera chiusa al pubblico. L’attaccapanni, vuoto, dimostrava che tutti i clienti erano ormai usciti, chi prima chi dopo, lasciando il giovane abbandonato al vuoto del desolato locale. La pioggia batteva sulla vetrata bucando la notte in sprazzi invisibili d’acqua. Il buio, nero, scuro e attraente, spingeva il vetro verso lo sguardo di Colbain. Il respiro pesante, sintomo della mancanza di qualcosa e del grande rimpianto, usciva poderoso dalla bocca del ragazzo. La giornata era stata lunga, ricca di dialoghi, ma un poco deludente per i contenuti. Se solo quella giornata avesse potuto finire in modo diverso, in un modo differente da quello squallido lavare piatti e posate…

La pioggia si ruppe intorno all’entrata. Due colpi sonori, duri e nitidi risuonarono dalla porta. Qualcuno bussava.

Una voce ruppe il silenzio totale del locale: -  Posso entrare o devo stare qui fuori a inzupparmi? -

Il tono supponente e sarcastico ricordava vagamente a Colbain qualcuno di già sentito, di già visto.

-  Allora! C’è qualcuno? – gridò ancora l’ombra fuori dalla porta.

Grant saltò oltre il bancone e si diresse velocemente alla vetrata impugnando, per sicurezza, una forchetta.

-  E’ chiuso! Torni domani! – gridò Colbain, cercando di scrutare nel vetro chi fosse giunto al locale 

    a quell’ora di notte.

-  Non verrò domani, ragazzo! Sono venuto a cercarti oggi e non lo rifarò di certo – disse

    l’avventore con tono sprezzante.

Il giovane guardò meglio al di là della lastra e intravide corti capelli biondi, piccoli baffi, grosse sopracciglia e un naso importante… no.. non poteva essere.. non poteva essere.. era.. Brian Lodge!

In un primo momento ricordò l’amarezza che aveva provato ed evitò di aprire, osservando quell’ombra ferma a scrutare al di là del vetro.

-  L’ho letto. Ho letto il foglio. Mi puoi fare entrare? – esclamò il professore.

Grant fu colpito da quest’affermazione e spalancò subito l’entrata, scassinando con la forza e con la chiave la serratura. Lodge, prima appoggiato al vetro della porta, penetrò all’interno come una valanga e cadde infatti fragorosamente a terra, bagnato fradicio com’era.

-  Parla. – disse il giovane - Non voglio storie, parla chiaro. E subito.  

  

 

 
 
 

SCOMPARIRE NEL BUIO

Post n°15 pubblicato il 17 Agosto 2008 da sangueedanima
 

Le delusioni ci cambiano, ci stravolgono, ci spronano a cercare un’altra fonte di entusiasmo che ripaghi il vuoto che si è creato nel nostro animo. Come quando, delusi dal rifiuto di una ragazza, ne cerchiamo subito un’altra che possa confortarci e rassicurarci. Le delusioni intaccano la nostra auto-stima, ci fanno sentire deboli e fragili. Spesso le delusioni portano a un totale rifiuto, ad una svogliatezza e ad una indolenza spesso difficilmente superabili. In realtà gli insuccessi ci fanno solo spostare il nostro pensiero verso altro.

La paura di svanire in quel mondo di disillusione e sconforto portò Grant a cercarsi immediatamente un lavoro; lavoro che trovò immediatamente come cameriere lavapiatti in un ristorante della zona malfamata della città. Il salario era basso e l’attività lunga e faticosa, ma vitto e alloggio, seppur scarsi e inadeguati, erano garantiti direttamente dal proprietario. In fondo il suo capo, seppur molto esigente, era un uomo buono e aveva subito capito la sua situazione. Spelare patate, lavare i piatti e occuparsi di liti e rifiuti non era il massimo della vita, ma garantiva pur sempre un tetto sopra la testa e un pasto. Ovviamente non gli era stata data né una villa né un pranzo da re, ma quel sudicio sottoscala umido e quel vitto di scarti potevano certo bastare ad un ragazzo forte e sano.

Colbain lavorava ininterrottamente per tutto il giorno sgobbando come un mulo da soma, ma amava passare ogni sera servendo al bancone del bar le poche persone con cui gli era concesso parlare. Veniva a conoscere segreti, dibattiti, diatribe, storie e avventure fantastiche che riuscivano a tenere la sua immaginazione e la sua curiosità fervide e vive. Avendo perso le risposte del suo possibile profeta, le aveva cercate e trovate nelle discussioni da bar e nella gente comune. C’era un cliente che lo entusiasmava particolarmente, poiché aveva opinioni diametralmente opposte rispetto alle sue. Si chiamava Mike, ma tutti al locale lo chiamavano ‘Il Dritto’. Colbain non conosceva niente di lui, non comprendeva quale fosse la sua professione, quale fosse il suo stile di vita, quale fosse il suo habitat naturale. Sapeva solo che lo chiamavano Dritto e che incontrava uomini, storie e avventure incredibili.

Una sera, verso tardi, Il Dritto entrò nel locale. Pioveva forte. Le gocce rimbalzavano sulle vetrate della stanza producendo un ticchettio feroce e pesante. Mike appoggiò il pesante impermeabile sull’attaccapanni, com’era solito fare, e si diresse verso il bancone. Sulla sua faccia era dipinta la solita espressione seria e stanca. I suoi passi, lenti e duri, risuonavano nell’intero ambiente.

-  Il solito – disse, con voce decisa e sostenuta, mentre si sedeva sul seggiolino. I tavolini, pieni fino   

    al pomeriggio, erano deserti. La luce soffusa delle lampadine colorate pitturava nell’aria fumosa,

    rendendola una tavolozza enormemente estesa.

Le seggiole, disposte intorno al piccolo bancone-bar semi-circolare in mogano, erano quasi tutte vuote. Un ubriaco dormiva a braccia distese di fianco al suo bicchiere, perso in un mare di trascuratezza. Un altro, stanco morto e appoggiato sui gomiti con lo sguardo perso nel vuoto, teneva tra le mani il boccale. La scarsa luce rendeva l’ambiente un po’ spettrale e ambiguo, avvolgendolo in un’ottusa oscurità.

-   Signore, ecco a lei. – disse Grant, consegnando  al suo cliente il suo bicchierino di wiskey, con

     tono riverente e rispettoso.

-   Sei ancora qui, Colbain?- rispose Il Dritto, afferrando il recipiente – Ti credevo in un’università,

     in un laboratorio!

-   Magari, signore – disse Colbain con tono affaticato, spostando piano i bicchieri usati nel piccolo  

     lavabo – magari…

-   Eh, ragazzo – sospirò Mike

Il giovane aprì il rubinetto dell’acqua calda e cominciò a lavare accuratamente, uno ad uno, i bicchierini, asciugandoli poi con un panno verde spento.

-   Pensa – sussurrò Il Dritto – mio figlio non vuole lavorare.. deve andare all’università. Ha.. –

    attese un attimo, poi parlò- ha più o meno la tua età.

Il giovane mugugnò un sì, poi depositò i bicchieri puliti a testa in giù sul ripiano metallico.

-   E’.. è un lazzarone… ma io in fondo gli voglio bene.. – disse sorridendo il vecchio.

Grant abbassò la testa verso il pavimento, appoggiandosi con i palmi sul ripiano e dando le spalle al cliente. Quel dialogo gli aveva fatto pensare a quanto era stato sfortunato ad aver perso il proprio padre così presto.

-   Se non ci fosse mia moglie a raddrizzarlo, penso che finirebbe tra quegli artisti pazzi e

    sclerotici.– disse, emettendo un piccolo sorriso - Sai, vuole fare l’architetto. Pensa che

    guadagnerà subito i milioni e che sarà subito venerato come un genio.. diavolo, mi sembra di non

    avergli insegnato proprio nulla sulla vita.. neanche immagina quanto è dura… vero?- chiese Il

    Dritto, rivolgendosi al suo pensoso barista.

-   Sì- rispose il giovane, dopo un profondo sospiro.

I due pensavano ai propri problemi, in silenzio,pacatamente. Il cliente beveva piano, a piccoli sorsi, il suo wiskey, fissando il vuoto e riflettendo sulla strada da fare per tornare a casa. Il barista  osservava il vetro dei recipienti e meditava. Oggi i due non avevano parlato di niente di trascendentale, ma quelle poche parole avevano fatto pensare Grant profondamente.

-   Bene – disse Mike, posando il bicchiere vuoto e alzandosi – devo andare.

Pagò il bevuto e, rimettendosi l’impermeabile, si preparò ad uscire. Il grosso distintivo dorato traspariva dal taschino della camicia blu scura, cinta al corpo da due grosse bretelle marroni. Il Dritto uscì, con l’impermeabile illuminato dalla pioggia, nell’oscurità della notte.

 

 
 
 

L'ARRIVO DELLA CAVALLERIA

Post n°14 pubblicato il 16 Agosto 2008 da sangueedanima
 

Quale orizzonte lo avrebbe atteso Grant ancora non lo poteva dire. Lui, giovane e ingenuo, se ne stava  seduto, ignaro del suo futuro destino, sul sofà dell’atrio della magione di Lodge, aspettando una risposta alle sue innumerevoli domande e fissando quella bella ragazza seduta dietro la scrivania di fronte al suo divanetto intenta a lavorare su testi sconosciuti ai più e certamente ignoti a lui. Guardava quei suoi occhi concentrati sugli scritti, quei suoi capelli dorati e quel sorriso serio e impegnato e non poteva che gioirne. Vedeva in quel viso tutte le parole che lei gli aveva rivolto, tutta la simpatia, la dolcezza, la femminilità e la semplicità che ne traspariva. Avrebbe voluto alzarsi, prenderle la mano, accarezzarla piano, spostargli la lunga frangia di capelli biondi che copriva parte del volto e baciarla, lentamente, dolcemente, con tutta la calma e la sicurezza possibile. Avrebbe voluto, ma ne era intimorito. Che reazioni avrebbe avuto? No, era meglio di no. Aveva già ricevuto un sonoro schiaffo solo per aver tentato di rimetterle il giacchetto.. figurarsi per un bacio.. E poi l’aveva appena conosciuta! No, non poteva. Che strane idee gli erano venute? Baciare una donna appena conosciuta! Che stupida idea.

Passarono parecchi minuti, poi parecchie ore. Claire si era addormentata sul tavolo, tra quelle stesse scartoffie che prima la obbligavano a star sveglia. Grant stava sul suo sofà, stravaccato come fosse nella propria casa, con la testa appoggiata al duro schienale e le gambe lunghe e dritte puntate sul pavimento, a fissare quel suo nuovo angelo. La notte era scesa su quella giornata fredda come un grosso sipario, avvolgendo tutta la città di luci elettriche e rombi di macchine in folle corsa. Colbain si sollevò e appoggiando le mani al calorifero posto sotto la finestra, guardò attraverso il vetro i grandi palazzi spenti, morti e imponenti come colonne di granito. Le auto sfrecciavano nel buio della notte illuminate da chiazze di luce elettrica. Le stelle, che avrebbero dovuto risplendere nel vasto cielo, erano nascoste dietro invisibili nuvole, giocando a nascondino con la luna. Il freddo che a ondate invadeva la casa era subito cacciato indietro dal potente riscaldamento che ribolliva sotto le mani di Grant. Colbain guardò il cancelletto a cui era rimasto ad aspettare tanto a lungo e che ora gli sembrava tanto lontano. Guardò l’alone del suo respiro che si espandeva sulla superficie del vetro e quella piccola stella che era sbucata lassù, vicino all’enorme luna nebbiosa.

Appoggiando le spalle sulla finestra fredda, si girò verso la scrivania dove Claire, con la testa raccolta tra le sue stesse braccia, riposava. La giacca, depositata a terra vicino alle scarpette rosa della ragazza, assomigliava ad un fedele animale domestico. Grant la raccolse delicatamente e la depositò sulle spalle della ragazza, infreddolita nonostante il riscaldamento fosse notevole. Le scostò i capelli e sistemò meglio l’abito, di modo che al suo risveglio non se ne sarebbe neppure accorta. Sorrise e guardò il suo viso, candido e bianco come la neve. Le di lei labbra si scostarono piano, e una parola ne uscì, delicatamente: - grazie…

In un primo tempo Grant ne fu colpito e spaventato, poi si accorse che probabilmente era un riflesso condizionato e tirò un respiro di sollievo. Si risedette quindi sul sofà, sbuffando per un lieve dolore alla schiena. Appoggiò quindi nuovamente la testa allo schienale e, piano piano, cadde in un profondo sonno.

 

-   Grant…GRANT!

Il ragazzo si svegliò subito, accorgendosi immediatamente che qualcuno lo stava scuotendo e invocando a gran voce. Sgranò gli occhi e cercò di mettere a fuoco il poco che vedeva, in cui  intravide subito Claire.

-    Grant! Finalmente! – disse lei -Questo è Brian. Su, salutalo.

Colbain, intontito dalla luce improvvisa e opaca che pervadeva la stanza entrando dalla finestra, aprì ampiamente gli occhi per la sorpresa. C’era lei, piccola, con i capelli biondi un po’ arruffati e le manine piccole a stringere il petto per il freddo. E al suo fianco.. al suo fianco c’era lui. Alto, carnagione molto chiara, capelli biondi e corti, sopracciglia folte, fronte alta e rugosa, leggermente stempiato, piccoli baffi radi, occhi tondi e penetranti, naso importante ma non troppo, un leggero pizzetto: era Lodge, Brian Lodge.

Vestito con un giacchetto marrone chiaro scanalato a maniche lunghe e con grossi bottoni di color cioccolata, un maglioncino giallo di cachemire a collo alto, un paio di pantaloni a tubo beige e  mocassini color pelle il professore stava lì, fermo immobile, con la mano aperta e il braccio teso in avanti, aspettando un saluto. La giacca morbida e rigida era leggermente piegata all’altezza del gomito, simbolo dello sforzo e della perfetta misurazione: probabilmente l’abito era stato prodotto su misura. Grant vide la mano tesa e la strinse immediatamente con la propria, scuotendola con forza ed entusiasmo.

-   Si-signor Lodge.. l-lei.. l-lei non sa.. quanto.. quanto l’ho cercata- disse Colbain, con la voce profondamente spezzata.

-   Ah- rispose Brian. Il suo volto era colpito dallo stupore e dallo sbigottimento per tanta inaspettata riverenza – e tu saresti… uhm.. Grant..

Claire guardò con aria stizzita il professore, facendo trasparire nel suo sguardo il desiderio che il suddetto si comportasse con più entusiasmo verso il nuovo arrivato.

-   Ehm – disse Brian, togliendo piano la mano dalla presa ed eludendo l’occhiata della propria segretaria – io.. dovrei andare di sopra.. ho da fare..

Lodge fuggì dalla conversazione, lasciando Claire piena di rabbia e indignazione e Grant pervaso da una profonda delusione mascherata solo in parte da un sorriso stantio. Il professore salì con passo veloce e pesante le scale e si catapultò nel bagno, sbattendo la porta fragorosamente. Il rumore del tonfo risuonò per l’intera villa, trascinando l’animo di Colbain in uno squallore infinito. Che amarezza! Che beffa! Per tutta la vita collegiale il ragazzo aveva sperato in quell’incontro, in quella rivelazione, in quell’annuncio, ed ora.. ora tutto era svanito nel nulla. I suoi sogni, le sue speranze, tutte disilluse in pochi secondi da un falso profeta, da un’ipocrita, da un superbo prepotente e strafottente.

La giovane segretaria vedeva dipinto sul volto del giovane tutto lo sconforto immaginabile.

-   Non ti preoccupare, non sei tu.. è fatto così.- disse, cercando di consolarlo – Non ama la compagnia.. mi spiace..

Grant fissò, sconsolato, il suo viso triste; impugnò un foglio preso dalla tasca e glielo consegnò repentinamente.

-   Ti prego, fagli avere questo – disse lui, tenendo con la propria la mano di lei aperta e mettendole delicatamente, con l’altro arto, il documento sul palmo. Claire lo richiuse piano sul pezzo di carta e, con uno sguardo languido, guardandolo negli occhi, abbassando leggermente la testa, annuì.

Colbain lasciò dolcemente la presa e, lanciandole un ultimo sguardo, si diresse verso la porta. Cosa avrebbe fatto adesso? Dove sarebbe andato dopo aver attraversato quella porta? Poteva forse tornare, grande e grosso com’era, in collegio ? No, era escluso. Aprì il grosso portone candido e se ne uscì, stizzito e deluso. Percorse a passo deciso il vialetto di mattoni e aprì con forza il cancelletto, proiettandosi con una foga inaudita verso la strada e verso la fermata dell’autobus. Nella casa rosa pelle, alla finestra, Claire guardava, triste, i suoi passi. 

 

 
 
 

LA VENUTA DEI SANTI

Post n°13 pubblicato il 15 Agosto 2008 da sangueedanima
 

La società umana ha sempre avuto bisogno di filosofi, ma di certo non per far muovere il pensiero individuale verso campi mentali mai frequentati dal singolo. Queste è solo una grossa panzana inventata dal sistema scolastico stesso per imporci il pensiero degli altri. Non essendo mai riuscito ad accettare questa cosa, io ho pensato e creduto ad altro. Ho creduto, e ancora credo, che ogni persona di buon senso cerchi al di là di questa vita vuota un significato che la giustifichi. Credo che ogni singola persona si avventuri, prima o poi, in quei campi nascosti nell’esistenza. Credo che nell’immensità di attimi di cui è composta la vita umana ogni singola persona si ponga domande a cui non sa rispondere con facili affermazioni, ma solo con una lunga e pacata riflessione . Poiché fin dall’antichità contadina e operaia l’uomo si è posto quesiti senza l’ausilio dell’istruzione o della filosofia. O almeno della filosofia che oggi tutti intendiamo.

Il fatto è che mai nessuno si è trovato a proprio agio in questo mondo falso, costrutto, complesso, pericoloso. Pericoloso da codificare, pericoloso da giustificare. Come può l’intera esistenza finire in un effimero lasso di tempo e in un effimero spazio di superficie? I sentimenti, le emozioni, i desideri, possono essere solo reazioni celebrali a stimoli esterni? I nostri corpi e il nostro carattere possono essere solo particelle di spazio, atomi, puntini nell’immensità di un enorme quadro? Possono essere infinitesimali pixel di un’immagine a colori? Non può essere. E allora come spiegare ogni cosa? La risposta è ovvia: non si può. E non si potrà mai. Perché è una cosa molto più grande di noi. Troppo.

Ed è qui che subentra la religione. In un periodo in cui Platone, Aristotele e Socrate avevano cercato di spiegare l’uomo e l’universo attraverso il pensiero,in cui l’uomo aveva creato un mondo parallelo di regole, leggi e statuti universali attraverso il dominio su altri popoli e la violenza, un uomo, nato da una donna immacolata – fatto alquanto particolare, e non solo per quell’epoca – prese per mano un gruppo di dodici persone e cambiò completamente il volto del mondo. Sbocciato in una terra dominata e che aspettava un sovrano che, con armi e sangue, la liberasse, quest’uomo vagava compiendo miracoli INSPIEGABILI anche per la scienza moderna e parlando di amore verso il proprio nemico. Quello stesso nemico che imponeva tasse e uccideva persone solo perché non si conformavano alle decisioni prese da un governo lontano, estraneo e diverso. Quel nemico che decideva dal suo eremo inavvicinabile la vita di persone vicine, magari dei propri stessi cari.

In quello stato di odio incredibile provato da un intero popolo verso un altro, quest’uomo, Gesù Cristo, vagava per le terre della Palestina proclamando che solo l’amore avrebbe liberato ogni moltitudine. In un luogo in cui crocifissioni, lapidazioni, decapitazioni, sventramenti, massacri e umiliazioni erano, oltre a strumenti di una giustizia intollerante, all’ordine del giorno, quest’uomo predicava che solo amando quei bastardi lontani e dittatori come sé stessi ci si sarebbe potuti salvare. Magari non salvarsi dalla decapitazione, dalla crocifissione, dal massacro, dallo sventramento, dall’umiliazione, ma trovarsi nella condizione di poter, rifiutando la salvezza del corpo, pur non ripudiandolo con ferocia che non merita – poiché creato da Dio a sua immagine – accettare una salvezza più grande, una salvezza eterna e immortale. L’entrata in un regno più grande, più giusto, più forte, illimitato.

Il suo messaggio fu una rivoluzione incredibile. Come poteva un mondo che finora si era retto sulla legge del taglione e dell’odio verso il prossimo e l’estraneo subire una tale predica? Come poteva subire la predica di un uomo che era giunto a farsi uccidere senza alcuna ribellione, a provare pietà per i suoi carnefici, a pregare Dio per i propri persecutori, a consegnarsi a nemici e torturatori come carne da macello, ad accettare come fedele un traditore già noto da tempo, a parlare a lebbrosi e puttane come fratelli e sorelle? Dite la verità, chi tra voi lettori si sarebbe, di sua spontanea volontà, immerso tra malati terminali e iper-contagiosi? Chi tra voi avrebbe pregato per i propri aguzzini? Chi avrebbe difeso puttane e ladri dalle angherie dei sacerdoti? Chi si sarebbe consegnato, con una anche minima possibilità di fuga, al nemico, all’aguzzino, a colui che lo avrebbe condannato a morte e poi ucciso? Chi, sapendo del suo tradimento, avrebbe accettato Giuda come apostolo? Chi, dopo il suo inganno, avrebbe provato pietà per lui? Chi tra voi ha affermato di poter fare almeno una di queste cose o è un pazzo, o è un falso e un bugiardo o è un santo. Eppure di lui, nei documenti, non si parla come di un pazzo. Un pazzo non parla tra la gente, non viene seguito dalle masse, non colloquia da adolescente con un gruppo di sacerdoti. Di lui non si parla neppure come di un finto, di un imbroglione. Dai vari testimoni dei suoi miracoli non è ritenuto né un falso, né un bugiardo. Disse che sarebbe morto in croce, e morì. Disse che avrebbe predicato ad ogni vivente, e lo fece. Quale bugia avrebbe detto? Bisogna dunque escludere anche questa ipotesi, ma non si può neanche parlar di lui come di un santo. I santi muoiono, soffrono e pregano, ma non cambiano il mondo. Nessun santo parte per il deserto, affronta il demonio, lo sconfigge e torna più integro e convinto di prima. Nessun santo si proclama figlio di Dio e prosegue a farlo fino alla morte. Nessun santo fa, ha fatto o fece tutto ciò che fece lui. Nessuno in tutta la storia dell’umanità. Semplicemente perché i santi sono umani. E lui non lo era. Era qualcosa di superiore, inarrivabile. Qualcosa che è sopravvissuto e sopravvivrà per millenni. Per l’eternità.

So di non essere molto coerente con tutto ciò che ho appena raccontato, ma in realtà se voi non aveste ricevuto questa mia idea io farei di voi delle semplici scatole vuote, e non ne ricaverei nulla. Non capireste mai quello che sto per raccontare, non giungereste mai alla giusta conclusione, o almeno a quella che ritengo giusta, la mia.

Spero di avervi fatto pensare. Perché in questo libro vi farò pensare spesso. Ed è a questo che serve la filosofia, a pensare autonomamente, non sotto l’imposizione di un altro. Voi proverete a pensare a ciò che penso io, a ciò che pensa Baptista, a ciò che pensa Cole, a ciò che pensa Claire, a ciò che pensa Grant.

Grant….

A tutti gli effetti Colbain, con l’anima e il viso a pezzi in quella spaventosa fuga,a qualcosa pensava. Pensava a quante possibilità avesse, conciato in quel modo, di scappare verso il Canada. Il suo volto, rigato dal troppo sangue versato, si mostrava in uno stato pietoso. Barcollava come un mendicante su quel terreno scosceso cercando di stare il più possibile lontano dalla mulattiera, dove avrebbero potuto vederlo, e dagli spazi ampi, dove avrebbero potuto catturarlo. La luce del sole, forte e cristallina, penetrava tra i piccoli buchi del denso fogliame illuminando piccoli tratti di quella faccia scalfita dal dolore e dalla rabbia. I piccoli occhi, accecati da quelle folgori apparse nella profonda ombra della boscaglia, fissavano il cammino che gli si poneva dinnanzi. Il terreno marrone, con poveri spazi d’erba molto ridotti, e i sassolini che, ricoperti di terriccio franavano giù per la dolce salita, facevano solo da contorno ai grossi alberi frondosi che, con le loro radici e i loro tronchi, sostenevano il cammino dell’ampia massa di Grant. Con piccoli passi profondi Colbain risaliva quel mite pendio, spostando il suo sguardo prima su quel punto d’appoggio, poi su quell’altro. Tenendo le proprie mani, massacrate dal furore, ben aggrappate ai fusti e la schiena piegata per proseguire il cammino agevolmente, il grosso corpo arrivò infine in cima al declivio, dove, appoggiandosi ad un grosso ceppo e innalzandosi come una colonna, scrutò l’orizzonte. Quel colle sembrò un purgatorio per la sua povera anima dannata, preparata ad un prossimo giudizio e ad una prossima sentenza. La sua mente, comunque, era ancora incerta sul delitto. Non poteva essere stato lui, ma era meglio non pensarci, poiché non avrebbe avuto un’altra faccia e altro sangue per cicatrizzare le ferite. Per il momento era meglio stare su quella collina, tra gli alberi, a fissare l’ampia discesa sotto i suoi passi e guardare l’enorme orizzonte che lo attendeva.

 

 

 

 
 
 

GIUNGERE IN PARADISO

Post n°12 pubblicato il 14 Agosto 2008 da sangueedanima
 

 

            ‘Guunt Mechior vagava per le lande di Bessarabia quando incontrò un pazzo, un folle di

             nome Zarathustra. Egli proclamava la morte di Dio e la sua scomparsa dal mondo. Allora

             Guunt gli si avvicinò e disse: - Chi è morto? Dio? Chi è Dio? Non è forse Dio mai esistito?

             Non è forse la religione una favola, una mistificazione del nulla cosmico in cui siamo  

             bagnati? -Il pazzo lo guardò ammutolito e poi si allontanò urlando – Dio è morto, Dio è

             morto. E fu così che Guunt incontrò Zarathustra’

                                                                       dal Culto di Slaat, di Brian Lodge 

 

 Il destino spesso tira brutti scherzi. Forse era a questo che pensava il giovane Grant, intento, dopo essere salito sull’autobus, a raggiungere la sua grande meta. Sedutosi, come suo solito, su uno dei sedili anteriori, aveva subito notato il grosso cappello dell’autista di linea, rinchiuso nella sua caratteristica gabbietta ed estraniato dal mondo. Avrebbe voluto porgli qualche domanda sul tragitto, ma appena si avvicinava al vetro l’autobus si bloccava e il conducente gridava – FERMAATAAA. Quasi fosse un caso o lo scherzo di un destino beffardo, ogni qualvolta che, attraverso il raccoglimento di un po’ di  coraggio, era sul punto di parlare e chiedere informazioni, il bus si fermava, rendendo i suoi sforzi vani e inutili. Quella persona, lontana seppur fisicamente vicinissima a lui, sembrava, in quel momento, la più difficile da raggiungere e con cui parlare. Si stava ormai abituando ad essere interrotto da quell’urlo assordante – FERMAAATAAA- e dal fischio dei freni e sopportava ormai la calca che ogni volta lo spingeva e lo urtava per scendere e che la prima volta lo aveva profondamente stupito e sconvolto, ma ciononostante non era ancora riuscito nel suo intento. Quell’odore di stantio, di gomma, di metallo, di usato e di polveroso pervadeva le sue radici facendogli provare sensazioni da tempo dimenticate. Il chiacchiericcio lo confondeva, lo disturbava, gli faceva dimenticare il suo scopo – ieri sono andata al mercatooooormai è tutto così davvero non pensavo e cosa ai vissssapevo che c’era molta gente, ma che puzza ragazzi che caldo aprite i finestroni bello quel libro fai il mio stesso corso?- Dopo spintonamenti vari e notevoli chiacchiericci, Grant trovò il tempo ed il coraggio di porre al conducente, serrato nella sua bara di vetro, una domanda:

- Scusi, per via Alabama quante fermate mancano?

L’autista guardò il grosso specchietto retrovisore posto in alto di fronte a lui e, fissando l’immagine di Colbain, sollevò dal volante tre dita.

Il ragazzo non capì subito la risposta e riformulò la domanda, a cui stavolta il conducente reagì mostrando con il dito indice un cartello posto proprio di fianco a lui

                                 NON E’ CONSENTITO PARLARE AL CONDUCENTE

                                                Possibili pene pecuniarie dai 5 ai 10 $

Grant lesse attentamente il cartello e poi si andò a sedere al suo posto, dove il suo sedile caldo attendeva i suoi pesanti glutei. Dopo essersi seduto,si mise a guardare fuori dall’ampio vetro di fronte a lui, come quando era piccolo e fissava dal suo posto a sedere quell’uomo alto e biondo che lo accompagnava alla fermata. Quella situazione gli ricordava ancora il suo passato, i pasti caldi, le risate, le coccole, i vestiti preparati e stirati, l’aiuto che gli era stato dato dopo quell’incubo. Quella situazione gli ricordava Cole. Voleva piangere, eliminare tutta la tristezza che quell’uomo dall’animo tanto buono gli aveva instillato con quel violentissimo gesto, ma non ci riusciva in mezzo a tutta quella gente. Perché aveva trucidato tutta quella gente? Era forse per la ricerca della libertà e della verità? Di quella stessa verità che ora anche lui cercava con tanto entusiasmo? Avrebbe dovuto uccidere anche lui per sapere? Avrebbe potuto?

L’autobus si fermò. Nessuno si alzò per scendere, ma il mezzo non partì. Il conducente era fermo, pacato, ad aspettare. Grant guardò fuori dal piccolo finestrino alla sua destra e vide una casa che ricordava. Quella casa.. quella casa.. era la casa di Lodge! Afferrò il parapetto metallico piazzato davanti al suo sedile e scese impetuosamente dal bus, rischiando di travolgere una vecchietta che stava passeggiando tranquillamente e che cominciò ad inveire violentemente contro di lui. Cominciò a correre lasciando perdere la vecchia alle sue spalle e fermandosi solo davanti al cancelletto della casa da lui conosciuta, evitando ciclisti, cani e postini. Suonò con vigore il campanello e cominciò a fremere dal nervosismo e dall’entusiasmo. Poggiò la mano sulla ferrea inferriata e fissò con sospetto la porta bianca della casa, ornata da una piccola vetrata in stile vintage e incastonata in stipiti candidi come la neve. La villetta, sormontata da un piccolo tetto dalle mattonelle rosse poco spioventi e circondata da alti palazzi, da strade trafficate e da un ampio giardino lussureggiante pieno di alberi dalla vasta chioma e di coloratissimi fiori dal fusto lungo, era dipinta di un rosa pelle. Un viottolo di mattonelle marroni scure levigate collegava la porta al cancelletto a cui Colbain aspettava entusiasta. Ad un tratto la maniglia sferica d’ottone dell’ampia porta bianca si girò e il varco si spalancò davanti allo sguardo di Grant, compiaciuto dall’immediata risposta. Dall’entrata uscì una visione paradisiaca: una ragazza, bellissima, bionda, sorridente, alta, coperta fino al naso da un cappottino bianco sostenuto da due piccole mani che coprivano parte della bocca e delle guance.

-  Scusi, fa freddo.. potrebbe dirmi cosa cerca?- disse la ragazza con tono gentile e tentando un

    grido aggraziato

-  Io.. io cerco il professor Lodge!- gridò Grant, con un sorriso larghissimo dipinto sulla faccia, tenendosi fortemente stretto al cancelletto.

-  Bene, almeno non ha sbagliato indirizzo! Ha un appuntamento?- gridò ancora la giovane donna,

    portandosi le mani alla bocca a mo di amplificatore e alzando leggermente il capo.

-  Nooo.…- rispose, dal settimo cielo, Colbain

-  Allora non posso farla entrare!- disse la dama

-  Beh.. allora.. sì, ho un appuntamento, me lo sono ricordato..- disse il giovane

-  E’ sicuro?- gridò la ragazza

-  Siiì, me lo sono ricordato adesso!- gridò Grant

La giovane guardò il viso contento e ammaliato di Colbain e, lasciando la porta aperta, corse all’interno della casa –Tlack-  Il cancelletto era aperto sotto la mano forte del giovane.

Il ragazzo abbassò lo sguardo, entrò nell’ampio giardino percorrendo il viottolo di sassi levigati e, voltandosi, richiuse il cancello. Il suo animo fragile, folgorato da tanta bellezza, era rimasto fortemente intontito. Si fermò davanti alla porta e si mise a fissare il tappetino marrone sul pavimento dell’ingresso, composto da tanti peletti irti e duri. Era la casa di Lodge! Che atmosfera calda e accogliente! L’aveva raggiunta!

-   Allora, vuol- la ragazza si avvicinò al suo viso, lo fissò bene negli occhi e disse- ma.. ma sei un

     ragazzo! Ho capito, sei qui per lo stage!

Le sue piccole sopracciglia bionde da gattina si riflettevano nello sguardo di Colbain, sorpreso, dopo tante brutture, da tanta bellezza. Il suo viso, ovale e gioviale, esprimeva una giovinezza incredibile. Doveva avere al massimo una ventina d’anni ed era lì, con quel cappottino bianco, ad aspettare che Colbain entrasse.

-   Ehi, parlo con te!- gli disse, scuotendogli davanti alla faccia la mano aperta come per svegliarlo

    da un sonno leggero.

Grant guardava il piccolo palmo, roseo e netto come le nuvole, e quelle lunghe dita magre, colorate da unghie erose dal nervosismo e dalla noia. Il giacchetto era leggermente sceso sulla spalla destra e Colbain allungò la mano per sistemarlo, stupendo la ragazza e provocando in lei una reazione tale da far partire un vigoroso schiaffo.- SCHAFFF-  La botta colpì violentemente il viso del ragazzo che, scosso da tanta forza, si portò il palmo sulla guancia cercando di lenire il dolore – AU!-

-   Oh, scu-scusa… credevo.. sai com’è, ci sono tanti depravati in giro.. bisogna.. bisogna sempre

     prepararsi al peggio- la ragazza guardò il volto arrossato di Grant e fece una smorfia di dolore-

     cioè.. io.. non volevo darti del depravato.. ecco.. senti, io sono l’assistente del professore.. la

    segretaria..- allungò la mano che poco prima aveva colpito Colbain e, mostrando il palmo

    invitante, disse- piacere, sono Claire.

Il suo viso pallido era vistosamente colto dall’imbarazzo e le gote si stavano ormai arrossando per il freddo pungente che inondava la stagione da lungo tempo. Il giovane la guardò, sorrise e, stringendo con una mano la gota percossa, agguantò con l’altra il piccolo arto della ragazza.

-   Se è piacere non lo so..- disse Grant sorridendo ironicamente- comunque, mi chiamo Grant.

-   Bene, Grant- disse la giovane puntando l’accento su quel nome e il dito indice verso il di lui

    corpo come una maestrina- Che ne dici se entriamo? Non so tu, ma io ho un po’ freddo.

-   Non so- rispose lui con voce scherzosa- sì.. forse possiamo entrare..- aggrottò le sopracciglia

     scimmiottando l’espressione di un professore e fissò la giovane.

-   Bene- disse lei, afferrando la mano di Colbain e tirandolo dentro casa con grande vigore. Il

     giovane sobbalzò e rischiò di cadere, ma riuscì a sfruttare le sue doti d’equilibrismo e stette  

     perfettamente in piedi. Grant si mise quindi a osservare l’ambiente che lo circondava, notando

     che il primo piano della casa era costituito da un ampio atrio pavimentato con un’ampia

     moquette marrone scuro, da una piccola scala a chiocciola nera, da un ampio salone e da una   

     piccola stanzetta semi-aperta in cui un tavolo, una sedia e un mare di scartoffie la facevano da

     padrone.- Allora, che mi racconti di te?- chiese la ragazza poggiando il cappottino sul tavolino e   

     buttando inavvertitamente a terra qualche foglio.

-   Nulla di interessante..- rispose Grant fissando i quadri appesi ai muri, imitazioni di grandi opere

    d’arte del passato.

-    Ah ah! Vuol fare il misterioso, eh?- disse scherzosamente Claire, sogghignando leggermente. I

     suoi capelli biondi, lunghi fino alle spalle e striati da qualche linea di castano, si muovevano

     sinuosamente nella stanza.

-    Solo..- esitò, guardando il viso della dama- vorrei sapere qualcosa dal professore.- disse quindi 

     Colbain,  adagiandosi delicatamente su un comodo sofà rosso disposto nell’atrio rivolto verso il

     tavolo da lavoro della piccola segretaria..

-    Ah sì, Brian.. tutti vogliono sapere qualcosa da Brian.. allora non sei un tirocinante?- disse lei,

     chinandosi a raccogliere i fogli distrattamente caduti -Immagino di doverti qualcosa per lo

     schiaffo di prima.. va bene, ti farò parlare con lui…- esitò anche lei un attimo, poi, fissando

     innervosita il proprio viso in uno specchietto, disse- ma cosa avete tutti da chiedergli?

     Scommetto che è per quel libro. Il.. Il- disse lei

-    Il culto di Slaat. Precisamente.- rispose Grant con tono fermo e intelligente.

-    Ok.. dovrebbe tornare tra.. un’ora- disse Claire fissando l’orologio che aveva al polso e  

     scrollandosi leggermente il braccio per farlo uscire dalla camicetta azzurra.- Tu stai fermo su

     quella sedia, che di pazzi come te ne ho già visti troppi..- aggiunse, con un’espressione tra

     l’ironico e il serio- io continuo a lavorare, quindi, se fai silenzio ti ringrazio, ok?

Si sedette alla scrivania e cominciò, spostando la giacca, a rovistare tra i fogli. Grant, seduto sul divanetto, la fissava sorridente. In pochi minuti tra loro si era già fissata una buona intimità e un piccolo interesse reciproco. Forse Colbain aveva trovato il suo angelo e,dopo tanto purgatorio, forse era giunto in paradiso.

 
 
 
 

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