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Creato da antonioi0 il 05/02/2009
CULTURA E GIUSTIZIA
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Friuli1976: Il terremoto e i criteri della ricostruzione
Il 6 maggio 1976, una prima scossa di terremoto, alle ore 20:59’:17”, del sesto grado della scala
Mercalli, investì il territorio a nord delle province di Udine e Pordenone. Dopo questa prima scossa,
una seconda, alle ore 21:00’:24”, fu la più forte di uno sciame sismico che si protrasse fino alle ore
00:10. Questa seconda scossa fu fatale: di intensità pari all’ 8°-9° della scala Mercalli, di carattere
ondulatorio e sussultorio, distrusse molti dei piccoli centri sparsi nelle tre province, per lo più
costruiti su alture o sul dorso delle montagne, e di antica formazione. Gli studi per la localizzazione
dell’epicentro sismico furono numerosi e diversi i loro risultati: tra Artegna e Gemona, nel gruppo
del monte Chiampon, ancora tra Pradielis e Cesariis nel comune di Lusevera, o nella valle di Resia.
Fu interessato un territorio di circa 137 comuni, con una popolazione di quasi 600.000 abitanti.
Nella zona più prossima all’epicentro, quasi il 40% degli abitati crollò o fu, comunque,
irrimediabilmente danneggiato. I morti furono 989, i feriti 3000 e quasi 100.000 i senza tetto321. La
scossa più forte venne avvertita, con un grado pari al 2°-3° della scala Mercalli, anche a Roma.
Dopo la prima scossa si interruppero le comunicazioni e i paesi risultarono irraggiungibili: migliaia
di testimonianze del passato furono ridotte in briciole322. Una prima perimetrazione geografica fu
effettuata direttamente dagli Enti Statali e risulta dal Decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri (DPCM) del 18.05.1976, mentre una seconda, regionale, fu riportata nel Decreto del
Presidente della Giunta Regionale (DPGR) del 20.05.1976. Entrambe registrano Gemona e
Venzone come semidistrutte.
Il Friuli – Venezia Giulia, regione a statuto speciale dell’Italia nord-orientale, è certamente anche
una delle più composite. L’unione politica non avviene, infatti, che nel 1963, aggregando territori di
cultura, storia e tradizioni diverse: latina, germanica e slava. Culture che, in pochi anni, riuscirono a
fondersi e a convivere. Lo sviluppo storico del territorio friulano era legato essenzialmente ai modi
di una società e di un’economia prevalentemente agricola, cosa che si rispecchiava anche nella
composizione urbanistica di una struttura abitativa “sparsa”, fatta di piccoli centri abitati, con
lontane origine romane ma con sviluppo d’epoca medievale. Tali piccoli centri nacquero spesso
come emanazione di centri più grandi di potere feudale. Anche per questo era forte il legame tra
periferia e “città”.323 Negli anni settanta, l’economia friulana, attraversò una crisi tale da provocare
l’abbandono dei piccoli paesi, favorendone il degrado economico e fisico, degrado che assieme alla
posizione stessa dei centri agevolò la distruzione portata dalle violente scosse del 1976.
Subito dopo lo sciame sismico, si interruppero tutti i servizi, acqua, energia elettrica, gas e
comunicazioni telefoniche, rendendo difficile il salvataggio di persone ancora intrappolate sotto le
macerie e della cura dei feriti, non potendo né comunicare né raggiungere materialmente i territori
colpiti.
Ventidue ore dopo, si insediò il Commissario Straordinario di Governo, Zamberletti, i cui compiti
erano fissati dalla legge n.996 dell’ 8 dicembre 1970. La prima operazione fu dividere il territorio
in nove comparti, i Centri Operativi di Settore, alfine di migliorarne il controllo. Gli sfollati furono
alloggiati in tendopoli allestite nei pressi dei centri colpiti, sia per non favorire l’emigrazione,
fenomeno già in atto prima del 6 maggio, nelle zone montane e pedemontane, sia perché si sperava
di mettere mano immediatamente alla riparazione degli edifici e contemporaneamente alla
costruzione di alloggi prefabbricati. Fin nei primi giorni successivi al sisma, la Regione Friuli si
adoperò alacremente per la ricerca e l’erogazione di fondi per la riparazione degli edifici e stanziò i
primi 10 miliardi di lire. Il 13 maggio 1976 fu emanato il decreto, il n.227, a favore del recupero dei
beni culturali, poi convertito in legge il 29 maggio. Con tale decreto, a disposizione della
Soprintendenza, furono stanziati i primi 3 miliardi di lire ed istituiti il “Centro di recupero dei beni
culturali” e la “Segreteria operativa”, dipendenti dall’Assessorato dei Beni Culturali. Questi misero
a disposizione dei comuni consulenti tecnici per avviare il processo di recupero nel momento più
delicato, quello delle demolizioni a tappeto, avvenute, come poi sarà per anche per l’Irpinia, subito
dopo il sisma per il recupero di cadaveri e per la liberazione delle strade.
La prima legge per la ricostruzione fu la n.17, del 7 giugno 1976, emanata ad un mese esatto dal
terremoto. In prima scrittura la legge non forniva alcun suggerimento per il recupero dell’edilizia
esistente o dei centri storici in particolare. Era, più che altro, una legge di “emergenza”, destinata a
sopperire alle “straordinarie impellenti esigenze abitative delle popolazioni colpite dagli eventi
tellurici”. Già in quella sede però, il Centro di recupero dei beni culturali e la Segreteria avanzarono
proposte circa l’inserimento di un capitolo a favore di edifici non solo strettamente di valore
“artistico”, ma più ampiamente “storico”324. Il tema del recupero del patrimonio storico costituito
dai centri minori friulani caratterizzò da subito il dibattito post terremoto: l’intellighenzia friulana e
nazionale fu chiamata a dibattere approfonditamente sul tema. Fu in Friuli che si tenne, infatti, il
Congresso dell’ICOMOS325, fortemente voluto da Piero Gazzola nelle zone del terremoto. Lo stesso
assessore regionale Alfeo Mizzau, durante il Convegno, tenutosi il 21 novembre del 1976 a
Cividale, ricorda come già da due anni fosse costituito un gruppo di lavoro per l’indagine sui centri
storici e l’architettura rurale spontanea326. E’ evidente, quindi, come la riflessione, non solo sul
recupero dei beni culturali già considerati tali, ma sull’importanza dell’architettura minore e degli
aggregati storici, anche in Friuli, avesse preso piede prima del terremoto e come, con il sisma, si
fosse acuita la preoccupazione della perdita di queste importanti testimonianze. Era chiara la
difficoltà non solo di operare una netta distinzione tra ricostruzione e riparazione, come le leggi
indicavano fino ad allora, senza prima considerare l’operazione inquadrata in un generale problema
urbanistico; né, in caso di ricostruzione, era più agevole la scelta tra ricostruzione in loco oppure in
località diversa. Certamente, le esperienze precedenti riportavano a scelte compiute sotto
l’immediato effetto del trauma della calamità che avevano portato come conseguenza piuttosto
emotiva, l’abbandono delle vecchie strutture e la costruzione di un nuovo impianto in zone diverse
dalle precedenti327.
L’idea che si faceva strada era quella di legare il recupero dei centri storici ad una politica di
sviluppo territoriale328, quindi non già, o solo, un problema di difesa e valorizzazione, o di restauro
del patrimonio storico, ma il recupero come opportunità di una pianificazione che avesse come
scopo lo sviluppo sociale ed economico del territorio intero, in cui centro storico periferico e città
capoluogo fossero legati, dove i piani particolareggiati di recupero fossero inseriti in una
pianificazione generale e contemporaneamente collegati gli uni agli altri. Piani di recupero in cui la
trasformazione territoriale potesse dialogare con la conservazione in modo che il centro storico non
rischiasse di essere “congelato”, come si imputava ai progetti proposti da Italia Nostra329, provando
a mantenere ciò che rende vivo il centro storico, ossia quella caratteristica di insieme di abitazione e
servizi, mescolati in modo equilibrato tra loro.
Siamo nel periodo dell’aperto dibattito sul tema e l’approccio al recupero dei centri friulani mette in
discussione le Carte del 1964 e del 1972, perché, come dopo la seconda guerra mondiale anche
dopo il disastro di un terremoto, i principi riguardanti l’attenzione all’autenticità della materia di fronte alla perdita di interi centri urbani di importanza storico-culturale, pur non vacillando,
appaiono insufficienti; il ricordo va, quindi, al monito di Giovannoni del ’45, che sottolineava
come, pur avendo risolto il problema dell’”aggiunta” attraverso la teoria delle forme e delle
strutture semplici, dopo una distruzione bellica, o catastrofe naturale, non si potessero condannare le
città italiane ad una nudità costruttiva desolante. Il tema, nello specifico, era il tipo di metodo da
utilizzare nella “ricostruzione” sia del patrimonio storico-artistico che del patrimonio di architettura
minore costituito dai centri storici. In questo dibattito si inserisce anche il convegno ristretto
dell’ICOMOS, del dicembre del 1976, al quale parteciparono Roberto Pane, Piero Gazzola
promotore), De Angelis d’Ossat, e nel quale, però, rimasero generiche le posizioni rispetto a
specifiche modalità di intervento nel recupero dei centri storici330, peraltro ancora considerati nelle
diciture di “prospettiva, scorci”. Nonostante gli interessanti interventi di Gaetano Miarelli Mariani,
Gianfranco Caniggia e Roberto Pane che, tenendo presenti gli esempi negativi di quanto realizzato
in Italia nel dopoguerra, esortarono a tenere in conto, a studiare ed approfondire il dato ambientale,
dell’insieme urbanistico, dell’edilizia minore e del territorio in cui si inserisce, al fine di non
incorrere nel mero «salvataggio di qualche residuo monumentale e (nel) l’aggiunta di nuovi tracciati
e agglomerati, del tutto indifferenti alla stratificazione locale; (realizzando) così una ennesima
testimonianza della impossibilità di conciliare il biotopo urbano con la concezione
meccanicistica»331, ci si limitò, infine, a far voto che «nella ricostruzione ci si attenga al rispetto dei
tracciati viarii e delle volumetrie e tipologie, in quanto costituiscono non solo testimonianze di
storia, ma anche espressioni di una cultura friulana tuttora viva» e che «gli interventi restauratori,
infine, corrispondano rigorosamente ai principi fondamentali della Carta di Venezia (1964),
accogliendo tutti i contributi della moderna tecnica, idonei a garantire, tra l’altro, la sicurezza dai
rischi del sisma»332, ma non vi fu un riferimento preciso alla prassi dell’intervento, al contrario,
anche, di ciò che fu espressamente chiesto dallo stesso Francesco Doglioni al termine del suo
intervento al Congresso333.
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