SERIAL MIND
Criminologia e psiche oscuraROBERT HANSEN
Ufficialmente il Serial Killer è colui che uccide più di tre persone, in serie, spesso utilizzando le stesse modalità. Ci sono però molti sinonimi o aggettivi ad effetto che nel tempo sono stati affibbiati a questa categoria criminale. A mio parere il più colorito di tutti è sicuramente “predatori di uomini”.
A tal proposito, qualche tempo fa Gareth Patterson ha pubblicato un articolo sul suo sito intitolato “The Killing Fields”, nel quale il giornalista compara i cacciatori di animali con gli assassini seriali.
“Così come il serial killer, anche il cacciatore progetta il suo omicidio con grande cura. Come l’assassino seriale, il cacciatore sceglie bene il tipo di vittima a cui dare la caccia, ovvero la specie da uccidere. Sceglie la zona e l’arma. Entrambi spesso tengono da parte macabri ‘souvenir’ delle loro prede. L'assassino seriale conserva pezzi di corpo umano per la stessa ragione che spinge il cacciatore a mettere la testa di alce sopra il camino: sono trofei di caccia…”
Nessuno si addice meglio di Robert Hansen a questo paragone. La sua folle storia si svolge in Alaska, lo Stato più grande degli U.S.A. Vasta il doppio del Texas, l’Alaska conta solamente 600 mila abitanti ed è un pezzo di America ancora selvaggio, ricoperto di boschi, ghiacciai e montagne.
Robert Christian Hansen nasce il 15 febbraio 1939, a Esterville, Iowa. Suo padre è un panettiere danese emigrato in America con la moglie Edna. L’educazione che riceve il piccolo Robert Christian è molto severa e rigida, inoltre sin da piccolo è costretto a lavorare duramente nella panetteria di famiglia.
Passano gli anni ma Hansen non cresce molto, rimanendo molto basso e magro per la sua età. La sua faccia invece si ricopre di acne e, come se non bastasse, lo stress lo porta a balbettare. Tutti questi difetti fanno si che Hansen cresca senza amici. A scuola viene preso in giro, oppure viene tenuto a distanza dagli altri ragazzi.
Il Diploma del Liceo arriva nel 1957 e, nello stesso anno, Hansen si arruola nella Riserva dell’Esercito. In seguito all’addestramento base, viene costretto a dedicare all’esercito un week-end al mese. Il resto del suo tempo lo passa sgobbando nella panetteria del padre e, ogni tanto, fa l’istruttore volontario del corpo di Polizia Junior di Pocahantas, Iowa.
Nel 1960 arriva finalmente l’amore per una ragazza del posto, con la quale Robert si sposa dopo pochissimo tempo. Sarà un matrimonio di breve durata perché, il 7 dicembre 1960, Hansen decide di vendicarsi della popolazione della cittadina, rea di averlo preso in giro per anni, dando fuoco al garage degli scuolabus, senza accorgersi però che un passante lo sta filmando. Condannato a tre anni di prigione, Hansen perde la moglie (che giustamente ha chiesto l’immediato divorzio).
In prigione uno psichiatra gli diagnostica una personalità infantile e pericolosa. Nonostante la diagnosi, Robert Hansen è comunque in libertà dopo nemmeno 20 mesi, grazie alla buona condotta.
Qualche mese dopo la scarcerazione, Hansen fa la conoscenza di una giovane ragazza e i due si sposano nell’autunno del 1963. Negli anni seguenti, Hansen passerà di lavoro in lavoro, subendo anche diversi arresti per svariati furti di piccola entità.
Nel 1967, dopo qualche mese di riflessione, l’uomo decide di dare una svolta alla propria vita e di ricominciare da capo. La famiglia emigra così in Alaska.
La meta prescelta da Hansen è Anchorage, che con i suoi 200.000 abitanti è la città più popolosa e urbanizzata dell’Alaska. I residenti accolgono molto bene la nuova famiglia e ben presto il danese si guadagna la reputazione di grande esploratore e ottimo cacciatore. Tra il 1969 e il 1971 l’uomo vince anche diversi trofei e finisce nel locale “Libro dei Record”.
La fortuna di Hansen dura comunque poco tempo: nel 1977 viene scoperto mentre ruba una motosega e viene condannato a 5 anni di prigione. Anche in questa prigione, l’uomo viene analizzato da uno psichiatra, che diagnostica un disturbo bipolare e obbliga Hansen a prendere del Litio, per controllare gli sbalzi d’umore.
Robert non esegue l’ordine e dopo 1 solo anno di carcere è nuovamente in libertà.
Nei primi anni ’80 è lo stesso Hansen a subire una rapina, che gli frutta ben 13mila dollari di assicurazione. Con questi soldi, Hansen e la moglie, dalla quale nel frattempo ha avuto due figli, decidono di aprire una panetteria.
Ben presto i problemi con la legge sono dimenticati e gli Hansen tornano a diventare membri rispettati della comunità.
Ma questa è solo la facciata esteriore…
La valle del Knik River è zona perfetta per i cacciatori. A sole venticinque miglia dalla città di Anchorage, la zona è prevalentemente boschiva, ma è costellata di grotte preistoriche e di dirupi formati dall’erosione dei ghiacciai. Grazie a questa conformazione, è molto facile trovarvi capre di montagna, pecore, orsi bruni o alci.
Il pomeriggio del 12 settembre del 1982, John Daily ed Audi Holloway, due agenti di polizia fuori servizio, sono a caccia proprio in questa valle.
Al calare della sera, i due uomini decidono di riprendere la strada di casa. Non è un cammino facile, ma i due poliziotti sono molto esperti e procedono abbastanza spediti. Giunti nelle prossimità del fiume, notano uno stivale conficcato nella sabbia. Un cacciatore normale non ci avrebbe quasi fatto caso, ma i due poliziotti, per deformazione personale, si insospettiscono e si avvicinano allo stivale.
Ispezionando meglio la calzatura, Daily e Holloway hanno una brutta sorpresa: dentro allo stivale c’è l’osso di una gamba, circondato ancora da qualche pezzo di carne umana, in avanzato stato di decomposizione.
Lasciata intatta la scena del delitto, i due agenti segnano sulla mappa la zona e con molta cautela si allontanano.
Il caso viene assegnato a Rollie Port, un veterano pluridecorato del Vietnam, considerato il miglior agente della regione. Il Capo Investigatore passa molte ore nell’area del macabro ritrovamento, scatta fotografie, raccoglie campioni di terreno e setaccia personalmente il cadavere.
Alla fine il suo lavoro ripaga: negli abiti della vittima viene ritrovato il guscio di un proiettile calibro 223. È un proiettile speciale, utilizzato soprattutto da fucili automatici come M-16, Mini-14, o AR-15.
L’autopsia preliminare rivela che la vittima era una donna, di età indeterminata, morta approssimativamente da 6 mesi. Il decesso è dovuto alle ferite da sparo, inferte appunto da pallottole calibro 223. I resti di bende fanno presupporre che la vittima sia stata anche bendata. Ci vorranno altre due settimane di ricerca per identificare il cadavere in Sherry Morrow, spogliarellista 24enne del Wild Cherry Bar di Anchorage.
La ragazza è scomparsa il 17 novembre 1981, ai suoi amici disse che un uomo le aveva offerto 300 dollari per fare da modella ad alcuni ritratti.
Nonostante l’assenza di altri cadaveri e di prove che si tratti di un omicidio seriale, la polizia di Anchorage ha sin da subito il sospetto che la morte di Sherry non sia un caso isolato.
Effettivamente nel corso degli ultimi due anni c’è stato un aumento esponenziale di persone scomparse, soprattutto spogliarelliste e prostitute.
Dopo la scoperta del cadavere di Sherry, tutti i documenti relativi alle ragazze scomparse vengono ripresi dagli archivi e analizzati con cura. Inizialmente la cittadina non viene avvertita, ma alla fine il Dectetive Maxine Farrel decide di rilasciare alla stampa delle dichiarazioniche mettano in guardia la popolazione: là fuori, da qualche parte, c’è uno psicopatico che uccide le ragazze sole.
I primi due casi archiviati che vengono associati alla scomparsa di Sherry risalgono al 1980. Nel primo caso degli operai avevano rinvenuto dei resti umani scavando vicino Eklutna Road. Gli animali avevano mangiato la maggior parte dei resti e non c’erano molte prove: la vittima non era stata identificata ed era stata semplicemente soprannominata “Eklutna Annie”. Il secondo corpo era stato ritrovato in una buca di ghiaia non molto lontano. La vittima era stata identificata come Joanne Messina, una spogliarellista senza dimora. Il suo corpo era però gravemente decomposto e non era stato possibile ricavarne nessuna informazione utile.
Passano i mesi e la speranza di prendere l'assassino comincia a scemare, fino alla notte del 13 giugno 1983. Un camionista, che sta attraversando la città, si accorge di una donna che gli sta correndo incontro freneticamente, sventolando le braccia in richiesta di aiuto. La giovane ha delle manette che penzolano da uno dei polsi e i suoi abiti sono tutti strappati. In preda al panico, la ragazza grida al camionista che è inseguita da un uomo e si fa portare al Big Timber
Motel. Una volta accompagnatala, il camionista riparte e si dirige alla Centrale di Polizia dover riporta l’accaduto.
L’Agente Baker si presenta al Big Timber Motel dopo pochi minuti e qui trova la ragazza. È sotto shock, seduta nella Hall, ancora ammanettata.
Dopo averle liberato le mani, l’investigatore si mette ad ascoltare la storia delle giovane.
La ragazza racconta di essere stata avvicinata da un 40enne con i capelli rossi, che le ha offerto 200$ per un rapporto orale. Durante l’atto però, l’uomo le ha ammanettato il polso e le ha puntato una pistola alla tempia. L’uomo ha guidato fino a casa sua, nel quartiere di Muldoon, dove ha violentato ripetutamente la ragazza, anche con oggetti, soprattutto con un martello.
Dopo una breve pausa, l’aggressore l’ha portata all’aeroporto, promettendole di portarla alla propria capanna in montagna. Giunti nel luogo, la ragazza ha approfittato di una distrazione per fuggire e, per sua fortuna, si è presto incrociata con il camionista.
Sicuri di aver trovato il loro uomo, gli agenti di polizia portano immediatamente la ragazza all’aeroporto, chiedendole di riconoscere l’aereo che l’ha condotta sulle montagne. Non ci vuole molto alla prostituta che, dopo solo 10 minuti di ricerche, indica ai poliziotti un piccolo Piper Super Cub bianco e blu, targato N3089Z. L’aereo è di proprietà di Robert Christian Hansen, residente a Old Harbor Road.
Incalzato immediatamente dalle autorità, il danese dichiara un alibi di ferro. La moglie e i figli sono in Europa in vacanza, e lui ha passato tutta la sera con due amici che confermano. Caso chiuso, la prostituta probabilmente voleva estorcere soldi a un cittadino onesto.
Il tempo passa e le acque si calmano nuovamente, fino al 2 settembre 1983, quando la morte riaffiora nuovamente dal Knik River. È passato un anno dal ritrovamento di Sherry Morrow e dei cacciatori hanno trovato un nuovo corpo lungo il fiume, decomposto e seppellito parzialmente in una tomba poco profonda. La vittima verrà più tardi identificata come Paula Golding, 17 anni, spogliarellista e prostituta di Anchorage. È scomparsa cinque mesi prima, e ad ucciderla sono stati nuovamente dei proiettili calibro 223.
È finalmente la prova che dimostra la presenza di un assassino seriale così viene immediatamente convocata in aiuto l’ FBI. Non è comunque la prima volta che l’Alaska ha a che fare con un Serial Killer: già nel 1979, un certo Thomas Richard Bunday uccise almeno cinque donne e si diede alla fuga. Quando le autorità diramarono il suo mandato di arresto era già troppo tardi, l’uomo era morto in un incidente stradale a bordo della propria moto, mentre tentava di lasciare il paese.
L’ FBI risponde prontamente alla richiesta e spedisce in Alaska l’agente speciale John Douglas, figura leggendaria nel suo campo.
Come di consueto, per prima cosa l’agente stende un profilo del killer, un uomo che sceglie prostitute e spogliarelliste perché solitamente sono sole al mondo e isolate. Gli investigatori di Anchorage gli propongono di analizzare il loro sospetto numero uno: Robert Hansen.
Secondo Douglas, il fisico di Hansen denota una triste infanzia, fatta di prese in giro e di solitudine. Ciò spiegherebbe in parte anche perché ha scelto di vivere in una zona così desolata degli Stati Uniti. Se Hansen è l’assassino, probabilmente agisce per vendicarsi sulle donne di qualche avvenimento passato, forse di una ragazza che lo ha maltrattato. È indicativo anche il fatto che il danese sia stato in passato riconosciuto come un abile cacciatore, presumibilmente all’inizio si sfogava sulla selvaggina e, una volta stufo, ha diretto le proprie mire sulle donne. Per concludere il profilo, Douglas mette in guardia gli agenti: se Hansen è il killer, allora probabilmente appartiene alla categoria dei “saver”, ovvero di coloro che tengono da parte un ricordo, un souvenir della vittima. Qualsiasi cosa, dall’oggetto personale all’osso femorale.
La polizia si decide così di trarre in fermo i due amici di Robert Hansen e li mette sotto torchio per ore. Alla fine i due uomini cedono e confessano: quella notte non erano in compagnia di Hansen, erano a casa loro. I due confessano anche che Hansen ha in passato frodato l’assicurazione. Non è avvenuto mai nessun furto in casa sua, gli oggetti spariti sono nascosti in cantina.
Dopo queste ultime dichiarazioni, agli agenti non occorre nemmeno perdere tempo per farsi consegnare un mandato di arresto o di perquisizione.
Il 27 ottobre 1983, gli investigatori pedinano Hansen fino al lavoro, in panetteria, lo fermano e lo conducono in centrale per degli accertamenti. L’uomo non si oppone e si fa portare tranquillamente fino alla sede di polizia. Nel frattempo un’altra squadra perquisisce la sua casa e il suo aereo. Vengono ritrovate moltissime armi, ma nessuna prova che possa incastrarlo. Proprio quando gli agenti stanno per lasciare l’appartamento, uno di loro individua un buco nelle traversine del pavimento. Tolte le mattonelle di legno, i poliziotti trovano un nascondiglio segreto, all’interno del quale sono conservati un fucile Remington calibro 552, una pistola Thompson a 7mm con un caricatore speciale da un colpo solo alla volta, dei bastoni, mappe di aviazione con alcune località evidenziate a pennarello, gioielli, ritagli di giornale, un fucile da caccia, una patente, il mirino di un Winchester, carte di credito appartenute alle ragazze scomparse e un fucile Mini-14 calibro 223.
Alla centrale di polizia, Hansen si nasconde dietro un velo di silenzio e chiede di poter parlare con il proprio avvocato. Gli investigatori, lo trattengono in arresto per aggressione, stupro, minaccia a mano armata, furto e frode di assicurazione.
Il 3 novembre 1983, ad Anchorage, si apre un piccolo processo su questi capi d’accusa, poiché non sono ancora arrivati i risultati della balistica sul fucile di Hansen. Per quelli bisogna attendere il 20
Novembre 1983, quando i laboratori della FBI di Washington, D.C., annunciano che i proiettili trovati sui cadaveri delle ragazze scomparse appartengono all’arma da fuoco di Robert Hansen.
Messo alle corde da tutte queste prove contro di lui, il 22 febbraio 1984, Hansen convoca il proprio avvocato difensore e il magistrato del tribunale perché ha deciso di patteggiare. Dopo diverse ore di consulta, i tre decidono che, in caso di confessione, Hansen subirà una condanna per i soli quattro omicidi provati e potrà passare gli anni di prigionia in un carcere statale anziché in un carcere di massima sicurezza.
Una volta firmato l’accordo, l’assassino può finalmente liberarsi del peso dei propri omicidi e comincia una confessione fiume, partendo dalla descrizione della sua tipica aggressione. Dopo aver estratto la pistola ed averla puntata sulla prostituta, l’uomo inizia un lungo discorso per tranquillizzare la vittima, un discorso che più o meno comincia così:
“Tu sei professionista. Non ti ecciti e sei consapevole che il tuo lavoro comporta dei rischi. Vedrai che ricorderai questo episodio solo come una brutta avventura e la prossima volta sarai più attenta a quello che fai e con chi decidi di andare.” (Tratto dalla confessione di Robert Hansen)
Ogni qualvolta che Hansen ha una vittima sotto il suo controllo, la porta all’aeroplano privato per volare fino alla capanna sulle montagne, dove stupra e tortura la ragazza di turno.
Dopo, le spoglia completamente e le libera nel bosco, dando loro la caccia, armato di coltello e fucile, come a un animale boschivo. Una volta abbattute con il fucile, le ragazze vengono fatte a pezzi e seppellite.
Finita la confessione, Hansen viene messo di fronte a una cartina della regione, sulla quale indica 15 zone in cui ha seppellito le sue vittime, tre dei quali già noti agli investigatori. Vista la difficoltà di raggiungere molti di questi posti, il giorno dopo Robert viene caricato su un elicottero militare e costretto a portare gli agenti di polizia in tutti i “sepolcri”. Alla fine della giornata, tra ghiacciai, boschi, foreste e vallate nascoste, la polizia di Anchorage disseppellirà ben 12 donne su indicazione dell’assassino. Il 27 febbraio 1984, come da patto, il tribunale condanna Robert Hansen solo per i quattro omicidi scoperti dalle autorità (Paula Golding, Joanna Messina, Sherry Morrow e l’anonima “Eklutna Annie.”) … ma lo condanna per questi a ben 461 anni di carcere, senza la possibilità di uscire mai sulla parola o per buona condotta. La condanna è da scontare nel Penitenziario Federale di Lewisburg, in Pennsylvania.
Tra aprile e maggio 1984, gli investigatori di Anchorage passano invece due mesi lunghissimi a disseppellire resti umani e a identificare le vittime di Robert Hansen.
Nel 1988, Hansenritorna in Alaska e diviene uno dei primi detenuti del nuovissimo Spring Creek Correctional Center, a Seward, dove risiede tutt’oggi.
In seguito alla condanna, il suo nome è stato rimosso dal libro dei record di caccia e sua moglie ha dovuto chiedere il divorzio e scappare dall’Alaska, poiché era importunata dagli altri cittadini.
Il 21 febbraio del 2003, dopo più di 20 anni, è stato trovato un altro corpo, impossibile da identificare. Le autorità dell’Alaska, non volendo una seconda “Eklutna Annie”, hanno diramato la descrizione dell’abbigliamento della giovane, fornendo anche un indirizzo e-mail a cui scrivere, nella speranza di poter dare un nome a quest’ultima (speriamo) vittima di Robert Hansen. A distanza di due anni però, l’impresa è ancora incompiuta.
“Dare la caccia alle donne è più divertente di dare la caccia a un grizzly” (Robert Christian Hansen)
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ANTONIO MANTOVANI
Il Mostro di Milano
Antonio Mantovani, che passerà alla storia come il “mostro di Milano”, nasce a Trevenzuolo (Verona) nel 1957.
Ebbe un’infanzia dura: fu messo in collegio dalla madre che non voleva più occuparsi di lui a soli 7 anni; presumibilmente fu questo il trauma scatenante del futuro serial killer.
A soli 14 anni, tenta di violentare una bambina di 3 e nel 1979 cerca di violentare la moglie di un suo amico.
Per trovare la prima vittima di Mantovani, dobbiamo attendere fino all’11 febbraio 1983, quando violenta e uccide Carla Zacchi, 26 anni, impiegata in un giornale e moglie di un suo amico. Il cadavere, spogliato dei vestiti, viene gettato in un canale a Lucino di Rodano, vicino Milano.
A scatenare il raptus omicida in Mantovani è stato il rifiuto della donna ad avere rapporti sessuali con lui.
In seguito all’omicidio, Mantovani viene arrestato e condannato a 29 anni di reclusione.
Purtroppo però nel 1996, dopo aver scontato solo 13 anni, l’uomo ottiene la semilibertà e torna ad uccidere.
Durante il giorno, Mantovani passa il suo tempo lavorando per un’azienda informatica o in un appartamentino che ha affittato a Milano, dove trascorre la maggior parte del suo tempo; in carcere torna solo la notte, per dormire.
La seconda vittima è Dora Vendola, anche lei in semilibertà, che viene strangolata con un laccio e ritrovata nella sua auto a Milano. E’ il 6 novembre 1996.
Mantovani viene messo sotto indagine per questo delitto, ma mai accusato. Interrogato, ammette di conoscere Dora e riferisce di aver ricevuto da lei un rifiuto ad un approccio sessuale, ma nega di averla uccisa. Agli inquirenti la spiegazione risulta credibile e a Mantovani non viene revocata la semilibertà, lasciandolo di fatto libero di colpire ancora.
Nel 1997, approfittando dei permessi a lui concessi, Antonio uccide per ben 2 volte: Simona Carnevale (a marzo) e Carolina De Donato (a giugno).
Simona Carnevale, parrucchiera di 26 anni, scompare la sera del 7 marzo del 1997, dopo essere uscita dal suo negozio di Milano.
Di questa scomparsa si occupa anche la trasmissione televisiva “Chi l’ha visto?”. Pare che Simona, il giorno della sua scomparsa, abbia chiamato a casa per dire alla sorella che sarebbe rientrata più tardi.
Quella fu l’ultima traccia di Simona. Forse ha avuto un brutto incontro mentre si incamminava per la metropolitana, la strada è buia e il luogo non è proprio raccomandabile. Qualche giorno prima, proprio in quella strada, c’è stato un tentativo di rapimento e per questo motivo Simona si fa sempre accompagnare a casa dal padre o dal ragazzo.
Perché allora quel giorno era sola? Simona aveva conosciuto un ragazzo pochi giorni prima, ma non lui non era con lei il giorno della sua scomparsa. E’ lui stesso a chiamare la trasmissione, spiegando che quel giorno era fuori Milano e che conosceva solo superficialmente Simona.
A questo punto, parenti e amici cominciano a temere per la sorte della giovane parrucchiera.
Il 2 giugno 1997, viene invece ritrovato il cadavere carbonizzato di Carolina De Donato, proprietaria dell’appartamento che Mantovani ha preso in affitto. La donna è nel suo letto, circondata da una ventina di bambole.
Il primo marzo 1999, Simona risulta ancora scomparsa e “Chi la visto?” torna ad occuparsi del suo caso. La redazione del programma riceve una lettera anonima, in cui si parla di un’aggressione subita da parte della giovane in metropolitana. In seguito all’aggressione, Simona sarebbe stata portata via da un auto.
Tramite la televisione, viene lanciato un appello all’autore della lettera: “se il suo racconto è vero ci aiuti a scoprire i colpevoli.”
Il primo giugno 1999, “Chi l’ha visto?” torna ad occuparsi del caso Carnevale, poiché il GIP di Milano ha spiccato un ordine di custodia cautelare nei confronti di Mantovani, che si trova in carcere per scontare la sua condanna risalente al 1983. La sera del delitto, Mantovani non era in carcere, ma in semilibertà.
Chi lo accusa è Carlo Fermi, suo compagno di cella, che vista in televisione la foto della ragazza, si ricorda di averla vista in compagnia di Antonio.
Fermi ricorda che la sera del 7 marzo 1997 Mantovani era rientrato in cella molto agitato e che gli aveva confessato di aver ucciso una ragazza. Il giorno dopo gli aveva addirittura mostrato il corpo della giovane avvolto in un telo nel bagagliaio della sua Y10 gialla.
Con l’approfondire delle indagini si scopre che tra le carte di Simona c’è il numero di Mantovani, perciò i due si conoscevano.
Nel corso delle indagini, Mantovani viene ritenuto responsabile anche dell’omicidio di Cesarina De Donato. Dopo la sentenza, Antonio tenta la fuga, ma nel 1998 viene ritrovato e arrestato.
Il 12 novembre 2001, Mantovani viene condannato all’ergastolo, nonostante si professerà sempre innocente e si sia dichiarato dispiaciuto per le famiglie delle vittime (scoppiando anche in lacrime più volte durante il processo). Ad oggi, è detenuto nel carcere di Opera (Milano).
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ANATOLY ONOPRIENKO
Anatoly Onoprienko, conosciuto anche come "Terminator", con 52 omicidi compiuti, è stato uno degli assassini seriali più prolifici nell'area dell'ex Unione Sovietica, insieme al più noto Andrei Chikatilo.
Onoprienko nacque in Ucraina, a Laski (una cittadina nella regione Zhitomirskaya Oblast) nel 1959.
Sua madre morì quando lui aveva appena 4 anni. In seguito alla dipartita della donna, suo padre faticò molto ad accudire da solo i due figli, fino a quando, 3 anni dopo, decise di affidare Anatoly ad un orfanotrofio russo, tenendo con sé il primogenito. Questa scelta peserà molto sulla psiche di Onoprienko, che rivivrà sempre quell'abbandono come un'esperienza altamente traumatica.
Intorno all'età di 17 anni, Onoprienko divenne un marinaio ed entrò in contatto con quella che poi diventò sua moglie (con la quale si lasciò nel giro di pochi anni).
Durante i lunghi e solitari viaggi in mare, le fantasie di Onoprienko cominciarono a monopolizzare sempre di più la sua mente, fino a tramutarsi in veri e propri deliri ed allucinazioni che negli anni gli causeranno vari ricoveri in ospedali psichiatrici e trattamenti coatti.
Dopo il suo arresto, Anatoly disse di non avere ucciso per sua propria volontà, bensì per ordine di Dio, di Satana e di personaggi storici che gli parlavano dall'Aldilà. Dio lo considerava infatti un essere superiore e per questo motivo gli aveva dato un incarico: quello di uccidere persone, in particolar modo i deboli.
Durante la sua confessione, Terminator precisò di aver parlato con Dio, Satana, Messir (un personaggio di un libro di Bulgakov) e persino Hitler, che gli avrebbe ordinato di far scoppiare una nuova guerra mondiale.
"Non devo altre spiegazioni alle mie vittime, alle famiglie e alla polizia" aggiunse riferendosi alle motivazioni dei suoi delitti.
Onoprienko era inoltre convinto di poter ipnotizzare le persone a lui inferiori, di poter controllare gli animali con la telepatia e di riuscire ad arrestare il proprio cuore con il solo potere della mente.
Un quadro decisamente patologico, supportato anche da una diagnosi di schizofrenia che gli fu fatta in un ospedale psichiatrico di Kiev. Ciò non fu tuttavia sufficiente a farlo dichiarare incapace di intendere e di volere durante il processo, forse per motivi più politici che di giustizia. Si trattava comunque di uno dei più spietati assassini ucraini e l'opinione pubblica probabilmente non avrebbe gradito una sua assoluzione per malattia mentale, anche se questa avrebbe ugualmente comportato la reclusione in una struttura appropriata.
Onoprienko commise il suo primo omicidio nel 1989.
In quel periodo aveva fatto amicizia con un uomo di nome Sergei Rogozin, conosciuto in una palestra. I due cominciarono a spendere molto tempo insieme, fino a quando decisero di trasformare quella loro amicizia in una vera e propria associazione criminosa, dedita ai furti di appartamento, pur di rimpinguare i loro miseri redditi.
Tutto filò liscio per qualche tempo, fino a quando, una notte, mentre stavano svaligiando una casa isolata fuori città, i due furono sorpresi dai proprietari dell’edificio. Onoprienko e Rogozin, che agivano senza maschere, capirono immediatamente che per poter mantenere la loro libertà avrebbero dovuto uccidere tutti i componenti della famiglia. Così fecero, sterminando a colpi di pistola i due adulti e gli otto bambini che vivevano in quella casa.
Alcune settimane dopo, Onoprienko interruppe ogni rapporto con il suo socio criminale e dopo alcuni mesi commise il suo primo omicidio in azione solitaria.
Una notte, si avvicinò ad un'auto con a bordo un'intera famiglia, con l'intenzione di derubarli, ma qualcosa andò storto e Anatoly sparò a tutti e cinque i componenti della famiglia, compreso un bambino di 11 anni. Dopodichè, per riposarsi, si sedette in auto insieme ai cadaveri e, quando questi cominciarono a puzzare, diede fuoco all'auto carbonizzandoli.
In seguito, Onoprienko si trasferì da un suo lontano cugino e riuscì a tenere a freno i suoi istinti omicidi per ben cinque anni prima di tornare a uccidere di nuovo il 24 dicembre 1995. Quella notte, nel piccolo villaggio di Garmarnia, in una zona rurale del centro dell'Ucraina, Onoprienko uccise senza motivo un insegnante di silvicoltura, sua moglie e i due figli. Si trattava dell'intera famiglia Zaichenko. Nel suo classico stile spietato, che gli valse il soprannome di "Terminator", sterminò l'intera famiglia a colpi di fucile a doppia canna (rubato qualche tempo prima) e poi incendiò la casa.
Dopo quell'ennesimo massacro, la psiche di Onoprienko andò del tutto in frantumi.
Anatoly cominciò ad essere sempre più ossessionato e perseguitato da visioni di Dio che gli comandava di uccidere, così, dopo soli 9 giorni, penetrò nell'abitazione di un'altra famiglia uccidendo tutti e 4 i componenti con una pistola. Anche in questo caso, l’abitazione fu data alle fiamme. Mentre fuggiva dalla scena del crimine, l’assassino incrociò un altro uomo che passava di lì e, senza pensarci due volte, sparò anche a lui uccidendolo sul colpo.
Il 6 gennaio 1996 "Terminator" tornò all'azione, uccidendo 4 persone in 3 eventi separati.
Quel giorno Onoprienko si trovava sull'autostrada Berdyansk-Dnieprovskaya, deciso ad uccidere il maggior numero di automobilisti che poteva. Ricorrendo a vari stratagemmi, riuscì a fermare ben 3 auto ed uccidere un totale di 4 persone: un marinaio di nome Kasai, un taxista di nome Savitsky ed un cuoco di un vicino kolkhoz con sua moglie. Tutti massacrati a colpi di fucile.
In merito alle motivazioni che lo spingevano a compiere questi allucinanti massacri, Onoprienko spiegò: "Per me era come andare a caccia, caccia di esseri umani, io avrei voluto mettermi a sedere, annoiato, senza niente da fare ma poi quelle voci entravano nella mia mente e non potevo farci nulla. Avrei fatto di tutto per cancellarle dalla mia testa ma non potevo. Era più forte di me. Così uscivo, prendevo l'auto, o il treno, e andavo ad uccidere."
Nei due mesi successivi, le zone rurali dell'Ucraina centro-occidentale conobbero una vera e propria escalation di violenza, che creò letteralmente il panico e il terrore tra la popolazione. Un terrore tale che il Governo Centrale fu costretto a mobilitare 3.000 uomini dell'esercito e 2.000 uomini della polizia per dare la caccia all'assassino che ormai tutti chiamavano "Terminator".
Tra il 6 gennaio 1996 e il marzo dello stesso anno, Onoprienko sterminò ben 8 famiglie.
La tattica dello sterminatore era quasi sempre la stessa: penetrava poco prima dell'alba all'interno di case scelte a caso, dopodichè faceva mettere in circolo i componenti della famiglia e poi li uccideva tutti a colpi di fucile calibro 112 a doppia canna. Infine incendiava la casa. Se qualcuno gli si parava casualmente di fronte durante la fuga, veniva anch'esso ucciso senza pietà.
Ad ogni modo, i suoi omicidi diventarono via via sempre più crudeli. Se inizialmente Onoprienko si limitava a sparare alle vittime, con il passare del tempo cominciò a diventare ancora più brutale. Prima di inforcare il fucile per terminare le sue vittime, talvolta picchiava a sangue i bambini, spaccando loro la testa, oppure stuprava donne. Se poi si accorgeva che, dopo le fucilate, le sue vittime respiravano ancora, le terminava a colpi di ascia o di altri oggetti contundenti. Infine rubava quel che trovava e dava fuoco alla casa.
Nei villaggi della regione nessuno si sentiva più al sicuro e, nonostante gli sforzi e l'incredibile mobilitazione di uomini, la polizia non riusciva a risolvere il caso.
Ricordando quei mesi di furia e terrore, Onoprienko disse a proposito dei suoi omicidi: "Nessuna delle mie vittime mi ha resistito, armata o disarmata, uomo o donna, nessuno è riuscito a fare nulla. Per me l'essere umano non vale niente, io ho solo visto gente debole, per me gli umani equivalgono a dei granelli di sabbia....".
Ecco, nel dettaglio, alcune di quelle brutali azioni.
Dopo il massacro dell'autostrada, Onoprienko fece passare solo 11 giorni prima di tornare all'attacco. Era il 17 gennaio 1996 quando penetrò nella casa della famiglia Pilat a Bratkovichi.
La famiglia Pilat era composta di 5 persone e furono tutte trucidate a colpi di fucile, compreso un bambino di 6 anni. All'uscita dalla casa in fiamme Onoprienko trovò casualmente sulla sua strada una ventisettenne operaia delle ferrovie ed un uomo di 56 anni e, senza perdere tempo, li uccise entrambi a sangue freddo.
Meno di una settimana dopo, nel villaggio di Fastova, fu la volta di una infermiera di 28 anni, dei suoi due bambini e di un amico di 32 anni che si trovava a casa della donna, tutti uccisi a colpi di fucile.
Ancora più cruento fu invece il massacro avvenuto ad Olevsk, nella regione di Zhitomir, contro la famiglia Dubchak. Onoprienko uccise a colpi di fucile il capofamiglia e suo figlio, dopodichè si accanì a martellate contro la moglie spaccandole il cranio. Compiuto il massacro, si accorse che rimaneva ancora una bambina. La ragazzina aveva osservato terrorizzata il massacro dei genitori e anche a lei non fu risparmiata una brutta morte.
Queste le parole di Onoprienko a proposito: "Pochi secondi prima di fracassarle la testa con il martello le ordinai di mostrarmi dove tenevano i soldi. Lei a quel punto mi guardò con rabbia e provocatoriamente mi disse «No, non lo farò», il suo coraggio aveva dell'incredibile ma non la risparmiai ugualmente."
Altrettanto bestiale fu il massacro ai danni della famiglia Bodnarchuk, avvenuto a Malina, un villaggio della regione di Lviv, nell'estremo ovest dell'Ucraina, il 27 Febbraio 1996.
Marito e moglie vennero uccisi a colpi di fucile, mentre le due figlie di 7 e 8 anni furono letteralmente fatte a pezzi a colpi d'ascia. Circa un'ora dopo, un uomo d'affari vicino di casa dei Bodnarchuk si trovava a passeggiare nei dintorni e Onoprienko decise di ammazzare anche lui.
Il “Terminator” gli sparò una fucilata e poi lo finì con la stessa ascia usata per uccidere le bambine.
Questi i folli deliri di Onoprienko a proposito di questo massacro: "Oh sapete...io li ho uccisi perchè amavo così tanto quelle bambine, quegli uomini, quelle donne. Ho dovuto ucciderli, la voce mi parlava dentro la mente e dentro il cuore e mi diceva di essere molto duro."
L'ultimo massacro di Onoprienko risale al 22 Marzo 1996, nel piccolo villaggio di Busk.
In quel caso fu sterminata la Famiglia Novosad, composta di 4 persone e la loro casa venne in seguito data alle fiamme.
Nonostante l'enorme mobilitazione di uomini e mezzi, nessun assassino era stato catturato e non c'erano neanche dei concreti sospetti. Onoprienko verrà infatti arrestato soltanto l'otto aprile, grazie ad una denuncia di suo cugino.
Il 7 aprile, Pyptr Onoprienko, cugino di Anatoly, telefonò alla polizia raccontando un episodio che l'aveva preoccupato.
Un giorno aveva trovato nascosta in un armadio una gran quantità di armi. Spaventato, intimò a suo cugino di prendersi la propria roba ed andarsene. Per tutta risposta, Anatoly si arrabbiò molto, disse che lo stava accusando ingiustamente e lo ammonì di stare attento alla sua famiglia perché avrebbe potuto fare una brutta fine. Entro pochi giorni, Anatoly si trasferì a Zhitomir insieme ad una donna e al figlio di lei, portando con sé tutta la sua roba, ma Pyotr, ancora preoccupato per quella minaccia, decise di contattare la polizia.
La polizia prese molto seriamente quella segnalazione e, il giorno dopo, un gruppo di 20 poliziotti si recò all'abitazione segnalata per controllare la situazione.
La donna e il suo bambino si trovavano in Chiesa e, quando la polizia suonò al campanello, Onoprienko si recò ad aprire senza sospettare nulla. Una volta aperta la porta, l’uomo venne immediatamente messo in condizione di non nuocere ed ammanettato.
La polizia cominciò a perquisire la casa e, quando trovò numerose armi e oggetti che erano stati rubati ad alcune delle famiglie massacrate, procedette immediatamente all'arresto di Onoprienko, portandolo alla centrale di polizia per l'interrogatorio.
Dopo l'arresto, Onoprienko si chiuse in un mutismo assoluto, rifiutando di rispondere alle domande e negando ogni responsabilità nelle uccisioni, nonostante la montagna di prove contro di lui.
Venne allora chiamato l'ispettore Bogdan Teslya, noto per la sua capacità di rilassare e mettere a proprio agio i sospetti. Proprio grazie al suo intervento, entro la notte Onoprienko iniziò una confessione fiume di alcuni giorni, nella quale espose nei minimi dettagli la sua vita, il suo pensiero e i suoi crimini.
Il processo contro Onoprienko iniziò soltanto il 12 Febbraio 1999, perché, in base alla legislazione ucraina, prima del processo, oltre a stabilire se l'imputato è capace di intendere e di volere, occorre anche procedere alla lettura di tutti i capi d'accusa all'imputato che, nel caso di Onoprienko, erano qualcosa come 99 volumi pieni di informazioni, testimonianze, foto di corpi smembrati, foto di oggetti rubati e altro ancora.
Inoltre si dovettero trovare i fondi necessari per un processo così mastodontico e oneroso, tanto che fu costretto ad intervenire il Governo stesso con una sovvenzione in denaro per far si che il processo potesse essere svolto regolarmente.
Così come era avvenuto anni prima in occasione del processo all'altro famoso serial killer ucraino, Andrei Chikatilo, anche nel processo contro Onoprienko venne costruita una gabbia di ferro per l'imputato , mentre tutt'intorno una folla urlante e inferocita gridava tutta la sua rabbia contro l'assassino: "Lui non si merita di essere fucilato! Lui merita una lunga e dolorosa agonia!" era tra le frasi meno offensive nei suoi confronti.
A differenza però di Chikatilo, Onoprienko mantenne un comportamento molto rilassato e tranquillo, quasi indifferente a ciò che accadeva intorno a lui. Se gli veniva posta qualche domanda, rispondeva con sufficienza o non rispondeva affatto.
Solo verso la fine del processo, Onoprienko cominciò ad alzare talvolta la voce per esprimere le sue contorte e deliranti idee, come quando affermò di essere un ostaggio per un esperimento cosmico o come quando affermò che quella corte non aveva nessun diritto a giudicarlo perchè lui era al di sopra di essa.
Ad ogni modo, Onoprienko non manifestò nessun tipo di rimorso e provocatoriamente affermò che se fosse tornato indietro avrebbe rifatto esattamente le stesse cose. Arrivò a sentenziare che se Dio o le voci glielo avessero ordinato, avrebbe ucciso anche proprio figlio.
Durante il processo, la precedente diagnosi di schizofrenia, effettuata nell'ospedale psichiatrico di Kiev, venne ribaltata e il dibattito sulla reale capacità di intendere e volere dell’imputato fu quasi del tutto trascurato. Alla fine, l'avvocato difensore si limitò ad una generica richiesta di clemenza da parte del giudice.
Nell'aprile del 1999, il processo terminò con una condanna a morte tramite fucilazione, poi commutata in prigione a vita per sottostare alla moratoria della pena di morte richiesta all'Ucraina dall'Unione Europea.
A questo proposito, l'ex Presidente dell'Ucraina, Leonid Kuchma, intervenne in prima persona per sostenere che il caso di Onoprienko doveva essere considerato un'eccezione, perché la pena di morte nel suo caso era giusta. Tuttavia non ci fu comunque nessuna sospensione della moratoria.
Nonostante lo stesso Onoprienko fosse favorevole alla sua condanna a morte, l’assassino non ha gradito le parole di Kuchma e in un'intervista uscita sul London Times disse: "Se io dovessi mai uscire di qui, ricomincerei ad uccidere di nuovo, ma stavolta sarebbe peggio, molto peggio...(...) e se io non sarò giustiziato e dovessi un giorno riuscire a scappare dalla prigione, la prima cosa che farò sarà quella di andare a cercare Kuchma e appenderlo ad un albero per le palle"....
Sergei Rogozin, complice di Onoprienko nel primo massacro, è stato invece condannato a 13 anni di carcere.
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ALBERT FISH
il Vampiro di Brooklyn
Albert Fish è da tempo nella classifica dei 20 serial killer più famosi ed efferati. Un sadomasochista con gravissimi problemi mentali, Albert Fish è conosciuto oggi come il Vampiro di Brooklyn. Che cosa faceva? Torturava e mangiava i bambini. Della sua vita si conosce davvero poco. Tutto quello che è a nostra disposizione è tratto dalle dichiarazioni che egli ha lasciato al Dottor Frederic Wertham dopo il proprio arresto. Albert Hamilton Fish nasce il 19 maggio 1870 a Washington D.C. La sua è una famiglia disagiata, si salva solamente il padre, Randall Fish, un Capitano dell'esercito. Purtroppo il 15 ottobre 1875 Randall Fish muore e il piccolo Albert viene sistemato in un orfanotrofio.
Non è per niente bella la vita nell'orfanotrofio di St. John. È questo un centro religioso, dove i bambini vengono puniti con frustate e varie punizioni corporali. Albert Fish vi rimane per ben nove anni e, quando ne esce, è un individuo fortemente provato, che comincia ad essere ossessionato dal peccato e dall'espiazione tramite il dolore.
Uscito dall'orfanotrofio l'uomo si mantiene con piccoli lavoretti, fino a quando scopre di essere un bravo decoratore di interni. In questo periodo, appena 26enne, conosce una ragazza di 19 anni e la sposa. Avranno ben sei figli, verso i quali Albert sarà sempre amorevole e protettivo come tutti i genitori normali.
Qualcosa però non va come dovrebbe andare. La moglie di Fish lo abbandona: ha conosciuto un giovane studente universitario e ha deciso di scappare con lui. Si porta via anche i mobili, lasciando al marito solamente un materasso per dormire.
Abbandonato a se stesso, Fish comincia a compiere piccoli crimini come il compilare e spedire delle lettere oscene. Viene arrestato più volte. Finisce in manicomio. Secondo alcuni avrebbe cominciato a uccidere proprio in questo periodo, nel 1910. Vittima un uomo adulto.
Nel 1925, raggiunti i 55 anni, Fish comincia il suo cammino verso la follia più pura. Diventa estremamente masochista (si infila aghi nello scroto, incendia pezzi di cotone e se li infila nell'ano, si fa frustare e sculacciare a sangue dai propri figli ecc. ecc.) e si dedica alla coprofagia. Comincia anche ad avere allucinazioni a sfondo mistico.
Angeli e Santi compaiono davanti agli occhi di Fish, Cristo in persona lo incita a purificare i peccati del mondo tramite la punizione fisica e il sacrificio umano. L'uomo comincia anche a crearsi mentalmente un'idea malata della Bibbia, fino a convincersi che in essa compaiano citazioni del tipo: "Felice è colui che rapisce i bambini e spacca loro le teste con delle pietre."
Alla fine è Dio stesso a comparirgli in sogno e a ordinargli di torturare e castrare tutti i bambini che può.
Prima di cominciare la storia di Albert Fish serial killer, è interessante notare come la follia e i problemi mentali siano stati quasi una costante nella famiglia Fish. Lo zio paterno di Albert soffriva di una psicosi caratterizzata da allucinazioni di carattere religioso. Morì in ospedale, così come uno dei suoi tanti fratelli. Un' altra zia paterna venne rinchiusa in manicomio e schedata come "totalmente matta". Il fratello più grande di Fish era affetto da alcolismo cronico, mentre quello minore era frenastenico e morì di idrocefalo. Una sua sorella venne internata in ospedale psichiatrico per una "non ben definita malattia mentale" e sua madre soffriva periodicamente di allucinazioni visive e uditive.
Edward Budd è un 18enne intraprendente, forte e ansioso di lavorare. Eddie vive però in una famiglia molto povera: madre, padre e cinque figli, intrappolati in una lurida baracca di periferia. Desideroso di poter evadere dalla terribile situazione in cui vive, il 25 maggio 1928 Eddie fa pubblicare un annuncio sull'edizione domenicale del New York World : "Giovane 18enne, cerca lavoro nel paese. Edward Budd, 406 West 15th Street."
È un annuncio scarno, privo di effetto e difficilmente richiamerà l'attenzione di qualcuno, eppure il lunedì seguente, 28 maggio 1928, Delia, la madre di Edward Budd, apre la porta ad un anziano visitatore. L'uomo si presenta come Frank Howard, un coltivatore di Farmingdale, nel Long Island. E' venuto per fare un colloquio di lavoro ad Edward.
Mentre i due aspettano l'arrivo di Edward Budd, Delia ha l'opportunità di studiare l'uomo che si è presentato alla sua porta. La sua faccia dà un' idea di gentilezza, i capelli sono ordinati e grigi, così come i grandi baffi. Sembra proprio l'uomo ideale al quale affidare i propri figli.
Frank Howard nel frattempo le racconta la propria vita: è stato decoratore di interni per molti anni e, arrivato alla pensione, si è comprato una fattoria. Ha sei figli, tutti cresciuti da lui, poiché la moglie lo ha abbandonato 10 anni prima.
La fattoria procede a meraviglia, grazie all'aiuto dei suoi figli, di cinque braccianti e di un cuoco svedese. Purtroppo un paio dei braccianti sono ormai anziani e Frank ha bisogno di rincalzi. Per questo, dopo aver letto l'annuncio di Edward, si è presentato a casa Budd.
Proprio in quel momento entrano in casa Eddie e un suo amico, Willie. Frank Howard rivolge qualche domanda ai due, misura la loro forza e alla fine propone a entrambi 15$ a settimana. E' una paga grandiosa e i due giovani accettano senza pensarci sopra due volte.
Il 3 giugno 1928, alle 11 di mattina, Frank Howard si ripresenta a casa Budd, per prendere con sé i due nuovi operai. Ha portato in regalo fragole e una forma di formaggio cremoso appena fatto, così Delia per ricambiare il favore propone al gentile ospite di fermarsi a pranzo con loro.
Mentre Frank Howard e il padre di Edward parlano amichevolmente a tavola, si apre una porta e compare davanti ai loro occhi una bella bambina di 10 anni che canticchia una canzone infantile. Si chiama Gracie, ha i capelli e gli occhi castani molto scuri, contrapposti ad una pelle chiara e a delle labbra rosa pallido.
Frank Howard è colpito da questa bambina e non lo nasconde affatto. Le fa molti complimenti e le regala qualche soldo per comprare dolciumi, quindi la invita con lui alla festa di compleanno della sua nipotina. Delia Budd è abbastanza perplessa, ma l'anziano e gentile ospite riesce comunque a convincerla: la festa si tiene in un appartamento della 137esima strada, e l'uomo promette che Gracie sarà di nuovo a casa per le 21.
Da brava madre Delia aiuta Gracie a indossare il cappotto buono, la accompagna alla porta e la segue con lo sguardo mentre si allontana lungo la strada con il gentile Frank Howard. Non li vedrà mai più.
Quella sarà una notte insonne per la famiglia Budd: nessuna notizia di Howard, nessun segno della piccola Gracie. La mattina seguente Edward viene mandato alla stazione di polizia per denunciare la scomparsa.
Non ci mette molto la polizia ad accertare che tutto ciò che aveva raccontato l'uomo era falso: non esiste nessun appartamento, non esiste nessuna fattoria, non esiste nessun Frank Howard.
Il 7 giugno vengono diffusi in tutta New York ben 1000 volantini con la foto di Gracie e una descrizione sommaria dell'uomo che l'ha portata via.
Più di 20 detective vengono assegnati al caso, ma nessuna segnalazione utile arriva tra le loro mani, solo una serie infinita di falsi allarmi.
Gli unici indizi sono la grafia dell'uomo, indice di una istruzione abbastanza elevata, e l'indirizzo del negozio in cui è stato comprato il formaggio, un baracchino ad East Harlem.
La polizia di New York ricorda inoltre un caso simile, risalente a un anno prima.
È l'11 febbraio 1927, un bambino di quattro anni, Billy Gaffney, e un suo amico di tre anni, stanno giocando nel cortile davanti casa. Li controlla attentamente un ragazzino di dodici anni, ma è presto costretto ad assentarsi, richiamato dal pianto di sua sorella neonata.
Al suo ritorno il ragazzo non trova più i due bambini, perciò corre ad avvertire il padre di quello più piccolo.
Dopo una disperata ricerca, il bambino viene ritrovato sul tetto, ma non c'è traccia di Billy Gaffney.
"Dove si trova Billy Gaffney? "
"Lo ha preso l'uomo nero"
Ovviamente la dichiarazione del piccolo di tre anni viene ignorata, e gli investigatori cominciano a cercare Billy in lungo e in largo per i quartieri limitrofi. Viene dragato un fiumiciattolo e delle squadre di ricerca perquisiscono alcuni cantieri edili. Billy non si trova in nessuno di questi posti, perciò finalmente qualcuno si decide a chiedere la descrizione dell' "uomo nero".
Il piccolo testimone parla di un vecchio molto snello, con capelli e baffi grigi. La polizia ne prende atto, ma non pensa proprio a connettere questa descrizione a un avvenimento accaduto qualche anno prima.
È una mattina del 1924, di Luglio per la precisione. Francis McDonnell, otto anni, sta giocando sul portico di fronte a casa, vicino ai boschi di Charlton, a Staten Island. La madre gli è seduta vicino, allatta una neonata, quando nota un vecchio vagabondo, sporco e malridotto, che passeggia gesticolando e borbottando con se stesso.
Quel pomeriggio lo stesso uomo avvicina Francis mentre gioca a palla con quattro amici e lo porta via.
Nessuno nota la scomparsa del bambino fino a sera, quando Francis non si presenta a cena.
Suo padre, un poliziotto, organizza immediatamente una ricerca nei boschi limitrofi e in poche ore il ragazzino viene ritrovato.
Francis è sdraiato sotto dei rami, con i vestiti strappati, strangolato con le proprie bretelle e preso a bastonate. L'aggressione è stata talmente violenta che le autorità escludono sia stato il vecchio vagabondo avvistato da più persone. Forse il vecchio aveva un complice.
Nonostante gli sforzi massicci della polizia e della comunità, nessuno riesce a rintracciare questo misterioso "uomo grigio".
Rifacciamo un salto avanti nel tempo, è il novembre del 1934, il caso Budd è ancora aperto, ma nessuno si aspetta che venga mai risolto. Non la pensa così William F. King, l'unico investigatore a cui il caso è ancora assegnato. Il 2 novembre 1934, il detective prova una mossa estrema e fa pubblicare a un amico giornalista, Walter Winchell, un articoletto che recita: "Il mistero del rapimento di Gracie Budd, otto anni, risalente a sei anni fa, sta per essere risolto dagli investigatori."
Passano solo dieci giorni e Delia Budd riceve una lettera inquietante. Per sua fortuna, essendo analfabeta, la donna non riuscirà mai a leggere tale lettera. La legge invece Edward Budd, che corre immediatamente alla polizia.
La lettera recita così:
"Cara signora Budd,
Nel 1894 un mio amico navigò come marinaio sullo Streamer Tacoma, del Capt. John Davis. Navigarono da San Francisco a Hong Kong. All'arrivo il mio amico scese con altri due e andarono ad ubriacarsi. Al loro ritorno la barca era partita.
Era un periodo di carestia per la Cina. Qualsiasi tipo di carne costava da 1 a 3 dollari per libbra. La sofferenza era così grande che i più poveri misero in vendita i propri figli sotto i dodici anni per non morire di fame. I ragazzi di quattordici anni non erano per niente al sicuro da soli in mezzo alla strada.
Avrebbe potuto andare in un qualsiasi negozio e richiedere una fetta di carne. Le avrebbero mostrato il corpo di un ragazzo o una ragazza nudi e le avrebbero chiesto quale parte volesse. La parte posteriore dei ragazzi, che è la parte più dolce del corpo, veniva venduta a caro prezzo come le costolette.
John, avendo passato tanto tempo da quelle parti, ha imparato ad apprezzare la carne umana. Tornato a New York rapì due ragazzini di 7 e 11 anni, li spogliò e li chiuse in un armadio. Durante il giorno li torturava e li sculacciava a lungo in modo da renderne la carne più tenera.
Per primo uccise il ragazzo di 11 anni perché aveva il sedere più grasso e carnoso. Tutto di lui fu cucinato e mangiato, eccetto testa ossa e intestini. Il ragazzo più piccolo ha fatto una fine molto simile.
In quel periodo io ero un vicino di John. Mi parlò così spesso di come fosse buona la carne umana che decisi che dovevo assolutamente assaggiarla.
Domenica 3 giugno 1928, ero a pranzo da Lei. Gracie sedette nel mio grembo e mi schioccò un bacio. In quel momento capii che dovevo assolutamente mangiarla.
Utilizzai la scusa di doverla portare a una festa e Lei acconsentì. Invece io l'ho portata in una casa vuota a Westchester, scelta in precedenza.
La lasciai a raccogliere fiori ed entrai a strapparmi via tutti i vestiti. Non avevo nessuna intenzione di macchiarli con il sangue della bambina.
Quando tutto era pronto, andai alla finestra e la chiamai. Poi mi nascosi in un armadio. Quando lei mi vide del tutto nudo cominciò a piangere e provò a scappare di corsa sulle scale. Io l'afferrai e lei mi minacciò che avrebbe detto tutto alla sua mamma.
Per prima cosa l'ho denudata, mentre lei mi calciava, mi mordeva e mi graffiava. L'ho strangolata a morte e l'ho tagliata a piccoli pezzi in modo da portarla comodamente a casa mia. L'ho cucinata e mangiata. Come era dolce e morbido il suo sederino che ho arrostito al forno!! Mi ci sono voluti nove giorni per mangiarla interamente. Non si preoccupi, non l'ho violentata. È morta vergine come volevo che avvenisse."
Nessuno ci vuole credere, quella lettera è troppo folle, troppo spaventosa…eppure, purtroppo, le indicazioni fornite sono abbastanza complete e inoltre la scrittura è la stessa che compare sulle lettere che Frank Howard aveva mandato famiglia Budd sei anni prima.
Per fortuna il folle omicida ha compiuto un grave errore: la busta porta con sé un importante indizio, un piccolo emblema esagonale, con le lettere N.Y.P.C.B.A. Esse stanno per "New York Private Chauffeur's Benevolent Association". Gli investigatori decidono così di sottoporre tutti i membri di questa associazione a una prova della scrittura, ma nessuno pare essere il colpevole.
Quando le indagini stanno nuovamente per cadere nel vuoto, un giovane custode confessa di aver rubato di nascosto un paio di fogli e buste e di averli dimenticati in una vecchia casa, al 200 East della 52nd Street.
La padrona dell'edificio viene prontamente interrogata e non ha dubbi a riconoscere nella descrizione di Frank Howard un anziano signore che ha soggiornato lì negli ultimi due mesi. Si faceva chiamare Albert H. Fish ed ha lasciato l'appartamento da appena due giorni. L'uomo attendeva una lettera ma si era dovuto allontanare all'improvviso, quasi come spaventato da qualcosa. Ancora una volta il serial killer è sfuggito alla giustizia, ma è questione di tempo ormai, la cattura è davvero vicina.
Il 13 dicembre 1934 la donna chiama il Detective King perché ci sono novità importanti: Albert Fish è tornato nell'appartamento alla ricerca della famosa lettera che aspettava.
Quando la polizia fa irruzione nella casa trova Fish comodamente seduto a bere una tazza di tè. All'improvviso l'uomo estrae una lama di rasoio dalla propria tasca, sperando di domare con essa le forze dell'ordine. King, infuriato, lo afferra saldamente, gli torce la mano ed esclama trionfante: "Finalmente ti ho preso!"
EPILOGO
La confessione di Albert Fish, arrivata pochi giorni dopo, è un'odissea di perversione e depravazione indicibili. È incredibile che un anziano apparentemente debole e indifeso, sia stato capace di compiere simili oscenità.
Fish confessa che nell'estate del 1928 era stato assalito da una forte sete di sangue. Le sue intenzioni iniziali erano di adescare solo il giovane Edward, portarlo il un luogo segreto, tagliargli il pene e farlo morire dissanguato.
Aveva anche comprato una mannaia per l'occasione.
Dopo la prima visita in casa Budd, Fish aveva però capito che non c'erano speranze di sopraffare il forte Edward, tanto meno l'amico Willie, perciò aveva ripiegato sulla piccola Gracie, sin dal primo momento che l'aveva vista.
Tutto il resto corrisponde alla lettera che Fish aveva mandato a Delia. Per fortuna l'uomo aveva omesso di aver decapitato la ragazzina con un seghetto, di aver raccolto il suo sangue in un secchio e di aver buttato gli "scarti" al di là di un recinto.
Il giorno successivo la polizia e Fish si sono recati a recuperare i resti della povera Gracie, l'anziano non ha tradito nessuna emozione, così come non ha fatto una piega nel faccia a faccia con i genitori di Gracie, che ovviamente non hanno lesinato sugli insulti.
Nei giorni successivi sono proseguiti invece gli interrogatori, ma nessuna domanda è mai stata fatta a proposito del cannibalismo al quale si accennava nella lettera. Troppo folle per essere vero... e soprattutto una cosa del genere avrebbe facilitato fin troppo la difesa nel sostenere l'infermità mentale.
Mentre Albert Fish rimane in galera con l'accusa di rapimento e omicidio, un conducente di carretti si presenta alla stazione di Brooklyn e riconosce sia le foto dell'anziano omicida che le foto del piccolo Billy Gaffney, aggiungendo di averli visti insieme. Fish è così costretto a confessare anche questo omicidio. Dopo aver legato, imbavagliato e denudato il bambino lo ha lasciato in una discarica fino alle due del mattino. Nel frattempo si è recato a casa per prendere il suo amato gatto a nove code. Si tratta di un frustino artigianale, fatto da Fish stesso, molto pesante, dal manico corto, praticamente è composto solo da diverse strisce di cinture, tagliate e legate insieme.
Con questo oggetto Albert Fish ha sferzato il bambino sulle gambe fino a farlo sanguinare, quindi lo ha ucciso tagliandogli la faccia da orecchio a orecchio, passando il pugnale tra la bocca e il naso. Infine, non contento, gli ha infilato il coltello nell'addome, provocando una ferita profonda e bevendo il sangue che ne sgorgava fuori.
Naso, orecchie, addome e fondoschiena verranno mangiati Fish, stufati con cipolle e carote. Testa, braccia e gambe vengono invece messi in sacchi di patate, insieme a pesanti sassi, e buttati in un fiumiciattolo. Il pene a quanto pare è stato vomitato perché indigeribile.
Qualche giorno dopo questa confessione, una ragazza riconosce in Albert Fish l'uomo grigio che aveva avvicinato Francis MacDowell (del quale Fish ha mangiato le orecchie condite con bacon) e, grazie alla testimonianza di un altro uomo, il folle omicida viene allacciato anche alla scomparsa di una 15enne, Mary O'Connor, avvenuta nel 1932 a Far Rockway. Il corpo della ragazzina viene trovato poco lontano da una delle ultime case in cui Fish aveva lavorato come decoratore.
Con tutte queste accuse a suo carico, Albert Fish ha veramente poche possibilità di cavarsela e di scampare alla pena di morte: la sua unica via di scampo si chiama infermità mentale.
Viene così esaminato dal Dott. Fredric Wertham. Dal loro colloquio emerge una personalità psicopatica e paranoica, con una sessualità molto malata e tendenze sado-masochistiche. L'uomo è inoltre influenzato profondamente dalla religione e ossessionato dalla punizione fisica.
Con una freddezza unica Fish racconta allo psichiatra la propria vita, i propri omicidi, il proprio sado-masochismo. L'assassino racconta di aver ucciso almeno 100 bambini e di averne molestati almeno 400, preferiva gli afro-americani perché la loro scomparsa attirava meno l'attenzione dell'opinione pubblica e della polizia. Aggiunge anche di aver vissuto in 23 stati diversi e di aver ucciso o mutilato un bambino in ogni quartiere in cui ha abitato.
In un suo trattato sulle menti criminali, il Dottor Werthman scriverà che Fish raccontava le proprie azioni con la stessa freddezza e tranquillità che una massaia utilizzerebbe parlando di cucina. Solo gli occhi luccicanti e trepidanti tradivano la sua eccitazione.
Quando Fish comincia a parlare del suo sado-masochismo, e sopratutto della sua mania di conficcare ai bambini e a se stesso dei lunghi aghi nella zona pelvica e nello scroto, i dottori che lo stanno studiando cominciano a titubare che egli dica il vero. Una radiografia della zona pelvica dell'assassino li smentirà: ben 29 aghi compariranno in essa.
Werthman non è l'unico a dichiarare Fish malato di mente e alienato. Ciò nonostante nel 1935 comincia il processo a carico dell'assassino e si ha sin da subito l'impressione che Fish verrà condannato.
Il processo diventa ben presto una girandola di testimonianze e interrogatori. L'avvocato difensore cerca in tutti i modi di dimostrare che il suo cliente è malato di mente e per questo va rinchiuso in un manicomio, l'avvocato dell'accusa si arrampica sugli specchi in ogni modo per dimostrare che Fish è solamente un pervertito sessuale e un assassino, sano di mente e cosciente della differenza tra giusto e sbagliato. In sede di processo basta infatti dimostrare questa ultima cosa per dichiarare l'imputato capace di intendere e volere.
Fish assiste in maniera distaccata e fredda al proprio processo e alle deposizioni più o meno scioccanti. Apre bocca una sola volta, per chiedere al proprio avvocato di salvarlo, poiché "Dio ha ancora tanto lavoro per me".
Il verdetto arriva dopo solo 10 giorni di dibattito: Albert Hamilton Fish è ritenuto colpevole di 15 omicidi e sospettato di altri 100, perciò è condannato alla sedia elettrica.
Il giorno dopo i giornali scriveranno che Fish alla lettura della sentenza si è alzato in piedi, con gli occhi umidi e ha ringraziato il giudice.
Il 16 gennaio 1936 Albert Fish è stato giustiziato sulla sedia elettrica. Ha aiutato gli inservienti a legargli le fibbie intorno alle braccia e ha ammesso commosso che la scossa elettrica era l'unico piacere sado-maso che mancasse al suo "repertorio". Ci sono volute due scosse per ucciderlo: al primo tentativo, l'intero impianto è stato mandato in corto circuito dai 29 aghi metallici piantati nel pube dell'uomo.
"Ciò che io faccio è giusto, altrimenti Dio avrebbe mandato un angelo a fermare la mia mano, come fece a suo tempo con il profeta Abramo." (Albert Hamilton Fish)
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ANDREJ CHIKATILO
Andrej Chikatilo è sicuramente il serial killer più spietato che la Russia possa ricordare. Un mostro, un pedofilo senza alcuna pietà, un folle. Ci sono voluti diversi anni per arrivare al suo arresto e sul suo destino vige un alone di mistero. Andrej Chikatilo nasce il 15 ottobre 1936 da una famiglia di agricoltori, in un piccolissimo villaggio dell'attuale Ucraina.
Suo padre non c'è più, è sparito misteriosamente durante una delle note "purghe staliniane", mentre sua madre è una pazza. Ella è solita raccontare ai suoi due figli (Andrej e sua sorella) che loro avevano fratello ma che questi, durante il freddo inverno 1930, era stato mangiato vivo dai contadini affamati.
Ciò minerà non poco la stabilità mentale del piccolo Chikatilo.
Come se non bastasse Andrej diventa presto miope e durante l'adolescenza soffre di una malattia che lo renderà impotente per molti anni.
Nonostante nel 1960 diverrà marito e padre, Andrej rimarrà comunque convinto di essere stato castrato e accecato nella culla, dai contadini del suo villaggio.
Cresciuto, Andrej si iscrive al partito comunista, fa il servizio militare e si laurea in lettere come un normalissimo ragazzo russo e, nel 1972, comincia a insegnare in un istituto tecnico a Rostov.
Nonostante l'infanzia difficile Andrej è diventato un insegnante, si è sposato e adesso vive in una bella casa proprio vicino alla scuola.
Le cose però si mettono male anche nell'istituto: i ragazzi cominciano a chiamarlo "oca" e "finocchio", alcuni di essi lo aggrediscono di notte.
22 ottobre 1978. Andrej uccide per la prima volta. E' anomalo per un serial killer cominciare così tardi (42 anni) la propria "attività", solitamente cominciano intorno ai 20 anni. La vittima è una bambina di 9 anni, Lenochka Zakotnova, incontrata alla fermata dell'autobus. L'assassino la porta in una casetta abbandonata nella campagna circostante, e qui prova a violentarla. Non riuscendoci, preso dalla rabbia, la uccide con tre forti coltellate e getta il corpicino nel fiume che scorre vicino a Shakhty.
La bambina viene trovata alla vigilia di Natale ma nessuno sospetta minimamente di Chikatilo, padre di famiglia, insegnante, un uomo che non fuma e non beve.
Viene invece accusato un violentatore della zona, tale Alexander Kravchenko, su pressione della famiglia della piccola l'uomo viene condannato immediatamente e fucilato.
1982. Andrej viene accusato ripetutamente di molestie nei confronti dei suoi alunni e viene licenziato dall'istituto tecnico. Grazie alla tessera del partito comunista, riesce però a trovare posto come operaio in una piccola fabbrica vicino a Shakhty. Un lavoro perfetto per il Mostro di Rostov: per recarsi al lavoro Chikatilo deve viaggiare molto in treno, e in questo modo conoscerà la maggior parte delle sue vittime.
La seconda è Larisa Tkachenko, una ragazzina che stava marinando il Liceo. L'uomo, non si sa come, riesce a convincerla a fare l'amore con lui ma, giunti al momento cruciale, la ragazza scoppia a ridere di fronte all'impotenza del suo partner occasionale. La rabbia di Chikatilo è violentissima: la ragazza viene strangolata, morsa a sangue sulle braccia e sui seni (Andrej ne ingoia anche un capezzolo). Per finire il Mostro le conficca un palo nella vagina.
12 giugno 1982. Lyuba Biryuk ha 12 anni e gioca spensierata quando Chikatilo l'adesca. Portatala nel bosco la accoltella quaranta volte, cavandole anche gli occhi. Questo in futuro sarà uno dei biglietti da visita del Mostro di Rostov.
A questo punto Andrej si ferma fino al 1983.
Tra il 1983 e l'estate del 1984 la follia del Mostro cresce esponenzialmente. Le sue vittime salgono a trenta, quindici delle quali cadono tra il gennaio e il settembre 1984.
In alcuni casi viene riscontrato che i malcapitati erano ancora in vita mentre il loro sangue veniva bevuto.
Tra le vittime anche un bambino di 9 anni, Oleg Podzhidaev. Al contrario degli altri, il suo cadavere non è mai stato ritrovato ma, in sede di processo, Chikatilo ha dichiarato di aver castrato il piccolo Oleg e di averne gettato il corpo da qualche parte nei boschi.
Siamo nell'apice degli omicidi del Mostro quando, il 22 febbraio 1984, Andrej Chikatilo viene arrestato con l'accusa di aver rubato della tela cerata.
La polizia lo tiene in carcere ben tre mesi, vogliono accertarsi che non sia lui il Mostro.
Sono le analisi del sangue a salvare Andrej: per un incredibile caso fortuito, il suo gruppo sanguigno non corrisponde con lo sperma trovato sui cadaveri.
Passano pochi mesi e il Mostro viene arrestato nuovamente: un Giudice, che ha preso in simpatia l'uomo, lo fa però scarcerare immediatamente con mille scuse.
Nei dintorni di Rostov ricominciano così a sparire bambini, bambine e donne per lunghi mesi, mentre i loro cadaveri vengono ritrovati ovunque: nei fiumiciattoli, dentro delle baracche abbandonate nei boschi, lungo la ferrovia ecc. ecc.
Nel frattempo da ogni parte del paese arrivano dei ritardati mentali che si consegnano alle forze dell'ordine, confessando di essere i responsabili degli omicidi.
Per vagliare ogni singolo caso la polizia perderà le tracce del mostro per diversi mesi.
Solo nel 1990, a 12 anni di distanza dal primo omicidio, anche questo incubo giunge finalmente a termine.
22 novembre. Chikatilo viene arrestato per la terza volta e, cosa comune a tutti gli assassini seriali, questa volta si abbandona a una confessione-fiume liberatoria.
Con l'aiuto di alcuni manichini vengono ricostruiti nei minimi dettagli tutti gli orrendi omicidi.
La voce cavernosa e monotona dell'uomo non sorvola su di niente: vengono descritte le tattiche di adescamento, gli omicidi, Chikatilo parla con incredibile calma di bambini accoltellati, di occhi perforati, di dita mozzate a morsi, di cuori strappati e di capezzoli ingoiati.
Aggiunge alla lista della polizia ben 19 omicidi che nessuno aveva pensato di attribuirgli.
EPIGOLO
Il processo al Mostro di Rostov comincia nel 1992.
Chikatilo inizialmente nega tutto, ma le confessioni dell'autunno 1990 erano state registrate su nastro e lo incastrano.
L'assassino partecipa al processo in una sorta di follia mistica. Mentre i Giudici e gli Avvocati discutono, il Mostro di Rostov fissa il pubblico presente in tribunale con degli occhi vuoti e bianchi, con un sorriso da bambino sempre stampato sulla sua bocca. Andrej sembra meravigliato e felice, probabilmente sentirsi al centro dell'attenzione gli fa molto bene, finalmente si sente liberato da tutte le sue frustrazioni.
Nell'agosto del 1992 il verdetto: Andrej Chikatilo viene giudicato capace di intendere e di volere e quindi condannato alla pena capitale. Al momento della sentenza Chikatilo si alza in piedi canta a squarciagola l'Internazionale Russa.
Secondo i dati ufficiali, l'esercito russo ha giustiziato Andrej Chikatilo il 16 febbraio 1994, con un colpo di pistola alla nuca, nel cortile del carcere di Mosca.
Molte cliniche psichiatriche di fama mondiale avevano prenotato il suo cervello, ma nessuna di esse l'ha mai ricevuto..il Mostro di Rostov è stato giustiziato veramente?Sulla storia di Chikatilo David Grieco ha realizzato un film, "Evilenko" (Italia, 2004), con Malcolm McDowell nella parte del terribile assassino.
"E' un uomo molto alto, dritto come una colonna, con occhi azzurri molto chiari. Non piaceva ai bambini. Abbiamo saputo che è stato mandato via, c'erano stati dei problemi perché molestava le bambine" (Testimonianza dei vicini di casa di Chikatilo quando questi insegnava) e sul suo destino vige un alone di mistero.
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