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Angelo M. Cucci e il rapimento di D. Luigi Taranto di Francavilla (1852)

Post n°1 pubblicato il 22 Marzo 2012 da KARROS1957
Foto di KARROS1957

Angelo M. Cucci e il rapimento di D. Luigi Taranto di Francavilla (1852)

(di Francesco Marchianò)

La mattina del 30 novembre 1852, il giovane diciassettenne D. Luigi Taranto, figlio del possidente D. Vincenzo di Francavilla, assieme al dipendente Pasquale Gaudiano si reca in carrozza per controllare la mandria di bovini della propria famiglia che pascolano in contrada Bruscate (Cassano allo Ionio).

Verso le quattro del mattino, in località Ciccotonni nei pressi del fiume Raganello, tre individui armati di fucili, stiletti e pistola, costringono i due a scendere dalle cavalcature e mettersi a faccia a terra. I malfattori li bendano e li conducono in una vicina macchia dove li tengono nascosti per tutta la giornata e dove lasciano molte tracce, fra queste delle bucce di arancia. La sera i delinquenti rilasciano il salariato intimandogli di riferire al padre del rapito di preparare 8000 ducati per il riscatto.

I briganti, che nel frattempo erano diventati cinque, si portano appresso il giovane tenendolo nascosto per qualche tempo in un fossato nei pressi di Torre Scribla1. Poi la comitiva, sempre di notte, vaga nelle campagne di Fedula2 e nei pressi della Matina3, infine, attraversato l’Esaro, nasconde il rapito in una casupola, di proprietà di Carmine Scorza, sita in contrada Serralta4 di Spezzano Albanese.

Qui i sequestratori, a turno ed armati, sorvegliano a vista il giovane Taranto e lo minacciano di gravi mutilazioni e di morte se non arrivano i soldi del riscatto. Ma il capo della comitiva lo rincuora dicendogli che lo avevano rapito perché erano andati precedentemente a vuoto altri due

sequestri: uno contro il “dovizioso D. Gaetano Rovitti” di Cerchiara ma residente a Francavilla, la cui casa avevano assaltato invano notti prima, e un altro contro il possidente D. Ambrosio Rizzi dello stesso luogo.

Intanto il padre del rapito, informato del misfatto, avvisa le autorità e raccoglie subito 600 ducati per pagare il riscatto e sguinzaglia i suoi fidi guardiani nei paesi circostanti per stabilire un contatto con i sequestratori. Il previdente e scaltro D. Vincenzo Taranto, però, segna il denaro, consistente in piastre e mezze piastre d’argento, incidendo un puntino dentro la “O” della parola “Providentia”, scritta in rilievo sulle monete borboniche dell’epoca, e negli zero delle monete da 120 e 60 grana.

Il denaro del riscatto, riposto nell’impagliatura del basto di una mula, viene consegnato a due fidi guardiani del Taranto, Gaudiano e Risoli, che per più giorni, pregati dal padre del rapito, battono invano varie contrade. Ma la notte tra il 5 e 6 dicembre trovandosi nel tratto della Consolare che unisce Spezzano Albanese e Tarsia, in località Fontanelle5, essi vengono avvicinati da quattro individui armati che chiedono il perché della loro presenza in quel luogo.

I due si qualificano come guardiani ed espongono i fatti al che i malfattori, a loro volta, si dichiararono come i rapitori intascando i 600 ducati e rilasciando il giovane Luigi Taranto dopo qualche ora6.

Il giorno dopo, questi, interrogato dal solerte e sagace Giudice Regio di Cassano, D. Antonio Pittari, afferma di ricordare i luoghi e di aver ben osservato i rapitori ed i loro atteggiamenti. Il Taranto non li ritiene abitualmente dediti alle scorrerie, poiché i suoi sequestratori si muovono solo di notte, ed aggiunge che il loro avvicendarsi nei turni per recarsi in paese o in campagna serva loro a crearsi un alibi (“coartata”). Inoltre, nella deposizione il giovane aggiunge che uno di essi, il sottocapo, conosce il Pittari come una persona rigida e lo chiama col sopranome di “capo bianco”.

Dall’abbigliamento indossato7 e dal dialetto parlato dai briganti, alcuni gli sembrarono Albanesi ed altri come provenienti dai Casali di Cosenza. Uno di questi, che si atteggiava a capo ed armato di fucile a due canne, era avanti con gli anni, alquanto gobbo e col pollice della mano destra biforcuto. Di un altro, invece, individuato come Albanese, che si atteggiava a sottocapo, si ricordava la nuca, l’occipite ed i capelli poiché stava sempre di spalle ed avvolto in un mantello. Il Taranto lo aveva fissato bene e lo avrebbe riconosciuto fra tanti. Infine, di un altro ancora si ricordava le pessime condizioni delle scarpe.

Il giudice Pittari avvia subito le ricerche partendo con sopraluoghi nei conci di liquirizia8 dove lavoravano come stagionali molti Casalesi ai quali sottopone le descrizioni dei malviventi. In seguito alle notizie attinte ed agli indizi in possesso, il magistrato concentra subito le ricerche su Spezzano Albanese dove vivono ed operano molti pregiudicati locali e forestieri. Il Pittari, però, nutre il sospetto che i banditi siano stati informati da qualcuno del territorio di Francavilla e quindi estende le indagini anche in quella zona.

Il giudice regio supplente di Spezzano Albanese, Nicola Guaglianone9, spicca subito i mandati di comparizione contro alcuni sospetti, fra questi i delinquenti Matteo Sapia10 di Pedace, Francesco Zappa11 di Falconara, Angelo Maria Cucci12 di Spezzano Albanese che vantava un lungo elenco di precedenti per ripetute violenze, furti ed omicidio premeditato.

Il Sapia, i cui evidenti difetti fisici corrispondevano esattamente alla descrizione fatta dal rapito e lavorava come coltellaio presso un proprio compaesano, Antonio Celestino13, si rese subito latitante venendo poi arrestato in Basilicata nel luglio 185314 dove aveva messo a segno altri rapimenti. La pubblica voce lo dava come gregario della comitiva del brigante Arnone. Era lui il capo comitiva descritto dal Taranto e certamente anche la mente dei sequestri. Si ignora quale fu l’esito del suo processo avvenuto forse a Potenza.

Francesco Zappa, colono mezzadro e “chiusiere” nei fondi della famiglia Mortati in contrada Varco delle Femmine, viene arrestato di notte da gendarmi, squadriglieri ed altri armati15 mentre sorvegliava l’aranceto dei suoi padroni e trovato in possesso illegale di una pistola.

Invece, nulla di compromettente viene rinvenuto nell’abitazione di Angelo Maria Cucci, di professione bovaro, il quale afferma che nel periodo del rapimento era intento a seminare il proprio campo in contrada Saetta.

I due inquisiti si dichiarano estranei al rapimento e a prova di ciò affermano di poter produrre delle testimonianze a proprio favore (vicini di casa, confinanti di terreno, braccianti, contadini, locandieri e cantinieri).

Ma tutti i testi citati, pur dichiarando di non averli mai visto insieme o con gli altri sospetti, non producono alcun indizio concreto a loro discarico, anzi ne aggravano la posizione descrivendoli come persone poco raccomandabili ed autori di vari reati mentre sullo Zappa grava il sospetto

come spia della banda che sequestrò Francesco Bellizzi16 circa quattro anni prima.

Intanto, il 30 dicembre, i due indiziati ed altri sospetti arrestati, provenienti dai vicini paesi calabresi ed albanesi, vengono inviati a Cassano per un confronto in relazione al sequestro, fra questi gli spezzanesi Achille Cucci, fratello dell’accusato, Giuseppe Scorza, Giuseppe Pesce, Andrea Fronzino, Angelo Maria Barbati17, Antonio Celestino di Pedace e Pasquale Mancuso di Casole sul quale grava anche l’accusa di essere in possesso di un fucile a canna liscia di tipo militare visto in mano ad uno dei rapitori.

La comitiva di arrestati viene condotta nel carcere centrale di Cassano dove il giudice Pittari effettua il confronto con il rapito che riconosce senza alcun indugio Francesco Zappa ed Angelo Maria Cucci, individuato come sottocapo, che vengono tratti subito in arresto.

Rinchiusi nel carcere di Cassano, la notte del 20 febbraio 1853, Cucci e Zappa però meditano la fuga corrompendo un loro compagno di cella, il salernitano Michele La Rocca, offrendogli delle piastre che poi risultano essere quelle del pagamento del sequestro mentre con lima e scalpello, forniti dai parenti durante una visita, provvedono già a scassare una sbarra. Il La Rocca, che aveva problemi di salute e tra l’altro forse non aveva alcuna intenzione di aggravare la propria posizione, denuncia la fuga.

I due malfattori vengono rinchiusi in una cella più sicura mentre le indagini proseguono a tutto campo culminando con l’arresto di Pasquale Mancuso18, possessore di un fucile a canna liscia di tipo militare usato da uno dei sequestratori, che si difende dicendo di aver scambiato tempo prima la propria carabina con l’arma di Giuseppe Scorza. Questi, che aveva avuto il fucile dai rivoltosi siciliani del 184819, conferma lo scambio indicandone la data precisa (22-23 novembre) e fornendo testimoni attendibili. Sul Mancuso, comunque, non è stato reperito alcun estremo di sentenza poiché non riconosciuto dal Taranto ed altri testimoni in un confronto avvenuto nel carcere di Cosenza e per questo rilasciato per mancanza di indizi (27 agosto 1853).

Chiuse le indagini, la legge compie il proprio corso. In un’ istruttoria del marzo 1855 per il Cucci, considerati i suoi numerosi e gravi precedenti nonché la recidiva, si prefigurava la pena dell’ergastolo. Ma il 3 maggio 1856 il Pubblico Ministero della Gran Corte Speciale di Calabria Citra in Cosenza, dopo aver riascoltato tutti i testimoni, chiede per :

1. Francesco Zappa, 19 anni di ferri e ammende varie;

2. Angelo Maria Cucci, 25 anni di ferri e ammende varie.

Gli avvocati difensori, Raffaele Conflenti e Vincenzo Sartorio Clausi del Foro di Cosenza, dopo un lungo dibattimento riescono ad affievolire la pena che viene così comminata:

1. Angelo Maria Cucci a 19 anni di ferri, al pagamento di ducati 100 per tre anni, 1 anno di prigione per tentata fuga e pagamento delle spese processuali ducati 111.73;

2. Francesco Zappa a 13 anni di ferri, al pagamento di ducati 100 per tre anni, 1 anno di prigionia per tentata fuga e pagamento delle spese processuali ducati 111.73.

Ma le vicende del Cucci non sono terminate. Se dello Zappa ignoriamo la sorte, del Cucci sappiamo che finì nel Bagno Penale del Carmine in Napoli dove ebbe come compagno di cella un tal Antonio Covello di Lappano, lì rinchiuso per furto ed omicidio.

Forse perché in compagnia di un proprio corregionale, il Cucci si sfoga affermando che gli altri complici del sequestro Taranto sono fuori mentre lui sconta la pena e così dicendo fa i loro nomi: Matteo Sapia di Pedace, Pasquale Mancuso di Casole, Carmine e Giuseppe Scorza20, rispettivamente padre e figlio di Spezzano Albanese, nonché Pietro Antonio Rizzo21 di Francavilla che ha fatto da informatore dei briganti.

Il Covello, approfittando del fatto che il Cucci venne trasferito nel Bagno penale della fregata Urania nella Darsena di Napoli, ai principi di luglio del 1857 fa piena confessione delle confidenze del compagno di cella forse sperando in una riduzione di pena.

Il Cucci, subito convocato ed interrogato, conferma la correità dello Zappa ma nega decisamente le dichiarazioni del Covello scagionando così tutti i suoi complici verso i quali non vengono avviati procedimenti penali.

Il caso relativo al rapimento Taranto viene così definitivamente archiviato mentre pochi anni dopo Angelo Maria Cucci, forse evaso dal carcere o godendo di amnistie concesse da Francesco II o approfittando della confusione creatasi al momento dell’ingresso di Garibaldi in Napoli, dopo il 1860 farà ancora tristemente parlare di se come capo-brigante o gregario nel Pollino calabro-lucano22  (seguono le note)

 
 
 
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Data di creazione: 22/03/2012
 

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