lo stendardo

La Chiesa di Santo Stefano


Sul limitare di viale Regina Margherita si trova via S. Stefano in ricordo di una piccola chiesa che ivi esisteva. Essa è di notevole importanza per stabilire con certezza assoluta le origini dell’arcisodalizio. Per questo ci affidiamo allo studioso veliterno Augusto Tersenghi attingendo notizie dal suo “Velletri e le sue contrade” edito nel 1910. L’illustre bibliotecario comunale ci dice che la chiesa esisteva fino al 1613, dedicata prima al primo martire romano e poi a S. Rocco (arch. not. Vo l.572, pag.1102). Bonaventura Teoli nel “Teatro historico di Velletri” dice che nel 1429 aveva rettore e chierici, ma nel 1505 essendovi stata fabbricata in occasione della peste una cappella in onore di S. Rocco prese questo nome. Proprio da questa cappella alcuni autori cittadini fanno risalire le origini non documentate dell’arciconfraternita della Carità, Orazione e Morte. Alcuni uomini in occasione del citato contagio presero a riunirsi nella detta cappella con lo scopo di esercitare opere di misericordia. Nel 1550 S. Stefano venne concessa all’ordine dei Frati Minori Cappuccini che faceva il suo ingresso a Velletri. Per quei pii uomini iniziarono tempi di sventura, i frati osteggiarono non poco la loro attività  tanto da rendere impossibile la convivenza nella stessa chiesa.Non potendo più andare avanti chiesero a don Marco Ciampone rettore della chiesa di S. Martino di accoglierli nella sua chiesa, questi non ebbe nulla in contrario e così nel 1569 avvenne il trasferimento. I cappuccini restarono a S. Stefano fino al 1613 quando demolirono la chiesa per ricostruire con lo stesso materiale il convento dove oggi risiedono. Don Ciampone volle dare a quell’unione spontanea di fedeli una sorta di ufficialità e così il 25 febbraio dello stesso anno si riunì in capitolo con i beneficiati Lucio Panoti, Evangelista De Antonellis, Fabio Panoti, Emanuele De Musis, Francesco Quarto per istituire la Società della Carità. Fu il notaro Ottaviano Della Porta cancelliere vescovile a rogare l’atto di fondazione. La società venne costituita per gli esercizi di misericordia e per aiuto alla parrocchia. Nello stesso documento (secondo quanto riporta P. Italo Laracca nell’interessante monografia pubblicata nel 1967 sulla chiesa di S. Martino) venne concessa alla società e per essa a Domenico camerlengo e Ponziano Passeri mansionario una cappella sotto l’organo con l’immagine della Beata Vergine Maria, S. Martino e S. Antonio da Padova. La concessione della cappella prevedeva anche una certa autonomia nelle celebrazioni. Infatti le carte d’archivio dicono che la compagnia poteva liberamente “in praesenti et in futuro” celebrare e nei giorni festivi dopo l’Ave Maria e poteva “suonare 30 tocchi e adunare li fratelli per recitare i setti salmi penitenziali con le litanie  e preci per i fratelli defunti”. Il 18 agosto dello stesso anno 1569 don Suplizio Serafi donò in perpetuo alla confraternita un sepolcro di marmo munito di armi e segni. Durante il giubileo del 1600, secondo quello che ci riferisce Alessandro Borgia nella sua “Istoria della chiesa e città  di Velletri” (Nocera 1733), diedero asilo a ben 19.000 romei diretti a Roma per far visita alle tombe dei Santi Pietro e Paolo. Non era poco per quei tempi. Fu Clemente VIII a maggio del 1599 a proclamare i giubileo che venne aperto il 31 dicembre e non a Natale per una indisposizione del pontefice. Clemente VIII fu generosissimo fece preparare in Vaticano una mensa per nove pellegrini uno per ogni anno del suo pontificato e ogni giorno volle al suo tavolo dodici poveri. Incontrò i partecipanti alla processione della Madonna del Rosario, circa cinquantamila pellegrini. Questo giubileo è ricordato per la grande folla che arrivò a Roma tra la quale nobili e cardinali che facevano le loro pratiche vestiti di sacco. Il 1 dicembre 1616 don Giovanni Battista De Rubeis di Cori rinunciò, dopo quindici anni, alla parrocchia in favore dei chierici regolari di Somasca che ne presero canonico possesso l’8 marzo 1617. Nel 1621 i padri fecero rifondere le campane con l’aiuto del comune e della confraternita che si riservò di suonare i trenta tocchi per adunare i confratelli quando era necessario andare a prendere i morti o quando dovevano riunirsi per partecipare alle sacre processioni. I confratelli, dovendo i religiosi insegnare, gli cedettero le loro proprietà attigue alla chiesa di S. Martino per metterli in condizioni di farlo in locali sani e ben illuminati.