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Lieve entità: non è esclusa anche se il pusher ha 200 dosi di ''fumo''

Avv. Simone Fazzari 

Simone Fazzari e Barry Smith Law Offices 

Simone Fazzari e Barry Smith Law Group

 

La Sesta Sezione della Suprema Corte di Cassazione affronta, con la recentissima sentenza 9723/13, pubblicata lo scorso 28 febbraio, sia il tema dei limiti di applicabilità ad ipotesi detentive della scriminante dell'uso esclusivamente personale, che quello della configurabilità concreta di fattispecie che giustifichino il riconoscimento della circostanza attenuante  - ad effetto speciale – della lieve entità prevista dal comma 5 dell'art. 73 DPR 309/90.

1) la detenzione ad uso esclusivamente personale : canoni ermeneutici e critiche alla posizione della Corte di Cassazione

Il giudice di legittimità manifesta di condividere ed apprezzare l'intervento della Corte territoriale posto che essa corregge, in appello, l'impostazione, a propria volta, esplicitata dal GUP.

In primo grado, il giudicante pare avere, infatti,  sostenuto la tesi, che declina il principio per cui, attraverso la previsione della locuzione “uso esclusivamente personale”, il  legislatore avrebbe introdotto, allo scopo di dirimere ogni dubbio e creare una regola certa di giudizio – in relazione alla complessa questione della detenzione di stupefacente - una presunzione semplice di carattere negativo.

Stando a tale indirizzo, quindi, ogni qualvolta non fosse stata dimostrata, esclusivamente da parte dell'indagato/imputato, la destinazione finale personale dello stupefacente detenuto, la condotta deve venire classificata come sicuramente illecita, (e, dunque, penalmente rilevante).

A tale conclusione si perverrebbe, in virtù di una valutazione complessiva della condotta, che, peraltro, sia assolutamente svincolata dall'esistenza di prove a sostegno della asserita illiceità.

L'adesione a questa tendenza interpretativa ha sempre – naturalmente – postulato e comportato, in grave deroga ai principi generali del diritto, l'inversione dell'onere della prova, (gravame che, invece, compete alla parte che intenda invocare l'esistenza di un fatto o di un comportamento a sé favorevole o sfavorevole ad altri).

Si verrebbe, così, in modo del tutto inammissibile, ad attribuire alla difesa, l’obbligo di dimostrare la propria innocenza e manlevando, contemporaneamente,  in maniera giuridicamente indebita, l'accusa dal genetico dovere di provare la colpevolezza dell'indagato/imputato.

La sentenza in commento riafferma, invece, quella condivisibile ed auspicabile visione, che assegna all’accusa lo specifico compito di selezionare, raccogliere ed indicare in modo logico (e plausibile) i cd. “elementi di contraddizione” che si reputano frapporsi all’evocata scriminante soggettiva.

Siffatto onere appare, altresì, necessariamente patrimonio anche del giudicante – per quanto di propria competenza –.

La scelta delibativa di ricondurre una condotta detentiva nell’alveo penale piuttosto che in quella della sola rilevanza amministrativa (o viceversa) va , infatti, coniugata, ad avviso della Suprema Corte, attraverso un ampio scrutinio di “tutte le circostanze oggettive e soggettive del fatto-reato”.

Va, però, rilevato che la sentenza in commento suscita un moto di perplessità, laddove essa conferisce al dato ponderale – in relazione al caso concreto (circa 88 grammi lordi) -  un valore sintomatico di assoluta eccedenza rispetto all’intrinseca necessità del singolo detentore, tale, quindi, da escludere l’operatività della causa giustificativa dell’uso personale.

Sull’altare della suggestione fornita dal peso (criterio, che l’esperienza forense ci mostra, invece, come suscettibile di interpretazioni estremamente variabili, se non ondivaghe), vengono, pertanto, così immolati, indicatori, ai quali, invece, in altre occasioni, sono state attribuite autorevoli valenze sul piano probatorio.

Ma il dubbio non è circoscritto solo a questa sfaccettatura.

V’è, inoltre, da rilevare che non pare persuasiva e condivisibile la scelta della Corte di affidarsi alla dose media giornaliera, evocata quale parametro, per determinare (o meno) la compatibilità del compendio stupefacente ad un uso esclusivamente personale.

Va, infatti, osservato che in forza di questa opzione, il giudice di legittimità disapplica inspiegabilmente il canone costituito dalla QUANTITA’ MASSIMA DETENIBILE.

Per chiarire i termini della critica, che si va svolgendo, è necessario un breve riepilogo storico.

In funzione della riforma del dpr 309/90, fu insediata dal Ministro della salute dell’epoca (Storace) l’11 febbraio 2006 una commissione scientifica di studio con il compito, tra l'altro, di «definire per ciascuna delle sostanze stupefacenti o psicotrope descritte nella Tabella I "allegata alla legge" i limiti quantitativi massimi di principio attivo riferibili ad un consumo esclusivamente personale».

Va precisato, che pare che, ad espresso giudizio della commissione istituita dal ministro Storace, “…..soltanto uno dei dati elaborati - cioè quello relativo alla dose media singola, intesa come quantità di principio attivo per singola assunzione idonea a produrre in un soggetto tollerante e dipendente un effetto stupefacente e psicotropo - fosse «espressione» di evidenza scientifica”.

Accolto tale presupposto, venne, quindi, adottato dal Governo (in carica all’epoca) il decreto 11 aprile 2006, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 95 del 24 aprile 2006.

Si legge testualmente nelle premesse di tale provvedimento che la commissione «ha osservato che i valori della dose singola efficace sono espressione di evidenza scientifica, mentre permangono margini di incertezza nei valori relativi alla frequenza di assunzione nell'arco della giornata che, a giudizio della stessa commissione, richiedono ulteriori approfondimenti», venendo confermato, così, il giudizio della commissione Storace.

In buona sostanza, balza all’evidenza che gli esperti incaricati non avevano raggiunto alcuna forma di accordo su quello che avrebbe potuto costituire il termine di paragone per definire il concetto  di uso personale.

Se, infatti, utilizzando la dose media giornaliera, si poteva identificare un’unità (quantum) di principio attivo effettivamente drogante, (onde poter accertare, quindi, quando una cessione di sostanza potesse assumere contorni penalmente rilevanti), rimaneva desolatamente irrisolta la questione di quale quantitativo di principio attivo stupefacente potesse, invece, apparire funzionale all’uso personale (ed anche l’arco di tempo nel quale si ipotizzasse l’effettiva possibilità di esaurire il consumo di tale sostanza).

Poiché, però, un simile approfondimento, per la sua complessità, avrebbe comportato, senza ombra di dubbio, un ritardo tutt’altro che lieve, della pubblicazione del nuovo testo legislativo, il Governo intese seguire una via assolutamente e discutibilmente compromissoria per potere inquadrare il concetto di uso esclusivamente personale.

Essa si tradusse nella adozione della formula «allo stato, ai fini dell'attuazione del disposto dell'art. 73, comma 1-bis, del Testo unico citato, appare opportuno utilizzare i valori relativi alla dose media singola efficace, incrementati in base ad un moltiplicatore variabile in relazione alle caratteristiche di ciascuna sostanza, con particolare riferimento al potere di indurre alterazioni comportamentali e scadimento delle capacità psicomotorie».

Si è, così, giunti a fortiori all’introduzione di quella che è stata definita QUANTITA’ MASSIMA DETENIBILE e che trova la sua esclusiva ragione funzionale nella finalità di disciplinare, proprio le condotte – concernenti gli stupefacenti - che sia vincolate escatologicamente ad un uso personale.

Deriva, pertanto, dal complesso delle considerazioni storiche, logiche e giuridiche, che precedono, che l’eventuale adozione giurisprudenziale del canone della dose media giornaliera, in relazione alla condotta detentiva (e, comunque, relativamente all’insieme delle condotte che appaiono strumentali all’uso personale), appare del tutto improprio e, comunque, non corretto, perché non pertinente.

La dose media giornaliera costituisce, infatti, criterio da utilizzare solamente in relazione a comportamenti di cessione a terzi di quantitativi di stupefacenti, onde inferire la reale gravità della condotta  posta concretamente in essere.

Come, pertanto, appare dal complesso delle considerazioni sin qui svolte, nel caso di specie – come, però, anche in altre situazioni recentemente affrontate dal S.C.  - la suddivisione inD.M.G. del quantitativo di stupefacente detenuto dall’imputato, costituisce metodica e procedura per nulla corretta, in quanto offre un risultato aritmetico (le dosi) incompatibile – sia sul piano logico, che su quello strettamente quantitativo - con la condotta oggetto di incriminazione .

2) L'applicazione dell’attenuante ad effetto speciale dell'art. 73 comma 5.

La Corte, intervenendo, poi, sul tema del comma 5° dell'art 73 DPR 309/90, afferma come l’applicazione di tale circostanza venga governata da canoni assolutamente autonomi rispetto a quelli che vanno adottati per  ravvisare (o meno) la destinazione ad uso personale.

E’ di tutta evidenza che già la definizione “lieve entità” contenga in re ipsa uno dei canoni che si impongono sul piano logico-giuridico per la soluzione del problema e cioè la “minima offensività penale della condotta”.

La circostanza attenuante in questione si sostanzia, come noto, di un insieme di parametri, che vanno esaminati l’uno indipendentemente dagli altri (peso dello stupefacente, modalità o circostanze dell’azione e mezzi utilizzati).

Per costante giurisprudenza, il vaglio in senso negativo anche di uno solo dei parametri di riferimento individuati dalla legge deve condurre ad escludere l'ipotesi del fatto di lieve entità (Cfr. App. Lecce, 5 settembre 2012) .

Appare, dunque, del tutto condivisibile il principio manifestato dalla sentenza, laddove impone che il giudice, in presenza di elementi fattuali di carattere equivoco – in relazione al genetico principio di minima offensività – operi una ricognizione globale di tutti i canoni contenuti nel citato comma 5°.

Il collegio di legittimità, inoltre, riafferma, in modo del tutto inequivoco e tassativo, come il criterio prevalente e centrale, ai fini dell’applicabilità dell’attenuante ad effetto speciale in oggetto, sia rinvenibile nel peso della sostanza.

Ove la stessa non appaia “considerevole” (aggettivo testualmente usato in sentenza), vale a dire quando il dato ponderale, di per sé solo, non risulti idoneo ad escludere la possibilità, per l’imputato, di invocare l’operatività del temperamento sanzionatorio fornito dalla circostanza dellelieve entità, solo la presenza di altri indici (tra quelli stabiliti ex lege) che risultino incompatibili con un giudizio finale e complessivo di minima offensività, può costituire utile e efficace riferimento motivo.

Il recupero dei criteri sussidiari, solo in assenza di una decisiva capacità dell’aspetto ponderale di porsi – in uno specifico caso - quale unico ed esclusivo elemento condizionante in senso negativo il giudizio di riconoscimento della circostanza attenuante, dimostra, al di là delle varie considerazioni che hanno affollato la giurisprudenza, come il giudizio sulla fattispecie attenuata, non pare potere prescindere dal ricorso a tranquillizzanti riferimenti aritmetici (sia in senso favorevole, che in senso negativo).

Avvocato Simone Fazzari 

Simone Fazzari e Barry Smith Law Offices 

Simone Fazzari e Barry Smith Law Group

 
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