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Storia dell'Esercito Italiano dall'Unità ai giorni nostri

Post n°10 pubblicato il 10 Maggio 2012 da aleitalia78
 
Foto di aleitalia78

Il nuovo assetto organizzativo delle Forze Armate, con la definitiva sospensione del servizio di leva obbligatorio, ha chiuso definitivamente un ciclo durato ben 143 anni ed iniziato con l'unità d'Italia. Le difficoltà nel creare un esercito unitario per tutto il territorio nazionale, il fenomeno del brigantaggio, la trasformazione da un esercito "di caserma" ad uno sul modello Prussiano, le difficoltà e gli errori succedutesi nel tempo fino allo scioglimento del Patto di Varsavia, con le motivazioni della sospensione della coscrizione obbligatoria pronunciate dal Ministro della Difesa.

 

Con l'avvento dell'unità del 1860, al neo costituito stato italiano, tra i tanti problemi da risolvere, ci fu anche quello della riorganizzazione del nuovo esercito unitario. La superiorità della forza armata piemontese e dei vari eserciti dell'appena costituita unità, era tale da consentire un puro e semplice assorbimento degli eserciti della Toscana, dell'Emilia e quelli dei ducati di Modena, Parma e Piacenza, senza grossi problemi fu trasformato in "Brigata Alpi" anche il corpo volontario "Cacciatori delle Alpi", fondato da Garibaldi. I problemi maggiori nell'unificare l'esercito vennero dalle vicende meridionali, Garibaldi dopo essersi proclamato dittatore della Sicilia in nome di Vittorio Emanuele II, dovette fronteggiare i contadini siciliani, che credettero fosse giunto il momento di liberarsi degli antichi padroni latifondisti e di impadronirsi delle terre. Di fronte a queste rivolte contadine, i garibaldini non seppero fare altro che reprimerle, per paura di perdere l'appoggio della borghesia e dei padroni terrieri. Ulteriori problemi nacquero dall'opposizione di Cavour all'impresa dei Mille, infatti, Garibaldi dopo aver conquistato la Sicilia sbarcò in Calabria, facendo fuggire i Borbone a Gaeta. Cavour voleva impedire a Garibaldi di entrare per primo a Roma, per evitare che il Papa perdesse tutti i suoi territori col rischio che l'Italia si trasformasse in una repubblica. Con il suo consenso, le truppe piemontesi, occuparono le Marche e l'Umbria, sconfiggendo l'esercito papale. Ma quando Garibaldi, nella battaglia del Volturno, sconfisse definitivamente i Borbone, lo stesso Vittorio Emanuele II si mise alla testa delle truppe sabaude per impedirgli di marciare trionfalmente su Roma.

Una volta annessi i territori meridionali, sia l'esercito napoletano sia quello garibaldino premmero per entrare a far parte del nuovo esercito italiano unificato, mantenendo però l'unità dei reparti, i gradi degli ufficiali ed altri privilegi. Sia il governo Cavour che Casa Savoia, consideravano queste richieste come una disgrazia da evitare in qualunque modo, per sfuggire al fatto di spostare verso sinistra l'assetto politico dell'esercito. Assimilare l'esercito garibaldino, avrebbe potuto ostacolare il progetto di "piemontizzazione" della nuova forza armata, ufficialmente furono addotte scuse infondate, che volevano sia l'esercito borbonico che quello garibaldino, sostanzialmente impreparati, formati da uomini le cui carriere gerarchiche fossero state fatte frettolosamente, gradi concessi troppo facilmente, addestramenti scadenti e poco spirito militare; anche se l'esercito garibaldino fornì prova di se proprio nella battaglia del Volturno e la mancanza di ufficiali nel neo costituendo esercito italiano, fecero promuovere circa 2.800 sottufficiali al ruolo di ufficiali, pur avendo certamente meno esperienza di quelli garibaldini.

Così l'11 novembre 1860, Cavour emanò un decreto in cui disponeva lo scioglimento degli eserciti meridionali e della milizia appena creata dalla borghesia del sud, per la lotta al nascente fenomeno del brigantaggio. Fu quindi esclusa la possibilità di un loro ingresso in blocco nell'esercito italiano (in particolare per le truppe garibaldine), lasciando la sola possibilità di ingressi individuali, alla condizione per i soldati di aver già trascorso due anni di ferma e, per gli ufficiali, ci si rimise al parere di una commissione.

 

In questo quadro politico è scontato che le proposte di Garibaldi, per la riorganizzazione dell'esercito, furono freddamente accolte dal parlamento di Torino, egli, infatti, propose una riorganizzazione sul modello popolare della "Nazione in Armi", fatto da un milione di uomini, per proseguire la guerra all'Austria ed annettere al Regno d'Italia i territori mancanti del Veneto e di Roma. Il progetto di Garibaldi prevedeva la creazione di cinque divisioni di soldati, che proseguissero sostanzialmente l'esperienza dell'esercito meridionale, ovviamente Cavour respinse tale proposta costituendo, ma solo sulla carta, il "Corpo Volontari d'Italia". Garibaldi allora propose la trasformazione della "Guardia Nazionale" (una sorta di corpo indipendente formato dai possidenti di ciascun comune e con compiti esclusivamente di mantenimento dell'ordine pubblico) in "Guardia Mobile", basata sull'esercito di massa di tutti i cittadini maschi dai 18 ai 35 anni. Ovviamente anche questa proposta fu accantonata dal governo, da Casa Savoia e dalle gerarchie militari, che non volevano la costituzione di un esercito parallelo a quello regolare. Fu accettata invece la proposta del generale Fante che rifiutava i vari eserciti, degli ormai superati stati italiani, intorno a quello piemontese, mantenendo il vecchio sistema francese dell'esercito di caserma a ferma prolungata, la cui chiamata alle armi non comprendeva che una parte limitata di giovani dai 18 anni in su: sino alle riforme degli anni '70 il gettito di leva non superava che le 60.000 unità. Una particolare attenzione merita il fatto che l'obbligo non era distribuito in modo uniforme tra le classi sociali italiane: gli studenti universitari, in sostanza gran parte dei figli delle classi abbienti, erano esonerati dall'obbligo della coscrizione obbligatoria (come peraltro accadeva in tutti gli eserciti europei) ed era stata data loro la possibilità di sostituzione per quanti accettassero di riscattarne il servizio attraverso il pagamento di una somma o inviando altre persone al proprio posto; di fatto la leva obbligatoria ricadde solamente sulle classi sociali subalterne e in particolar modo sui contadini. E' curioso osservare che, parallelamente alla coscrizione obbligatoria, si diffuse il brigantaggio nel meridione del paese, percependo l'esercito "piemontese" come straniero ed ostile, infatti, nel 1863 nella sola Campagna si riscontrò il 57% di maschi renitenti alla leva, che ebbero come unica possibilità quella di darsi alla macchia contribuendo al fenomeno del brigantaggio. Va detto che l'obbligo di leva all'epoca era fissato in cinque anni e perdere un figlio, in pieno vigore fisico, per tanto tempo, significava la miseria per l'intera famiglia; infine la disciplina che Casa Savoia pretendeva per il suo esercito era molto più dura rispetto a quella pretesa dai Borbone. Per reprimere il fenomeno del brigantaggio, nel 1862, quasi la metà dell'esercito era impegnato, con brutale ferocia, a combatterlo; gli storici Rochat e Massobrio scrissero che la prassi corrente dell'esercito Sabaudo, fu quella di fucilare sul campo tutti i briganti ed i loro supposti complici, esporre i loro corpi nudi, incarcerare le famiglie dei ricercati e bruciare i villaggi sospettati di connivenza con gli irregolari. Di fatto, l'esercito italiano si comportò con una bestiale ferocia come solo un esercito occupante poteva fare, segnando in modo definitivo un solco tra il popolo meridionale e stato italiano che, anche per questo, da ora in poi fu considerato come ostile ed estraneo. La "questione meridionale" non fu l'unico problema che il neonato esercito dovette fronteggiare: per tutti gli anni '60 la forza armata fu chiamata a reprimere i motti che scoppiarono in Valpadana e nel resto del Paese contro la tassa sul macinato.

Al successo che l'esercito ebbe nel reprimere i motti interni non corrispose un altrettanto successo in battaglia, le cocenti sconfitte di Custoza e Lissa del 1866, produssero un'ulteriore caduta di consensi dell'esercito, definitivamente ridimensionato a seguito della grave situazione finanziaria della monarchia che produsse tagli alla spesa militare; basti pensare che dopo il 1866 la forza effettiva passo da 250.000 uomini a 140.000 e che la leva obbligatoria passò dai cinque ai tre anni e nove mesi. Come conseguenza alle due sconfitte, nei primi anni del 1870 si posero le basi per una riforma dell'intero esercito italiano, fu quindi deciso di adottare il modello prussiano a ferma breve obbligatoria, eliminando definitivamente il vecchio modello dell'esercito di "caserma". La leva fu portata a tre anni ed estesa praticamente a tutti i maschi delle classi sociali oltre i 18 anni, proteste si elevarono dalla borghesia che non voleva l'abolizione del diritto di esenzione per gli studenti universitari, per accontentarli la riforma fu avviata in modo graduale e dando altri tipi di privilegi alle classi abbienti, in particolar modo fu istituito il cosiddetto "anno volontario", che in Prussia ed Austria ebbe grande successo: lo studente universitario (che non poteva che essere abbiente) aveva la possibilità di commutare i tre anni di ferma in un anno, assieme al pagamento di una somma in denaro, che equivaleva al costo di un mantenimento per la rafferma dei rimanenti due ed uscire, frequentando un corso, con il grado di Sottotenente. Il funzionante sistema prussiano, adottato praticamente tale e quale, in Italia non ebbe seguito, infatti, nei primi anni del '900 su 19.304 studenti universitari che scelsero l'anno volontario, solamente 622 uscirono col grado di Sottotenente, credendo di correre minori rischi di essere richiamati in caso di guerra. Oltre a tale motivazione, a differenza della Prussia ed Austria, in Italia l'esercito aveva scarsa considerazione tra la popolazione ed il conseguimento di un grado da ufficiale era poco gratificante fra la bigotta borghesia.

Nonostante questi problemi si passò da un esercito "di caserma" ad uno a coscrizione obbligatoria generalizzata, basato sul reclutamento a livello nazionale e non territoriale come in Prussia, fu adottato questo sistema nazionale ufficialmente per integrare i vari eserciti (nonostante tutto) ancora esistenti sul territorio italiano e per creare una "coscienza nazionale" ancora mancante. In realtà si trattava di sradicare i giovani dai territori natii di tre o quattro province e stanziarli in una quinta, possibilmente spostando i giovani meridionali al nord ed i settentrionali al sud, così che il dialetto (unica lingua effettivamente parlata) avrebbe svolto un ruolo di isolante naturale, evitando pericolose solidarietà con la popolazione, che avrebbe potuto allearsi con i militari per sommentare rivolte contro il sistema. Solamente le truppe alpine furono reclutate su livello regionale e per il solo motivo che esse erano assolutamente fedeli alla monarchia di Casa Savoia.

Nonostante l'avvento del fascismo, la caduta della monarchia e l'istituzione del sistema repubblicano, la scelta "continuativa" fu quella intrapresa, evitando di approfittare di questi passaggi per abbandonare definitivamente la possibilità di un esercito libero dalle colpe del passato.

Al termine della seconda guerra mondiale, lo scenario geopolitico mutò definitivamente, l'istituzione del Patto di Varsavia, della NATO ed in generale le paure di un invasione russa, costrinsero il paese a mantenere l'obbligatorietà della leva. Nel 1949, con appunto l'istituzione del Patto Atlantico, all'Italia, alla Grecia ed alla Turchia fu affidato il compito di assicurare il fianco sud dell'alleanza, al nostro paese toccò particolarmente il compito di fornire la maggiore quantità di basi sul Mediterraneo e di mantenere il confine con il Patto di Varsavia del Friuli. Venne così la necessità di mantenere circa 300.000 uomini effettivi in servizio e ben oltre metà di loro, furono dislocati in terra friulana.

on la caduta del muro di Berlino del 1989, che da 28 anni era il simbolo della divisione della Germania, il dissolvimento dell'URSS, l'indipendenza di numerosi stati satellite ex sovietici, che portarono alla caduta del confine italo - jugoslavo e nuovi scenari internazionali in Italia si ridiscusse una radicale riforma del sistema delle forze armate, nel 1972 fu introdotta l'obiezione di coscienza al servizio militare (il cui senso originario fu spesso usato ed abusato da molti). Ma la vera svolta avvenne nel Consiglio dei Ministri del 24 giugno 2005, che accolse la proposta del Ministro della Difesa, di anticipare al 30 giugno dello stesso anno la fine della leva obbligatoria, fissata in un primo tempo al 2007. Alla base di questa epocale svolta, che dopo 143 anni chiuse una parentesi storica, il Ministro della Difesa, On. Martino, pronunciò le seguenti parole "Il paese deve disporre di uno strumento militare capace di corrispondere efficacemente alle nuove esigenze di sicurezza nazionale [...] all'interno di uno scenario internazionale [...] in grado di garantire una presenza professionalmente qualificata e di inserirsi negli schieramenti alleati nel contesto delle sempre più numerose missioni di pace della comunità internazionale". Oltre a questo i giovani che desiderassero entrare a far parte delle forze di Polizia, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, dei Vigili del Fuoco e delle Guardie Forestali, dovranno obbligatoriamente passare per un anno attraverso l'Esercito per una formazione militare di base.

 

 

 
 
 

la smilitarizzazione del Nord-Est a seguito della caduto della soglia di Gorizia

Foto di aleitalia78

 

Alla fine della seconda guerra mondiale all'Italia fu chiesto di fermare un ipotetico attacco sovietico, che secondo i piani della Nato, si sarebbe diretto con certezza verso la "soglia di Gorizia", cioè attraverso un lungo corridoio pianeggiante largo una cinquantina di chilometri, varcato il quale Francia e Germania sarebbero state vulnerabili. Fino al crollo dell'impero sovietico in queste terre si concentrò gran parte della Forza Armata italiana, il Friuli fu la destinazione di migliaia di militari ed oggi, a quasi di vent'anni dalla fine della guerra fredda, le caserme sono ancora li, abbandonate a se stesse e prive di vita quotidiana. Storie che hanno fatto crescere ed emancipare terre dure e testarde come quelle del Nord-Est.

 

Il 4 aprile 1949 a Washington fu firmato il Trattato Atlantico tra i rappresentanti degli Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Italia, Portogallo, Islanda, Danimarca e Norvegia. Il Patto, una volta ratificato dalle singole nazioni, entrò in vigore il 24 agosto 1949 dando vita ad un'organizzazione militare, che dalla sua nascita fino alla caduta del muro di Berlino, si guadagnò un posto in primissimo piano sull'intera società mondiale.

Sia chiaro però che il Patto Atlantico fu l'esito di una serie di negoziati tra i firmatari del patto di Bruxelles: USA e Canada, gli altri stati furono coinvolti solamente in misura marginale, il nostro paese è sempre stato, per l'assetto politico e per lo scarso peso militare, un alleato minore, tanto che non gli fu mai chiesto di esprimere alcun parere in merito alla politica atlantica.

L'Italia era però confinante territorialmente con due paesi non allineati (Jugoslavia e Austria) e questo motivo indusse la Nato ad affidarci sostanzialmente due compiti: rinsaldare la neutralità dei vicini e resistere ad un eventuale attacco sulla "soglia di Gorizia", infatti, un'invasione sovietica dal Nord-Est del paese, avrebbe reso vulnerabile Francia e Germania, la Nato indirizzò quindi le forze militari italiane soprattutto nella difesa territoriale del confine italo-jugoslavo.

Il Nord-Est ed in particolare la terra friulana fu quindi per l'Italia un importante base logistico-militare proiettata a difesa degli interessi confinari, la necessità di ospitare tali e tante forze, fecero nascere a macchia d'olio numerose caserme, depositi munizioni, poligoni di tiro, magazzini, ecc. Tutti edifici che già negli anni '70 e '80 risultavano obsoleti, inadeguati ed insalubri, si calcola che circa il 20% delle strutture fu costruito prima del '900, il 30% fu costruito a partire dal 1900 al 1935, il 40% tra il '35 ed il '45 ed infine solo il 10% fu costruito dopo il 1945. Il dipartimento delle infrastrutture, calcolando con i parametri valutativi dell'Esercito (e non con quelli della vita civile), dichiarava alla fine degli anni '80 che il 30% delle caserme risultava essere totalmente inadeguata, il 40 % accettabile ed il restante 30% pienamente adeguate.

Oltre alle enormi difficoltà logistiche, furono dislocati in queste terre migliaia di militari (vedi tabella 1), nel solo asse di tenuta Gorizia - Padova - Bologna - Brescia fu dislocata praticamente la metà della forza dell'esercito, proveniente da tutte le regioni italiane (vedi tabella 2). La maggioranza dei militari di stanza nel Nord-Est proveniva da diverse regioni italiane, con una distanza media da casa di circa 300 km da coprire mediamente in 4-5 ore di treno e per non più di 5-6 volte l'anno. Oltre al problema della distanza per i militari ci fu la difficoltà di socializzare con la popolazione locale dove aveva sede la propria caserma, spesso, infatti, le strutture militari avevano sede in piccoli paesi come Maniago, Sgonico, San Lorenzo Isontino, Basiliano e Palmanova, dove pressoché nulle erano le possibilità di stabilire relazioni con la popolazione, paesi di 3 o 4 mila abitanti consideravano la caserma un fattore di disturbo, ed erano apertamente ostili verso gli "invasori".

Passeggiare per Udine al tramonto significava immancabilmente incontrare militari in libera uscita, che dopo cena passavano il tempo a disposizione vagando senza meta per le vie cittadine, piazza Liberà era il punto di ritrovo, chiacchieravano, guardavano, osservavano e se c'era l'occasione avvicinavano qualche ragazza. Immancabile la passeggiata sulle rive per chi aveva la fortuna di essere dislocato a Trieste città, altrimenti l'altopiano carsico con Opicina e Sgonico offriva loro ben poco. Particolare la situazione della città-fortezza di Palmanova, circondata da mura e bastioni che la fecero diventare una roccaforte, al centro della pianura friulana, fatta da campi, molti e gente, poca: insomma una città che fino a metà anni '80 era militarizzata, dove la sera circolavano praticamente le stesse facce che si erano viste fin poco prima in caserma.

La caduta del muro di Berlino del 1989, il dissolvimento dell'URSS e l'indipendenza di numerosi stati satellite ex sovietici, portarono alla caduta del confine italo-jugoslavo, l'abbandono della soglia di Gorizia e grazie a nuovi scenari internazionali, in Italia, si discusse una radicale riforma del sistema delle Forze Armate.

Gli attuali scenari operativi conseguenti alle mutate tipologie di minaccia, hanno influenzato ed in parte modificato anche le metodologie addestrative. La capacità di assolvere compiti sempre più diversi e diversificati nei più variegati scenari operativi richiede una preparazione capillare, seria e scrupolosa, sempre più aderente alle missioni da svolgere con una professionalità sempre più elevata.

Lo stare al passo coi tempi e saper calibrare il proprio operato e la propria preparazione in funzione dei molteplici compiti affidati, nella consapevolezza di essere una Forza Armata composta esclusivamente da professionisti, in grado di contribuire attivamente alla tutela degli interessi nazionali ovunque essi siano, portò l'esercito ad adeguarsi alle esigenze di uno Stato moderno, che per vocazione insieme ai partners alleati ed europei è impegnato a consolidare sia la sicurezza interna sia quella esterna, con il chiaro obiettivo di intervenire con brevissimi tempi di preavviso, a sedare i numerosi focolai di conflittualità quando richiesto.

Per questi motivi a partire dagli anni '90 furono sciolti decine e decine di Reggimenti, chiuse caserme, poligoni, depositi carburanti e Sante Barbara, strutture ancor oggi in gran parte appartenenti alla Forza Armata, pressoché abbandonate a se stesse e all'usura del tempo, giardini trasformati in boschi di rovi, finestre divelta dal maltempo, tetti grondanti d'acqua e mura verdeggiati di umidità, ricettacolo di topi e animali selvatici. Tutte le strutture sono state "visitate" da ladruncoli che hanno portato via le poche cose che erano rimaste all'interno: maniglie, rubinetteria, interruttori, prese e perfino i fili che correvano nei tubi, per il resto ci hanno pensato i teppisti sfasciando sanitari, porte, vetri, reti d'ingresso e piastrelle. Da parecchi anni la regione autonoma Friuli Venezia Giulia chiede al Governo di entrare a far parte di tali strutture, per poi rigirarle ai comuni, che le trasformerebbero in sedi per associazioni, costruirebbero alloggi ad edilizia agevolata o le venderebbero ai privati, ma l'iter per la dismissione sembra arenarsi continuamente per motivi burocratici. Solo pochissime strutture sono state convertite, come per esempio l'ex caserma "Polonio" di Gradisca d'Isonzo, sede degli incursori "Nembo" che ora, e solamente in una piccola parte, ospita un Centro di Permanenza Temporanea per clandestini. Sia chiaro che il ridimensionamento dell'esercito non è stato ancora completato, Udine è stata sottoposta ad un depauperamento forte: la chiusura delle caserme Osoppo, Friuli, Piave e Cavarzerani, dell'ospedale militare, della C.M.O. e del distretto Militare che sembra in procinto di accasermarsi presso Comando Reclutamento di Trieste, ha fatto si che in città non ci siano più 8-900 militari ed in tutta la regione, dai più di 65 mila del 1986, attualmente ci sono meno di 10 mila uomini. Dati puramente teorici, in quanto a ciclo continuo numerose aliquote sono impegnate in operazioni "fuori area", per non parlare delle strutture sovradimensionate come il megaimpianto della caserma "Pio Spaccamela", rievocatrice di ricordi in grigioverde per molti uomini, oggi sede del Reparto Comando e Supporti Tattici della Brigata Alpina "Julia", utilizzato solamente al 20% delle possibilità, che la fecero conoscere negli anni '70 e '80 come uno delle più temibili e dure strutture d'Italia.

La storia che hanno costruito le migliaia di persone passate, volenti o nolenti, per queste terre, gli edifici carichi di storia e di vita vissuta, i ricordi di un periodo "sotto le armi", che nessun uomo dimenticherà nella propria vita e che ancor oggi la divide, tra il "prima di fare il miliare" e "dopo aver fatto il militare", segnando un solco in cui il ragazzo, proprio in questi luoghi, si trasformò in uomo, meriterebbero più rispetto ed onore; sarebbe doveroso che i comuni il cui territorio fu sede di strutture militari, le ricordassero perlomeno con una targa da sistemare nei pressi dell'edificio militare, oramai vuoto, abbandonato a se stesso, ma che in futuro sarà riconvertito o abbattuto a favore di altre attività "civili".

Gli anni della militarizzazione del Nord-Est furono una manna per l'economia di queste zone, è vero che i militari erano tutti di leva e quindi con limitatissime possibilità economiche, ma proprio per questo sorsero numerose pizzerie nelle vicinanze delle caserme. Proprio per il gran numero di militari e per il loro costante ricambio, i gestori spesso e volentieri li trattavano come persone di rango inferiore: scarso servizio, maleducazione, poca considerazione e niente rispetto. Con il ridimensionamento delle forze, anche questi locali sono stati costretti a trasformarsi o a chiudere i battenti, con gli stessi gestori che si lamentano per gli scarsi guadagni, dimenticandosi di come hanno trattato i militari negli "anni d'oro", ma prostrandosi, oggi, verso qualsiasi cliente, militare o no che sia. Un esempio: le pizzerie in Udine città oggi si contano sulle dita delle mani e quelle nelle vicinanze di caserme dislocate nei paesi non ne esistono praticamente più.

 

Attualmente nella regione Friuli Venezia Giulia la Fora Armata è presente con tre componenti fondamentali: operativa, infrastrutturale e territoriale. La regione ha la maggior concentrazione sul territorio di forze operative a livello di Brigata, ben quattro: la Brigata di Cavalleria "Pozzuolo del Friuli" con il Comando a Gorizia, la 132^ Brigata Corazzata "Ariete" con il Comando a Pordenone, la Brigata Alpina "Julia" con il Comando ad Udine e la Brigata Genio, sempre con il Comando a Udine.

La componente infrastrutturale è garantita dal 12° Reparto infrastrutture con sede ad Udine, che provvede, a livello regionale, all'esecuzione, progettazione ed appalto di tutte le componenti infrastrutturali, curandone il mantenimento e l'ammodernamento.

La componente territoriale è invece rappresentata dal Comando Reclutamento e Forze di Completamento Regionale "Friuli Venezia Giulia" con sede a Trieste, le cui funzioni sono a livello di Regione Amministrativa, nei settori del presidio, della cooperazione Civile-Militare, della pubblica informazione, della promozione del reclutamento e di gestione del pronto impiego dell'esercito in regione. Si avvale del dipendente Distretto Militare di Udine.

Hanno sede in regione anche l'8° Reggimento Trasporti di Remanzacco (UD), dipendente dalla Brigata Logistica di Proiezione ed il I° Reggimento Fanteria di Trieste, dipendente dal RAV (Reparto Addestramento Volontari) di Capua.

 

Discorso a parte merita la basa USAF di Aviano, che grazie ad un piano di spesa stimato in 530 milioni di dollari, suddivisi tra Nato, Usa ed Italia ha portato la base pordenonese ad una forza variabile, secondo le esigenze, dai 2.500 uomini in su. A seguito di numerosi atti terroristici ed intimidatori, il personale americano che presta servizio in base, utilizza tutti i servizi interni messi a disposizione e praticamente non esce quasi mai dai confini militari, oramai anche il mercato immobiliare è in flessione, grazie al fatto che la base è studiata per offrire tutto ciò che una famiglia necessita, senza mai "uscire" col pericolo di essere presi di mira da delinquenti, neppure le auto sono più targate "AFI" e sempre più spesso sono di fabbricazione europea, per "mimetizzarsi" tra le altre.

 

 

 

 
 
 

Il terremoto del 1976 in Friuli

Post n°8 pubblicato il 10 Maggio 2012 da aleitalia78
 
Foto di aleitalia78

Giovedì 6 maggio 1976 ore 21:02: la terra del Friuli collinare e pedemontano è sconvolta da un sisma violentissimo, un rombo continuo, i muri delle case che tremano come fossero di carta, i secondi che sembrano un'eternità, dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta, cinquantacinque secondi, la terra, maledetta ballerina, trema come fosse un mare in tempesta. E' è il terremoto.

Centinaia e centinaia di morti, migliaia di feriti, intere comunità abbattute, numeri da catastrofe umanitaria, ma il sisma ha demolito le case, ha distrutto le fabbriche, ha provocato morte ed orrore ma non ha abbattuto i friulani. Una regione abituata a fare e rifare, un popolo che è andato a lavorare per il mondo e che ha rimandato al suo paese i frutti dei propri risparmi, un mondo così unico ed esemplare non poteva avvilirsi di fronte ad una simile catastrofe. Dignità e virilità nel comportamento, anche di aveva perso un famigliare o la casa faticosamente costruita, senza lacrime, perché il dolore non è da mostrare, ma è da tenere dentro nel proprio intimo, umanità, solidarietà e tanto orgoglio di "fa di bessoi" cioè di "fare da soli", sono la chiave di lettura di quella che è considerata da tutti la migliore gestione di una catastrofe. Da qui, dal Friuli terremotato, nacque la Protezione Civile Italiana, moderna ed invidiata da tutti i Paesi del mondo che ancor oggi copiano il modello d'efficienza e solidarietà.

 

Due ore dopo la scossa i primi nuclei dell'esercito erano già operativi: soldati della Mantova, dell'Ariete, alpini della Julia e genieri del 5° Corpo d'Armata, con attrezzature da lavoro e decine di automezzi si portarono sui luoghi del disastro, i cui confini di ora in ora diventarono sempre più ampi.

In tutta la zona colpita furono gli stessi sodati delle caserme disastrate a fornire gli aiuti alle popolazioni, con il passare delle ore l'intervento si fece sempre più massiccio, ai responsabili dei soccorsi si presentarono situazioni sempre più drammatiche, una regione sconvolta, morti, feriti e miglia di senza tetto che necessitavano di cure sanitarie, viveri e di un ricovero per la notte.

Per l'evacuazione dei feriti furono utilizzati tutti i mezzi a disposizione, con l'opera dei sanitari civili e militari, arrivati immediatamente e di propria iniziativa nelle località più colpite, negli ospedali civili e militare di Udine, nelle tendopoli e nelle infermerie da campo.

Incessanti le opere che i genieri del 4° e 5° Corpo d'Armata supportarono assieme alle forze di polizia, ai vigili del fuoco e ai volontari: la messa a dimora di tende per un totale di 81 mila posti, lo scavo tra le macerie, col pericolo di nuovi crolli, per ore ed ore rifiutando il cambio o anche la sosta per il rancio, per salvare una vita che da ogni cumulo di macerie, fosse potuta ancora uscire.

Velivoli dell'aeronautica, dell'esercito, della marina, delle nazioni alleate e convogli navali delle forze di tutto il mondo, trasportarono migliaia e migliaia di tonnellate di materiale: gli aeroporti di Istrana, Campoformido, Casarsa e la caserma Cavarzerani di Udine furono i cuori pulsanti di questa immensa organizzazione logistica. L'impraticabilità delle strade, l'urgenza, i terreni franosi, le necessità del bestiame ed il desiderio della popolazione di non abbandonare la proprietà, furono gli elementi che spinsero l'esercito ad utilizzare in modo massiccio ben 64 elicotteri.

Le caserme dislocate praticamente su tutto il territorio regionale, funsero da punto di riferimento per le popolazioni: all'interno di esse e nelle vicinanze sorsero le prime tendopoli e i primi centri operativi di settore.

Con l'armonica e proficua collaborazione delle autorità civili locali, l'esercito italiano con i 14.144 uomini impiegati giornalmente ed i 2.616 automezzi a disposizione, fronteggiò tutti i problemi che di volta in volta si porsero, prevenendone altri: si curò particolarmente l'aspetto igienico-sanitario delle popolazioni, costrette a vivere in comunità e in condizioni di estremo disagio, le visite mediche, i servizi igienici, i bagni campali, la disinfezioni delle tendopoli, il vestiario, le macerie da sgombrare, l'abbattimento degli edifici pericolanti, l'illuminazione, la viabilità, il ricovero degli anziani e dei bambini, i sussidi ed il vettovagliamento con l'alimentazione di oltre 75 mila persone, oltre quella dei reparti, con l'adeguamento delle razioni, la loro preparazione ed il rifornimento idrico, costituirono un impegno senza precedenti per gli uomini in grigioverde.

Lunga la serie di esempi di fratellanza umana a testimonianza di solidarietà giunta da tutti i continenti: Usa, Canada, Australia, Francia, Belgio e Germania solo per citarne alcuni e l'opera dell'Associazione Nazionale Alpini che con i propri uomini, dal sacerdote al bancario, dal muratore all'idraulico e dall'operaio al cuoco, donarono ferie e materiale di costruzione per l'attività nei cantieri.

I soldati delle divisioni Ariete, Mantova, Folgore, della Brigata alpina Julia, del genio militare del 4° e 5° Corpo d'Armata, ripristinata prima fra tutte la viabilità stradale e ferroviaria, suddivisi in 19 compagnie e 190 squadre, lavorando a ciclo continuo completarono, con largo anticipo sui tempi prefissati, ben 13.451 prefabbricati, pari ad oltre 40 mila mq di superficie abitativa in 25 comuni colpiti, suddivisi a loro volta in 75 cantieri di lavoro.

Ma la cosa che ha colpito di più dei friulani è stato il dopo, la perfetta organizzazione che prevedeva di ricostruire prima le fabbriche, poi le case ed infine le chiese; nell'immediatezza gli industriali friulani si organizzano, il cavaliere del lavoro Rino Snaidero dopo pochi giorni riaprì la fabbrica distrutta e meno di un mese dopo furono 44 gli autocarri partiti pieni di cucine da vendere, oppure l'industriale De Simon che sistemò la direzione aziendale in uno degli autobus che costruiva. A San Daniele Natalino Dal'Ava, aveva 54 mila prosciutti in mezzo alle macerie e i suoi operai la mattina dopo il sisma erano già all'opera per raccoglierli e spostarli in altri luoghi.

Ottima fu anche la gestione amministrativa della tragedia, l'8 maggio il Consiglio Regionale del Friuli Venezia Giulia stanziò una cifra pari a 40 milioni di euro attuali, in collaborazione con le Amministrazioni locali, i fondi statali destinati alla ricostruzione furono gestiti direttamente dal commissario governativo Zamberletti assieme al governo regionale. Circa 40.000 sfollati passarono l'inverno sulla costa adriatica, per rientrare tutti prima della fine di marzo del 1977 in villaggi prefabbricati costruiti nei rispettivi paesi.

Nel giro di dieci anni e grazie ad un'attenta ed efficiente gestione delle risorse, la ricostruzione poté definirsi completata.

 

Ancor oggi, a trentacinque anni dal sisma, il Friuli ringrazia e non dimentica.


I numeri del sisma:

6,5 i gradi della scala Richter del 6 maggio '76

6,3 quelli della seconda scossa del 15 settembre '76

5.725 i km quadrati dell'area interessata

137 i comuni interessati:

- 45 classificati disastrati

- 40 classificati gravemente danneggiati

- 52 classificati danneggiati

18.000 le case distrutte

75.000 gli alloggi danneggiati

989 le vittime

3.000 e più i feriti

100.000 i senzatetto

200.000 i bisognosi di assistenza

600.000 le persone coinvolte

10.000 soccorritori all'opera già il giorno successivo

18.000 tende montate durante la prima fase per ospitare 116.000 persone

20.000 i prefabbricati montati

40.000 gli sfollati nelle località balneari dopo le scosse di settembre

4.500 miliardi di lire (valuta del 1977) i danni stimati

 

Le forze in campo per le operazioni di soccorso:

Esercito: 14.144 uomini e 2.616 automezzi

Carabinieri: 3.000 uomini e 597 automezzi

Polizia: 1.268 uomini e 309 automezzi

Vigili del Fuoco: 929 uomini e 558 automezzi

Marina: 427 uomini e 53 mezzi

eronautica: 160 uomini e 80 mezzi

 

 

 
 
 

il Milite Ignoto

Foto di aleitalia78

 

 

Papa Benedetto XV la definì "flagello dell'ira di Dio", "orrenda carneficina che disonora l'Europa", "un mondo fatto ospedale e ossario", "il suicidio d'Europa" ed infine "la più fosca tragedia dell'odio umano e dell'umana demenza". Per il filosofo Benedetto Croce la vittoria "è venuta piena, sfolgorante e quel che è meglio, meritata". Sul bollettino della Vittoria, il generale Diaz disse che "i resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza".

Il sentimento degli italiani al termine del primo conflitto mondiale era questo, orgoglioso della vittoria ma turbato dalla sterminata memoria dei morti e dal pietoso pianto delle madri e delle mogli, in particolare di coloro che non avevano neppure una tomba ed un corpo su cui posare un fiore.

Tutto questo, unitamente al desiderio nazionale di onorare i caduti, fecero nascere l'esigenza di lenire il dolore, rendendo gli onori ad una salma di un combattente anonimo, che rappresentasse tutti i morti in combattimento.

L'Italia sentì l'esigenza di avere un simbolo di gloria e di virtù, nonché punto di riferimento per le generazioni future, avrebbe dovuto essere un eroe puro e sublime, che racchiudesse in se tutte le migliori virtù del soldato italiano. Nel 1920 l'allora colonnello Giulio Douhet, propose per primo di onorare i caduti italiani, le cui salme non furono identificate, con la creazione di un monumento al Milite Ignoto a Roma. Dopo non poche resistenze della monarchia, che vedeva in questo simbolo una sconfitta, in quanto riteneva che la Vittoria fosse giunta per merito dei propri condottieri e capi e non per merito dei soldati (oltretutto di coloro che non si conosceva il valore e neppure il nome), venne deciso di collocare la tomba del Milite Ignoto sotto la statua della dea Roma, presso il complesso monumentale del Vittoriano a piazza Venezia.

La proposta venne approvata ed il 20 agosto 1921, il ministro della guerra, On. Gasparotto, emanò le prime disposizioni in merito alle "solenni onoranze alla salma senza nome di un soldato caduto in combattimento alla fronte italiana nella guerra italo-austriaca 1915-1918". Il ministro dispose la costituzione di una speciale commissione con a capo il Ten. Gen. Paolini (ispettore per le onoranze alle salme dei caduti), della stessa fecero parte anche il Ten. Col. Paladini (capo ufficio dell'ispettorato stesso), un ufficiale superiore medico designato dall'ispettore e quattro ex combattenti (un ufficiale, un sottufficiale, un caporale ed un soldato) designati dal sindaco di Udine.

Con apposita delibera datata 26 settembre, Il Cav. Luigi Spezzotti, sindaco della cittadina friulana, designò quali membri della commissione il Ten. Augusto Tognasso (mutilato e con 36 ferie), il Serg. Giuseppe de Carli, (decorato di medaglia d'oro al Valor Militare), il C.le Mag. Giuseppe Sartori, (decorato di medaglia d'argento e di bronzo) ed il soldato Massimo Moro, (anch'esso medaglia d'argento al V.M.). Il Sindaco nominò anche quattro supplenti in modo tale da assicurare l'ininterrotto funzionamento della commissione: Col. Carlo Trivulzio, il Serg. Ivanoe Vaccaroni, il C.le Mag. Luigi Marano ed il soldato Lodovico Duca.

Ad accompagnare la commissione, ma senza farne parte, ci fu il cappellano militare Don Pietro Nanni.

Il ministro dispose che la ricerca della salma da esumare fosse effettuata alla presenza di tutti i membri della commissione e che essa avrebbe dovuto appartenere ad un caduto "certamente non identificabile", inoltre la salma avrebbe dovuto essere prelevata a caso tra i corpi di 11 militari acquisiti sui tratti più avanzati del fronte di guerra: San Michele, Gorizia, Monfalcone, Cadore, Alto Isonzo, Asiago, Tonale, Monte Grappa, Montello, Pasubio e Campo Sile.

Il ministro dispose inoltre che tutte le salme fossero collocate in bare di legno grezzo, di forma e dimensioni identiche, fatte allestire a Gorizia, inoltre per ogni esumazione avrebbe dovuto redigersi un verbale, per evidenziare tutte le cautele adottate. Le operazioni avrebbero dovuto terminare entro il 27 ottobre 1921 ed entro tale data le 11 salme sarebbero dovute giungere nella cattedrale di Aquileia (UD) dove per il giorno successivo era fissata la cerimonia.

Alle ore 09,00 di domenica 2 ottobre la commissione venne fatta riunire a palazzo Caiselli di Udine e prima di partire per Trento, il Ten. Gen. Paolini fece fare solenne giuramento a tutti i membri, per assicurarsi che mai e poi mai avrebbero rivelato i luoghi ove si sarebbero svolte le esumazioni.

Doveroso è quindi precisare che le successive indicazioni sono frutto di varie testimonianze e indicazioni, prima fra tutte quella del Ten. Col. Cadeddu che nel 1998 pubblicò uno scritto per il Circolo Vittoriense di ricerche storiche, in occasione dell'80° della Vittoria.

Lunedì 3 ottobre la commissione da Trento si spostò sui monti circostanti Roveredo ma non trovando salme insepolte, decise di prelevarne una dal cimitero di guerra di Lizzana (TN). La commissione prelevò un fante "in atto di tranquillo e sereno riposo, vestito della sua uniforme e con indosso le giberne". Il corpo venne avvolto nel tricolore e composto in una delle 11 bare ed il capo del soldato venne poggiato su un cuscino di rami di pino. Era la prima salma raccolta.

La commissione a questo punto attraverso il Pian delle Fugazze e le Porte del Pasubio, giunse in un cimitero allestito nelle vicinanze delle trincee e qui, con le stesse modalità precedenti, venne riesumato un corpo di un soldato. Su richiesta del sindaco di Schio le salme vennero portate nella chiesa affinché la cittadinanza tributasse il giusto onore ed in particolare le spose "... che con il cuore straziato accarezzarono con infinito amore le teste dei bimbi, che negli occhi portavano l'immagine del padre defunto".

Le ricerche successive portarono la commissione sull'altopiano di Asiago dove sul Monte Ortigara, in un crepaccio chiuso da un groviglio di filo spinato, furono ritrovati i corpi di due soldati con a fianco ancora i moschetti e le cartucciere nelle giberne. Uno solo di essi fu scelto per essere traslato.

La tappa successiva fu il Monte Grappa, dove venne prelevata una salma di un corpo segnalato da una croce in legno, in una piccola valle.

Sul Montello, non trovando più corpi che non fossero già tumulati, la commissione decise di recarsi presso il cimitero di guerra di Collesel delle Zorle (dove erano presenti circa 9000 caduti) e recuperare uno fra i 3000 corpi senza nome. Il cadavere pietosamente ricomposto nella bara in legno, fu poi trasportato, unitamente agli altri cinque, a Conegliano per gli onori della cittadinanza.

La sesta salma venne invece esumata nel pressi di Jesolo nel cimitero di Guerra di Ca' Gamba ed anch'essa venne poi portata per i saluti della cittadinanza a Conegliano.

A questo punto la commissione portò le sei bare avvolte nel tricolore a Udine dove, su affusti di cannone e due ali di popolo, i feretri furono depositati nella chiesetta del castello e cinti da una ringhiera di vecchi moschetti raccolti nelle trincee.

Da Udine la commissione si recò sulle Dolomiti e non trovando corpi nella zone di battaglia delle Tofane e del Falzarego, decise di esumarne uno dal locale cimitero di guerra del Monte Crepa. La salma raggiunse poi Udine per congiungersi alle altre sei nella chiesa del castello da dove successivamente furono trasferite in quella di Sant'Ignazio di Gorizia, distrutta dalle granate, sul fronte più avanzato della Grande Guerra.

Sulla cima del Rombon, nei pressi di Caporetto (oggi territorio Sloveno), lungo la risalita dell'Isonzo, sotto un cumulo di sassi ed accanto ad un'anonima croce, venne ritrovata l'ottava salma ed anch'essa inviata a Gorizia.

Sul Monte San Michele, vero calvario per i fanti italiani, alle pendici del San Marco, fu rinvenuto un corpo segnalato da una croce in legno e con ancora in pugno la propria arma. Anche questo corpo fu traslato nella chiesa di Sant'Ignazio a Gorizia.

La penultima tappa fu Castelgnevizza del Carso, dove sotto un groviglio di filo spinato ed un palo spezzato, fu rinvenuto il corpo di un militare sepolto accanto ad un altro. Anch'esso fu trasportato a Gorizia.

L'ultimo eroe senza nome invece venne traslato nella Chiesa di Sant'Ignazio, dalle foci del Timavo da San Giovanni Tuba, dove sotto una croce consumata dal tempo giaceva il suo corpo anonimo.

A questo punto il compito della commissione giunse al termine, aveva scelto gli undici corpi da portare ad Aquileia. Il 26 ottobre il corteo si mosse verso l'antica colonia romana passando al cospetto del Monte Sabotino e del Monte San Michele, ovunque scene strazianti del dolore materno, silenzi profondi, pianti e canti in onore del protagonista della Vittoria: il Soldato Ignoto.

Nel pomeriggio del 27 ottobre la Canzone del Piave, cantata dalle voce degli alunni delle scuole elementari, accolse l'arrivo del corteo. La prima bara fu portata da alcune madri, le successive a spalla da combattenti e mutilati, tutte ricoperte dalla bandiera tricolore e da un elmetto cinto di alloro.

Senza l'intervento di alcun oratore ufficiale, agli 11 cataletti fu impartita l'assoluzione e poi vennero collocati su due grandi catafalchi, cinque a destra e sei a sinistra dell'altare maggiore della Basilica. Al termine di un semplicissimo rito, il tempio venne fatto sgombrare e per tutta la notte le bare vennero cambiate di posizione, così da essere sicuri che nemmeno una particolare venatura del legno o una posizione di un chiodo, potesse suggerire a qualche addetto ai lavori, su quale fronte fosse stata recuperata quella che da li a poco sarebbe divenuta la salma del Milite Ignoto.

Alle ore 11 del 28 ottobre, Monsignor Angelo Bartolomassi, Vescovo di Trieste, officiò la cerimonia ed al termine, dopo la benedizione dei feretri con l'acqua del Timavo, venne il momento della struggente scelta della salma da traslare a Roma. Tale mesto compito fu affidato a Maria Bergamas di Trieste il cui figlio irredentista Antonio, aveva disertato l'esercito austriaco per arruolarsi come volontario in quello italiano, cadendo in combattimento senza che il suo corpo fosse identificato.

In un silenzio assurdo rotto solo dai colpi a salve dei cannoni, scortata da quattro medaglie d'oro, la donna venne portata al cospetto delle undici bare ed inginocchiandosi davanti all'altare, portò le mani al volto, piegò il capo e piange. Trascorsi alcuni istanti di intensa commozione dove non vi fu lacrima che tenne, da Emanuele Filiberto Duca d'Aosta, Comandante dell'invitta III^ Armata all'ultimo dei soldati, Maria guardò lentamente le 11 bare quasi come avesse deciso di voler prima passare dinanzi ad ognuna, ad interrogare il silenzio, a salutare i corpi che contengono, ma tremante e curva, con movimenti quasi irreali, oltrepassò la prima bara ed improvvisamente cadde in ginocchio davanti alla seconda, alzò un braccio e pronunciando il nome del proprio figlio Antonio, congiunse le mani sulla bara dove depone un velo nero: Maria Bergamas, madre delle madri italiane aveva scelto il rappresentante dei figli d'Italia, sarà quello per l'eternità il Soldato Ignoto.

A questo punto la bara venne chiusa in una seconda di zinco, poi in un terza di quercia i cui quattro angoli erano sostenuti da autentiche bombe a mano trovate sui campi di battaglia, sul coperchio venne fissata un'alabarda d'argento, dono del comune di Trieste ed in una teca d'argento venne collocata una medaglia d'oro, dono dei comuni di Udine, Gorizia ed Aquileia. Trasportata da reduci decorati e più volte feriti, la bara venne caricata su un affusto di cannone trainato da cavalli e depositata su un vagone ferroviario appositamente allestito, su cui fu incisa la citazione dantesca "l'ombra sua torna che era dipartita". Alla presenza di un irrigidito e commosso Duca d'Aosta, al suono de "La Leggenda del Piave", il treno, guidato dal pluridecorato Giuseppe Marcuzzi di Cervignano partì alla volta della Capitale.

Le cronache, le fotografie e le riprese cinematografiche dell'epoca raccontano e mostrano la commozione di centinaia e centinaia di migliaia di italiani che rendono il loro saluto al Milite Ignoto, il commosso saluto di una nazione a tutti i suoi figli perduti, in ogni città, in ogni stazione e lungo tutto il percorso il treno attraversò l'Italia tra due ali di folla inginocchiata, c'erano tutti, l'Italia era unita del dolore, era il viaggio dell'Anima stessa dell'Italia. Treviso, Venezia, Bologna, Firenze, l'Italia era ad attendere.

Giunto a passo d'uomo a Roma, il convoglio raggiunse le stazione Termini, il milite Ignoto fu calato dal carro funebre e trasportato da 12 medaglie d'oro alla Basilica di Santa Maria degli Angeli, dove i romani poterono onorare il soldato senza nome.

Alle ore 9,00 del 4 novembre 1921, terzo anniversario della Vittoria, il feretro fu prelevato dalla Basilica e posato su un affusto di cannone. Il corteo era guidato da un plotone di Carabinieri a cavallo e da un reparto in armi in cui, oltre ad esercito e marina, erano inquadrati ascari eritrei e libici del Corpo delle Truppe Coloniali, Guardia di Finanza ed agenti di Pubblica Sicurezza, seguivano le 753 Bandiere dei reggimenti d'Italia e i gonfaloni dei comuni decorati al Valor Militare, al centro c'era l'affusto di cannone con il Milite Ignoto con a fianco i decorati al Valore, venti madri e venti vedove di guerra, seguito da 1800 Bandiere appartenenti alle Associazioni Combattentistiche.

Alle 10,00 il corteo fece il suo ingresso a piazza Venezia, il rombo dei cannoni sparati da Monte Mario e dal Gianicolo, unitamente alle campane suonate a gloria in tutta l'Italia, accompagnarono il feretro sulla scalinata del Vittoriano, ad attenderlo tutte le autorità militari, politiche e la Real Casa al completo.

Otto decorati portarono a spalla il feretro sotto la statua della dea Roma, il Re fissò con un martello d'oro la medaglia d'oro al Valor Militare conferitagli con la seguente motivazione: "Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde combattendo senz'altro premio sperare che la vittoria e la grandezza della Patria".

Un soldato semplice pose sulla bara l'elmetto del fante, dopodiché il sarcofago venne calato nel sacello e su di esso venne depositata per l'eternità la pietra tombale con incisa la scritta latina "Ignoto Militi".

Erano le ore 10,36 del 4 novembre 1921 e da quell'istante il fuoco eterno arde davanti all'ara.

 

Maria Bergamas, quell'eccezionale e coraggiosa donna che arditamente aveva affrontato la straziante cerimonia nella Basilica di Aquileia, morì nel 1952 a Trieste, ma dovette attendere per due anni il rientro della città giuliana all'Italia, affinché si potesse esaudire il suo ultimo desiderio: essere sepolta per sempre accanto ai suoi dieci figli.

Sulla tomba dietro il tempio aquileiense, sotto la statua del Cristo che distoglie una mano dalla croce per carezzare il soldato ferito, a perenne ricordo venne fissata un'iscrizione "MARIA BERGAMAS PER TUTTE LE MADRI - IV NOVEMBRE MCMLIV".

Mai iscrizione fu più degna.

 

 

 

 

 
 
 

Lo scognomato, breve biografia di Corrado Mantoni

Post n°6 pubblicato il 26 Aprile 2010 da aleitalia78
Foto di aleitalia78

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Così fu soprannominato Corrado da Totò, a causa del solo nome di battesimo usato come nome d'arte ed ora, a vent'anni dalla sua scomparsa, Corrado Mantoni è ancora per tutti Corrado e basta.

Nato il 2 agosto del '24, appena ventenne, si dedicò al mondo dello spettacolo, raccontando agli italiani attraverso la radio americana in Italia drammi, tragedie e sofferenze della Seconda Guerra Mondiale, nel 1944 inventa il primo show radiofonico con “Radio Naja”, storie dei soldati al ritorno dal fronte, nel '49 sostituisce Mario Riva in “Oplà”, nel '51 inventa il primo varietà di successo della radio italiana: “Rosso e Nero”.

Nonostante il passaggio alla televisione fu ostacolato dai dirigenti della radio, che vedevano la TV come la concorrenza all'interno della stessa RAI, nel 1949 fu il primo presentatore a comparire davanti agli schermi sperimentali alla Triennale di Milano , gli anni seguenti lo videro trasmettere i suoi programmi radiofonici in televisione, divenne il presentatore ufficiale di tutte le più importanti manifestazioni italiane, nel 1961 presenta “Controcanale” e poi “L'amico del giaguaro”, “il Tappabuchi”, “Trottola”, “Su e giù”, “Corrado fermo posta” e “La prova del nove”, il 1968 vede la nascita de “La Corrida” radiofonica, radio che non lascia fino agli anni '80. Conduce le più belle “Canzonissima” della storia, nel 1974 è la volta di Sanremo e nel '76 si inventa “Domenica in...” ed una serie di proposte radiofoniche. Nel 1978 assieme alla sua compagna Marina Donato e la soubrette Dora Moroni, ebbe un gravissimo incidente automobilistico, dal quale si salvò subendo varie e rischiose operazioni, ma nel 1982 porta al successo con Raffaella Carrà e Gigi Sabani “Fantastico 3”, ultimo suo lavoro in RAI.

Le lodi di Silvio Berlusconi lo attraggono verso la nascente concorrenza, che portano a reinventarsi la fascia di mezzogiorno su Canale 5, con quello che è definito uno dei programmi televisivi più amati e longevi della televisione: “Il Pranzo è Servito”, nel 1983 è la volta i “Ciao Gente” e l'anno successivo con Maurizio Costanzo presenta “Buona Domenica”.

Ma è il 1986 quando porta in televisione “La Corrida”, il suo storico programma che ancor oggi miete successi, le edizioni del 1996 e '97 superarono per la prima volta il concorrente programma di punta del sabato sera della RAI abbinato alla Lotteria Italia, per 7 anni consecutivi dal 1993 Corrado è autore e conduttore del “Gran Premio Internazionale della TV”, nel 1991 e seguenti inventa, per Paolo Bonolis, “Tira e Molla” e “Il Gatto e la Volpe”.

Nell'ultima puntata de “La Corrida” dell'edizione 1997, all'insaputa di autori e produttori si congeda dal grade pubblico recitando con gli occhi lucidi e visibilmente commossi questa poesia:

«Abbiamo cominciato un po’ in sordina questa Corrida, decima edizione. Ci siamo detti:“moh, andrà come prima”. E invece è stato un vero successone. Non è che prima avesse brutti ascolti, no.. Si sa che si è difesa sempre bene, ma mai come quest’anno, a conti fatti, davvero in tanti siamo stati insieme. Abbiamo fatto un record di ascolti, e sotto sotto, è dispiaciuto a molti. Ospiti illustri contro strana gente, che quasi sempre non sa fare niente. Ma poi, come è finita lo si sa: ha vinto questo nostro varietà e dico varietà, badate bene, e fatto pure come tivù comanda. Perché vi giuro, ho un po’ le tasche piene, di udire la peggiore delle offese che alla Corrida fanno la domanda (come qualcuno scrisse a suo tempo), soprattutto gli scemi del paese. E’ gente che si vuole divertire. Hanno una dote che non è pazzia, e ce l’hanno in pochi: si chiama autoironia! In quanto a me, sono stato fortunato perché ho trovato collaboratori che forse più di me hanno sudato e più di me meritano gli allori. Sono tanti e i nomi non li posso fare, vorrei, ma finirei con l’annoiare. E’ andata bene pure grazie a loro perché un successo non si fa da solo. E adesso la Corrida finirà, forse per sempre, forse, chi lo sa..? Qualcuno, e questa è ormai un’istituzione tra un poco ne farà un’imitazione. Pazienza, io mi sono divertito per tanti anni ed è arrivato il tempo di dare il mio commosso benservito, ma chi lo sa se poi non me ne pento? Lo so, mi mancherete e pure tanto. E se c’è stato uno scemo del paese Oh! M’ha insegnato, non sapete quanto, a sorridere e a non aver pretese»

Nel 1998 si ammala gravemente. Le sue ultime apparizioni televisive risalgono all'inverno '98 con Mike Bongiorno e Raimondo Vianello con Maurizio Costanzo ed Enrico Mentana nella trasmissione “I Tre Tenori” ed infine il 5 dicembre dello stesso anno con l'amica di sempre Raffaella Carrà nella trasmissione “Carràmba che sorpresa”.

Morì l'8 giugno 1999 a Roma, in seguito ad un tumore ai polmoni.

 

Ciao Corrado e grazie per averci insegnato a sorridere.

 
 
 

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