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A QUALCUNO (NON) PIACE (IL) CAL...CIO 4

Post n°558 pubblicato il 08 Ottobre 2014 da mrjbigmat

Cap 4 (dove comincia qualche ripetizione dovuta a vari cambiamenti).

Tutto quello che volevo fare, nella vita, era suonare la mia tromba, vivere della mia musica. Ma a modo mio, quando ne avevo voglia e con chi mi andava. Io e la mia tromba e nient’altro. Come Miles Davis, il mio idolo, il più grande di tutti. Purtroppo per me però io sono solo Stefano Biondi. Gli amici, quando ancora ne avevo, mi chiamavano Cet, come Chet Baker, un altro grande trombettista, che per il suo aspetto era considerato il James Dean del jazz. Il soprannome risale a quando il mio amico Ale si era messo in testa di farmi da manager e gli era venuta l’idea di lanciarmi come il Chet Baker italiano. Devo dire che, non so come, funzionò. La suggestione della musica, la penombra, un sapiente gioco di luci, qualche donna che cominciò a sospirare e il gioco era fatto. Da allora, per tutti, anche se non suono più, sono Cet.

Come tutto questo mi abbia condotto alla situazione attuale è una storia lunga e difficile da credere. Così incredibile che, in questo momento, anche la portinaia del palazzo dove abito, che come tutte le portinaie del mondo non si fa sfuggire nulla, anche lei dicevo, sbirciando dalla finestra, si starà chiedendo cosa c’entra la mia tromba con quella folla di brutti ceffi assatanati, una ventina di uomini della CIA, una dozzina di sicari della ‘ndrangheta, un paio di robot e agenti di tutti i corpi di sicurezza dello Stato. Anche a lei sta sulle palle la mia tromba, ma lo spiegamento di forze deve sembrarle un tantino esagerato. E anche a voi che ancora non mi conoscete deve sembrare un po’ strano.

La prenderò da lontano e vi dirò che è tutta colpa del talento, di quello che uno ha e, soprattutto, di quello che uno non ha. Il mio problema era che suonavo bene, ma non abbastanza da farmi perdonare la mia incostanza. Diciamo che il mio genio non era tale da farmi perdonare la mia sregolatezza. E nella mia situazione hai due strade: o continuare a credere in te e in quello che fai e rischiare di affogare o non provarci proprio e rientrare nei ranghi. Ero consapevole dei miei limiti, ma il problema era che il resto, al di fuori della mia tromba intendo, la cosiddetta normalità, era per me come un giornale stinto dalla pioggia: incomprensibile e inutile.

Perché il talento va dove vuole. Come tutti sanno, il talento è un dono, ma è anche un castigo, una maledizione, perché da solo non basta, a meno di non averne tanto, tanto da far male. A meno, cioè, di non essere come Miles che se ne fotteva del resto, se ne fotteva di tutto quello che serviva ai comuni mortali, di quelle tre cose che fanno la differenza fra chi ce la fa e chi annega: tecnica, applicazione e culo. Per lui esisteva solo la sua tromba. E il suo talento. Immenso. Miles non si esercitava, lui suonava e basta, all’eterna ricerca di qualcosa. Negli ultimi tempi, si esibiva di spalle al pubblico. Il suo pubblico era da qualche altra parte, in un posto che vedeva solo lui. Ho sempre pensato che volesse dire: fate silenzio, basta rumore, ci provo io a parlarci. Ma nemmeno lui ci riusciva. Forse perché di là non c’è nessuno con cui parlare. Le note andavano sempre più profonde e lontane, ma tornavano vinte, irrimediabilmente consumate dal vuoto.

Scusate la divagazione, conoscendomi vi avviso che non sarà la prima, so che vi starete già chiedendo cosa c’entra Miles Davis con la Cia e tutto il resto? Sapete, ogni tanto me lo chiedo anch’io e spesso perdo il filo, ma poi lo ritrovo e tutto mi sembra chiaro, anzi quasi obbligato. Quello che vi chiedo è solo un po’ del vostro tempo, pazienza, due buone orecchie e vi garantisco che saprete tutto.

I fatti che vi sto per raccontare mi colsero probabilmente nel mezzo.

 E poi c’è un altro talento che bisogna avere nella vita: nascere nel posto giusto e a me il meno che si possa dire è che non è toccato di nascere nella patria del jazz[is2]. Se nasci e vivi in una città come la mia, infatti, vivere suonando la tromba è probabile quanto un neonato con un dente del giudizio. Cosenza è una città del sud d’Italia come tante altre, ne tanto meglio, né tanto peggio delle altre, una città in cui qualsiasi cosa fai ha un peso minimo, irrilevante, nella vita e nella storia del mondo. La differenza sta solo in chi se ne accorge e chi invece pensa di cambiare i destini dell’umanità o dà l’impressione di pensarlo. Una città da cui andare via al più presto se si desidera vivere la vita a modo proprio[is3] .

 Ma qualche volta capita anche alle città ‘normali’ di diventare teatro di esperienze notevoli e io sono qui per raccontarvela.

Come tutti sanno, la distanza più breve fra due punti è la linea retta, ma quella è geometria e questa invece è vita. Se andassi diritto, infatti, voi non capireste quasi niente e, in ogni caso, vi perdereste tutto il gusto. Quello che posso fare per voi è andare avanti a modo mio, con curve, soste, deviazioni e tutti gli imprevisti di un viaggio. Mi piacerebbe che lo vedeste come un assolo di tromba[is4] . La speranza è che, almeno per una volta, si avvicini a quelli del grande Miles, ma so che quello che vi posso  promettere è soltanto che ogni nota, anche se sarà lunga e ripetuta, per un orecchio poco allenato o solo distratto, a volte, addirittura superflua,[is5]  ogni nota conquistata, dicevo, sarà un passo per colmare la distanza fra i due punti, quello iniziale e quello finale, che ora sembra tanto ampia, tanto ampia da farli apparire due punti che corrono su due rette parallele, destinate a non incontrarsi mai. Alla fine però, anche se pochi lo sanno ma anche due rette parallele, se non le si consideri sul piano euclideo, finiscono per incontrarsi.

Allora, è arrivato proprio il momento di iniziare sul serio. Punto di partenza, o forse è meglio dire, prima nota[is6] : Miles.

È quello il punto iniziale perché è chiaro come la luce di un giorno di mezza estate, e Shakespeare mi perdoni per l’indegno uso che faccio delle sue parole, che se avessi avuto il talento di Miles[is7]  non avrei avuto bisogno di lavorare nella ‘Mundus Mundus spa’, o che comunque non ci avrei mai lavorato.

La ‘Mundus’ è[is8]  una multinazionale americana che da due anni ha aperto una filiale proprio nella mia città. Ancor oggi occupano un appartamento al secondo piano di un bel palazzotto al centro[is9] , nella zona di edilizia di epoca fascista, caratterizzata da costruzioni semplici e lineari.

È uno di quei posti in cui tutti scimmiottano la casa madre,  e per uno come me sarebbe stato difficile sopportare gli originali, figurarsi i replicanti. Per capirci meglio è un ambiente pieno di quelli che invece di dire: ‘abbiamo una riunione per decidere i nostri obbiettivi’, dicono: ‘è in schedule un briefing per riformulare la mission’, che ti viene automatico rispondere con la voce di Alberto Sordi: “oh yeahh, wots american bois”. All’ingresso c’è un manifesto giallo con la frase Your attitude will determine your success. Musica a tutto volume per caricarsi, tutti sempre di corsa, frase simbolo: vogliamo il 110%. Non ho mai capito che cazzo volesse dire. Ma il vero protagonista era il mostro: Goty, una specie di robottino dalla mille funzioni che veniva venerato come una divinità e non considerato semplicemente per quello che era: il più efficace strumento di pulizia di ambienti chiusi presente in quel momento sul mercato.

La mitizzazione di Goty era la vera, unica filosofia, il pensiero dominante, che percorreva l’azienda dal grande capo agli addetti alle pulizie. Tutti in Mundus sapevano, o erano presto indotti a sapere, che quel mostriciattolo era l’essere più caro a Johann Baltis, il grande capo della multinazionale.

 
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