Creato da VIETCONG.1973 il 29/06/2013

OTTOBRE ROSSO.

SI RIPRENDE ...

 

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Post n°168 pubblicato il 12 Dicembre 2013 da VIETCONG.1973

L’irresistibile leggerezza del debito

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Se Omero avesse con­ce­pito l’Odissea nel 2013, pro­ba­bil­mente non avrebbe scelto la roc­cia per descri­vere la com­po­si­zione «dell’immane maci­gno (…) che Sisifo (…) facendo forza con ambe le mani ed i piedi su su fino alla vetta spin­geva, ma quando già supe­rava la cima, lo cac­ciava indie­tro una forza». “Sisifo” è oggi infatti ogni cit­ta­dino, fami­glia ed impresa che da quasi cin­que anni si spe­ri­menta inin­ter­rot­ta­mente con stra­te­gie di recu­pero eco­no­mi­che, impren­di­to­riali e psi­co­lo­gi­che, di fronte al più vio­lento e deva­stante dis­se­sto eco­no­mico e reces­sivo ini­ziato nell’agosto del 2008.
“Sisifo” per­ché se gra­zie al volano pla­ne­ta­rio dell’interconnessione economico-finanziaria, cit­ta­dini ed imprese hanno bene­fi­ciato e si sono arram­pi­cati per tassi di svi­luppo e di benes­sere dif­fuso e mul­ti­di­men­sio­nale un tempo proi­bi­tivi per eco­no­mie a corta git­tata, da quello stesso domino glo­ba­liz­zato sono poi stati tra­volti.
A fronte di spesso evo­cati buchi neri quali la disoc­cu­pa­zione e la reces­sione, un altro blac­khole com­pone e anima il diso­rien­tante maci­gno dell’ “odis­sea eco­no­mica”: quello dei titoli di cre­dito pro­te­stati. Per un valore com­ples­sivo di 3,4 miliardi di euro, sono 1.408.071 le levate di pro­te­sto del 2012: come a dire che ognuno di noi ha in tasca un debito ine­vaso di 57 euro (Istat, 2013). I vaglia cam­biari o pagherò e le cam­biali tratte accet­tate, in cre­scita rispetto al 2011 (+5,3%), rap­pre­sen­tano con il 73,4%, il titolo di cre­dito pro­te­stato che mag­gior­mente col­pi­sce la sol­vi­bi­lità di chi si è inde­bi­tato.
Inse­guono a distanza gli asse­gni che sono il 22,2% dei titoli pro­te­stati – in dimi­nu­zione sul 2011 (-8,5%) e infine le cam­biali tratte non accet­tate (4,4%), in calo ten­den­ziale dello 0,5%.
L’affanno nell’onorare le sca­denze di paga­mento, che non rispar­mia la cit­ta­di­nanza ma nean­che le imprese, rivela un’asfissia eco­no­mica che strozza con sem­pre mag­gior evi­denza pro­prio i pic­coli paga­tori: aumenta infatti il numero di pro­te­sti, ma ne dimi­nui­sce l’importo medio (-9,3% rispetto al 2011), con un calo gene­ra­liz­zato che ha coin­volto 15 regioni su 20.
Il 41,3% dei titoli di cre­dito pro­te­stati non supera i 500 euro (+0,7 punti sul 2011) e il 25,5% sta­ziona fra i 500 e i 1.500 euro (+1,3% sul 2011). Sono il Sud (33,4%) e il Cen­tro (25,0%) le ripar­ti­zioni geo­gra­fi­che con il mag­gior numero di pro­te­sti levati nel 2012 (rispet­ti­va­mente 469.845 e 351.444), seguite dal Nord-Ovest (20,7%), dalle Isole (11,9%) e dal Nord-Est (9,0%).
Il pre­oc­cu­pante pri­mato dell’ammontare medio più ele­vato spetta alle Mar­che (2.937 euro con­tro i 2.412 a livello Ita­lia), che pre­ce­dono il Molise (2.876), la Lom­bar­dia (2.823) e il Veneto (2.798). Sono invece i 1.714 euro della Ligu­ria l’importo medio più «contenuto». (…)

La ver­sione inte­grale dell’articolo è su www​.sbi​lan​cia​moci​.info

red. - il manifesto

 
 
 

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Post n°167 pubblicato il 11 Dicembre 2013 da VIETCONG.1973

Non c’è più tempo

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Certo che qualche domanda vien proprio da farsela. Perché i grandi giornali e le grandi televisioni, in prima fila quelli della destra e della grande borghesia, questa volta non stanno suonando i tamburi dell’allarme al terrorismo?

Le proteste che divampano in diverse città italiane – oggi – sono guardate con strana imparzialità, se non con simpatia.

Dove sono finiti quei giornalisti che di fronte alle mobilitazioni contro la Tav, alle nostre lotte nelle Università, alle occupazioni delle scuole, agli scioperi dei metalmeccanici, ai picchetti anti-sfratto parlavano di “pericolo insurrezionalista”, di “terroristi”? Che seminavano ovunque panico, psicosi da rivoluzione?

Spariti, non ci sono (quasi) più. Soprattutto i giornali di destra.

E contemporaneamente pure i poliziotti a Torino si tolgono i caschi, solidarizzando.

E contemporaneamente scendono nelle piazze alcune curve organizzate e – fuori e dentro le curve – gruppi di estrema destra: c’è Forza Nuova, c’è Casa Pound, c’è la Destra di Storace, c’è un gruppo chiamato la “Lega della Terra”, agghiacciante amarcord nazionalsocialista.

E poi c’è Grillo, il populista Grillo, il comico neo-nazionalista che invita il movimento a non fermarsi e le forze dell’ordine a “non difendere più i politici”.

Che cosa sta succedendo nel nostro Paese? Che aria tira?

Tira l’aria di un movimento eterogeneo, senza un programma di classe, senza un progetto di trasformazione democratico e progressista, senza un modello di società avanzato. E qui dentro, tra chi ha in mano le redini e chi affianca, tra chi promuove e chi partecipa, c’è tanta destra sociale, tanti rigurgiti neofascisti. Quelli che hanno interesse a indirizzare il malcontento verso una rivolta contro i partiti, i sindacati, l’apparato democratico prima ancora che le sue burocrazie. Insomma: che hanno interesse a distruggere in maniera classicamente eversiva pezzi di un sistema che va già a rotoli da solo.

Tutto questo è presente in una misura sufficiente da imporci una riflessione. Perché il punto vero è un altro, chiarito che in piazza non c’è più il movimento di Seattle o quello di Genova, e neppure il sindacalismo di classe e di massa organizzato.

Il punto vero è che la crisi è devastante, divora il lavoro, divora le vite di milioni di persone disperate, precipitate nella povertà e nel disagio più nero. Divora le vite persino di un pezzo importante di classe media, che ha motivi e ragioni validi per entrare in conflitto con l’ordine delle cose.

Questo è lo snodo che abbiamo di fronte a noi. Perché nella persistente assenza di un’alternativa forte e credibile, questo è lo sbocco inesorabile.

Lo abbiamo detto tante volte: dalla crisi del neoliberismo non è per nulla scontato che si esca a sinistra. Se la sinistra soggettivamente non si organizza, dalla crisi del neoliberismo si esce anche a destra, nella rabbia e nella rivolta incontrollata.

Che è la precondizione – questo lo sappiamo bene – per l’emergere di un nuovo ordine forte, autoritario, di una riorganizzazione dei poteri forti contro le soggettività di classe organizzate.

Una volta chiarito quel che oggi c’è in campo, dobbiamo pensare a noi. E rapidamente agire.

Nessuno oggi, a sinistra, è in grado di dare una risposta credibile a questa sofferenza sociale diffusa. Nessuno è in grado di dare uno sbocco alternativo e credibile a questi sommovimenti.

Non può farlo il nuovo Pd centrista al governo con il nuovo Centrodestra centrista. Non possono farlo, sole, formazioni politiche ridotte al lumicino, sia che siano posizionate in Parlamento sia che ne siano ad oggi escluse.

Non può farlo – da solo – un sindacato ingessato, non del tutto autonomo, blindato nella concertazione. E non possono farlo organizzazioni sindacali di base troppo fragili per assumersi un compito di guida e di trasformazione.

Qui, anche qui, vive il bisogno del salto di qualità, della coraggiosa capacità di mettersi tutti a disposizione di un nuovo percorso, di lotta e di organizzazione.

La società non aspetta più, non c’è più tempo.

Simone Oggionni - www.reblab.it

 
 
 

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Post n°166 pubblicato il 10 Dicembre 2013 da VIETCONG.1973

Rosso Mandela

Il Partito comunista sudafricano e l’Anc rivelano: quando fu arrestato, nel ’62, Madiba era un membro del comitato centrale del partito Sacp, allora clandestino. L’ex leader della lotta anti-apartheid aveva sempre negato, sia durante il processo di Rivonia che dopo la liberazione

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Nel­son Man­dela fu un comu­ni­sta? Pare pro­prio di sì. Una delle più grandi scia­rade, se non la più affa­sci­nante che ha accom­pa­gnato que­sti primi vent’anni di vita della gio­vane demo­cra­zia suda­fri­cana – fu o no Man­dela un comu­ni­sta? — con­clude anche i primi quat­tro lustri di post-apartheid con que­sta sua non poi così sor­pren­dente e inat­tesa solu­zione. A rive­larlo aper­ta­mente per la prima volta è stato sia il par­tito di Joe Slovo e Chris Hani, vale a dire il South Afri­can Com­mu­nist Party (Sacp), sia l’Afican Natio­nal Con­gress (Anc) — il par­tito di Madiba — di cui que­sti divenne espo­nente nel 1942 rico­prendo nel tempo diverse cari­che di lea­der­ship.
La rive­la­zione uffi­ciale è tra­pe­lata som­mes­sa­mente, affi­data a poche righe dei comu­ni­cati di entrambi i par­titi all’indomani della sua morte. Con un’enfasi man­cata che ricalca ancora di più la noti­zia. «Al suo arre­sto nell’agosto del 1962, Nel­son Man­dela non era solo un mem­bro dell’allora clan­de­stino South Afri­can Com­mu­nist Party, ma era anche un mem­bro del Comi­tato Cen­trale del nostro par­tito. Per noi comu­ni­sti suda­fri­cani, il com­pa­gno Man­dela sim­bo­leg­gerà sem­pre il con­tri­buto monu­men­tale del Sacp nella nostra lotta di libe­ra­zione. Il con­tri­buto dei comu­ni­sti nella lotta per otte­nere la libertà suda­fri­cana ha ben pochi paral­leli nella sto­ria del nostro Paese. Dopo il suo rila­scio dal car­cere nel 1990, il com­pa­gno Madiba è diven­tato un grande e stretto amico dei comu­ni­sti fino ai suoi ultimi giorni».
Dichia­ra­zioni del South Afri­can Com­mu­nist Party con­fer­mate paral­le­la­mente da quelle dell’Anc nel suo annun­cio uffi­ciale della morte del primo Pre­si­dente nero e demo­cra­ti­ca­mente eletto: «Madiba è stato anche un mem­bro del South Afri­can Com­mu­nist Party, in cui ha pre­stato ser­vi­zio nel Comi­tato Cen­trale».
«La scom­parsa del com­pa­gno Man­dela segna la fine della vita di uno dei più grandi rivo­lu­zio­nari del XX secolo che hanno com­bat­tuto per la libertà e con­tro ogni forma di oppres­sione nei loro paesi e nel mondo. Come parte delle masse che fanno la sto­ria, il con­tri­buto del com­pa­gno Man­dela nella lotta per la libertà si è col­lo­cato e pre­pa­rato all’interno dell’adesione col­let­tiva e della lea­der­ship del nostro movi­mento rivo­lu­zio­na­rio di libe­ra­zione nazio­nale gui­dato dall’Anc. Nel com­pa­gno Man­dela ave­vamo un sol­dato valo­roso e corag­gioso, patriota e inter­na­zio­na­li­sta che, per dirla con Che Gue­vara, era un vero rivo­lu­zio­na­rio gui­dato da grandi sen­ti­menti d’amore per la sua gente», con­ti­nua il Sacp nella sua orgo­gliosa sep­pur tarda riven­di­ca­zione di Nel­son Man­dela quale suo espo­nente di primo piano.
Le dichia­ra­zioni del Sacp sono state riba­dite dal vice segre­ta­rio gene­rale del South Afri­can Com­mu­nist Party, Solly Mapaila, il quale ha aggiunto come non solo Man­dela ma tutti gli impu­tati insieme a lui nel pro­cesso di Rivo­nia erano mem­bri del South Afri­can Com­mu­nist Party, affi­lia­zione sem­pre negata «per ragioni poli­ti­che». «All’epoca c’era stata un’enorme offen­siva da parte dell’oppressivo régime dell’apartheid con­tro i comu­ni­sti. L’Anc era raf­fi­gu­rata come un’organizzazione comu­ni­sta, cosa che non era». Quando nel 1990 Nel­son Man­dela fu rila­sciato dalla pri­gione, l’Unione Sovie­tica si stava sgre­to­lando e «c’era molta nega­ti­vità attorno al sistema sovie­tico», ragion per cui valse la nega­zione di ogni appar­te­nenza al Par­tito comu­ni­sta del futuro primo Pre­si­dente nero suda­fri­cano eletto nel 1994. Que­stione liqui­data con l’invito a lasciar stare per ora il dibat­tito e con­cen­trarsi invece sulla per­dita del «vec­chio uomo».
Seb­bene nel tempo diversi sto­rici e stu­diosi abbiano sug­ge­rito gli stretti legami tra Man­dela e il Sacp, que­sto non era mai prima d’ora stato né rive­lato uffi­cial­mente né pro­vato. Nel 2012 era stato lo sto­rico bri­tan­nico Sthe­phen Ellis nel suo libro Exter­nal Mis­sion: The Anc in Exile a por­tare alla luce nuova docu­men­ta­zione che rive­le­rebbe l’affiliazione di Man­dela ai ver­tici del Sacp per otte­nere il soste­gno delle potenze comu­ni­ste nella lotta di resi­stenza armata dell’Anc con­tro il régime della mino­ranza bianca. La prova ripor­tata dal prof. Ellis sarebbe uno stral­cio di un ver­bale – ritro­vato in una col­le­zione di carte pri­vate presso l’Università di Cape Town — di una riu­nione segreta del Sacp tenu­tasi il 13 mag­gio del 1982 in cui un ex mem­bro del par­tito, John Pule Motshabi, rivela come Man­dela fosse dagli inizi degli anni ’60 — all’epoca in cui era anche coman­dante della orga­niz­za­zione per la guer­ri­glia Umkhonto we Sizwe (Lan­cia della Nazione) — un mem­bro del par­tito comu­ni­sta. Affi­lia­zione che Man­dela ha sem­pre negato sia durante il pro­cesso di Rivo­nia che dopo la sua libe­ra­zione nel 1990.
Non dimen­ti­chiamo che, ban­dita dal governo dell’apartheid nel 1960, gran parte della lea­der­ship dell’Anc fuggì in esi­lio a Mosca e nei campi di adde­stra­mento mili­tare nei Paesi afri­cani pro-sovietici come l’Angola. E che varie ammi­ni­stra­zioni ame­ri­cane, in par­ti­co­lare quella di Ronald Rea­gan nel 1980, soste­ne­vano il governo dell’apartheid come baluardo regio­nale con­tro il comu­ni­smo.
Intanto, men­tre con inni, lodi e canti di gioia la società mul­ti­raz­ziale della Rain­bow Nation da gio­vedì 5 dicem­bre, con­ti­nua a ren­dere omag­gio al fon­da­tore della demo­cra­zia nel Paese arco­ba­leno, oggi i capi di stato del mondo si inchi­nano alla sua ret­ti­tu­dine di lea­der e com­bat­tente. E comu­ni­sta? Il mini­stero degli Esteri suda­fri­cano ha infatti comu­ni­cato che circa 91 attuali capi di Stato o di governo hanno con­fer­mato la loro par­te­ci­pa­zione per oggi alla com­me­mo­ra­zione fune­bre presso lo sta­dio Fnb di Johan­ne­sburg, insieme a «10 ex capi di Stato, 86 capi delle dele­ga­zioni e 75 per­sone emi­nenti». Tra que­sti, il pre­si­dente degli Stati Uniti Barack Obama, Fran­cois Hol­lande, David Came­ron, Enrico Letta e pro­ba­bil­mente Raul Castro. Degli gli ex pre­si­denti degli Stati Uniti invece ci saranno George W. Bush, Bill Clin­ton e Jimmy Car­ter. Non saranno pre­senti invece il pre­mier e il pre­si­dente israe­liani Ben­ja­min Neta­nyahu e Shi­mon Peres, che da mini­stro della Difesa nel 1970 sostenne legami mili­tari e com­mer­ciali con i gover­nanti bian­chi del Sud Africa. Per i pale­sti­nesi invece, che con­si­de­rano Man­dela fonte di ispi­ra­zione, sarà pre­sente il pre­si­dente Mah­moud Abbas.

Rita Plantera - il manifesto

 
 
 

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Post n°165 pubblicato il 09 Dicembre 2013 da VIETCONG.1973

L’indicatore

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Mettere all’indice qualcuno, sottoporlo al pubblico ludibrio e alla schedatura – come fa Beppe Grillo sul suo blog – è sempre un meccanismo pericoloso.

Ancor più pericoloso se a praticarlo è il leader di un partito politico che in questo momento rappresenta quasi un terzo del Paese.

Antidemocratico e addirittura squadrista se lo si fa dal megafono di riferimento del proprio partito, un blog che ogni giorno viene letto e diffuso da milioni di utenti.

Oggi Grillo attacca la giornalista dell’Unità, Maria Novella Oppo, inaugurando la rubrica “Giornalista del giorno”: foto segnaletica e populismo per screditare chi, semplicemente, non la pensa come il leader dei Cinque Stelle.

Un metodo rodato, tipico delle peggiori dittature della Terra: non c’è nessuna democrazia nella demonizzazione dei propri avversari. Non c’è critica che tenga e non si fa un buon servizio ai propri elettori, che sono a loro volta vittime di “sloganismo demagogico”, in operazioni di questo tipo.

Non è la prima volta che Beppe Grillo attacca la stampa utilizzando strumentalmente il tema dei “giornalisti casta e servi del potere”: la spada del novello censore non ha risparmiato nemmeno i precari, i più esposti e meno tutelati del sistema giornalistico italiano.

Oggi è la volta di Maria Novella Oppo: a lei e a tutta la redazione dell’Unità va la solidarietà di Esse.

Sinistra vuol dire rispetto dei propri avversari, del lavoro e della libertà di opinione. Sempre.

Diversamente parliamo di fascismo, e questo non possiamo tollerarlo.

Valeria Calicchio - Esse blog.it

 
 
 

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Post n°164 pubblicato il 08 Dicembre 2013 da VIETCONG.1973

Gli effetti perversi della privatizzazione del welfare

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A dispetto di luoghi comuni molto in voga il settore pubblico italiano non è né sovradimensionato né improduttivo. Così come non è vero che le politiche di “privatizzazione del welfare” contribuiscono a generare crescita: ciò che riescono a fare davvero bene è redistribuire il reddito dal lavoro al capitale.

L’Italia è un Paese corporativo, con una incidenza eccessiva del settore pubblico: un Paese nel quale il “merito” non viene premiato e che, per questa ragione, non riesce a riprendere un percorso di crescita economica. Un settore pubblico sovradimensionato è la principale causa del declino dell’economia italiana. E’ questa l’opinione dominante, ed è sulla base di questa convinzione che si è attuato – e si sta attuando – il progressivo smantellamento delle residue reti di protezione sociale derivanti dal residuo di welfare rimasto in Italia. In parte l’obiettivo è stato raggiunto: nell’ultimo Rapporto Eurostat, si legge che il blocco del turnover nel pubblico impiego, combinato con una consistente ondata di pensionamenti, ha prodotto, nel solo 2012, una riduzione del numero di dipendenti pubblici nell’ordine del 4%. La riduzione della spesa corrente nel settore pubblico è un fenomeno che si accentua progressivamente a decorrere dall’inizio degli anni Duemila.

L’attacco al settore pubblico – giacché di attacco si tratta – è sostenuto da motivazioni di dubbia validità.

1) Il settore pubblico è considerato, per sua stessa natura, “improduttivo”. I dipendenti pubblici sono, quasi per definizione, fannulloni che godono di garanzie eccessive, tutelati da organizzazioni sindacali “corporative”, dove la connotazione “corporativo” è ipso facto associata a un giudizio di valore di segno negativo, essendo la negazione della “meritocrazia”. Il senatore Ichino si è espresso, a riguardo, a chiare lettere: “perché nessuno propone di liberare gli uffici dai fannulloni, che nel settore privato sarebbero già stati licenziati da un pezzo?” (http://www.pietroichino.it/?p=24).

In questa visione, il mercato del lavoro assume una configurazione duale: da un lato, i dipendenti pubblici con eccesso di protezioni; dall’altro i dipendenti del settore privato meno protetti e, per questa ragione, più produttivi. Giacché l’inamovibilità non incentiva l’impegno, che è, per contro, incentivato solo da credibili minacce di non rinnovo del contratto. Il conflitto viene, così, traslato in senso “orizzontale”, spostandosi dal conflitto capitale-lavoro (relegato nell’archeologia marxista) al conflitto fra lavoratori.

E tuttavia, la convinzione che i dipendenti pubblici siano ben retribuiti e godano di eccesso di protezioni è palesemente smentita sul piano empirico. L’ISTAT registra un aumento della retribuzione oraria netta del 21% su base annua per i lavoratori del settore privato, a fronte di incrementi pressoché nulli nel settore pubblico. E si calcola che la gran parte dei contratti a tempo determinato sono somministrati dalla pubblica amministrazione. Dunque, i dipendenti pubblici, in media, guadagnano meno dei loro colleghi del settore privato e sono più frequentemente assunti con contratti precari. In più, si registra che l’Italia, per quanto attiene all’incidenza degli occupati nel settore pubblico, sul totale degli occupati, è nella media dei Paesi OCSE e che, dunque, il nostro settore pubblico non può considerarsi sovradimensionato.

Per quanto riguarda la produttività del lavoro nel settore pubblico, pure a fronte delle rilevanti difficoltà di misurazione, e pur volendo accettare la tesi che questa è più bassa rispetto al settore privato, occorre ricordare che l’operatore pubblico svolge, di norma, le proprie funzioni in quelle che William Baumol definiva “attività stagnanti”, ovvero attività nelle quali (si pensi ai servizi alla persona) risulta impossibile generare avanzamento tecnico e, dunque, incrementi di produttività. In tal senso, se anche si ritiene i) che la produttività del lavoro è misurabile; ii) che lo è anche nei servizi e che è bassa nel settore pubblico, da ciò non si può immediatamente dedurre che questa conclusione discende dal basso rendimento degli occupati, potendo più realisticamente dipendere dalla bassa accumulazione di capitale.

2) Se il settore pubblico genera solo sprechi e inefficienze, e se si ritiene non derogabile il rispetto del vincolo del bilancio pubblico[3], è evidente che i risparmi dello Stato non possono che derivare innanzitutto dalla riduzione dei trasferimenti al settore pubblico. Le spending review sono lo strumento che si utilizza per raggiungere questo obiettivo, ovvero operazioni finalizzate a “razionalizzare” (si legga ridurre) la spesa pubblica. Lo sono apparentemente perché non si tratta di ridurre la spesa pubblica “improduttiva”, ma semmai di ridurre i trasferimenti ai segmenti della pubblica amministrazione con minore potere contrattuale nella sfera politica e, dunque, con minore possibilità di contrastare i tagli, indipendentemente dalla loro produttività.

Quali sono gli effetti di queste misure? Come certificato dall’INPS, il primo (ovvio) effetto prodotto è la riduzione delle entrate fiscali. Si tratta di un effetto ovvio e, dunque, ampiamente prevedibile, dal momento che dalla riduzione dell’occupazione nel settore pubblico (e dal blocco degli stipendi) non ci si poteva certamente aspettare di raccogliere un gettito in aumento. Il secondo (altrettanto prevedibile) risultato consiste nell’accentuazione della caduta della domanda interna, per il tramite dei minori consumi derivanti dalla decurtazione dei redditi nel pubblico impiego. Il terzo risultato è il peggioramento della qualità dei servizi offerti, come conseguenza (anch’essa ovvia) della riduzione del numero di occupati.

A fronte dell’opinione dominante, si può sostenere che la cura dimagrante imposta al settore pubblico non risponde a criteri di efficienza, né all’obiettivo di generare avanzi primari. Lo scopo primario è fornire quote di mercato al capitale privato in settori protetti dalla concorrenza: tipicamente formazione e sanità. Non essendo competitive sui mercati internazionali, e scontando una continua restrizione dei mercati di sbocco interni, le nostre imprese hanno necessità di riposizionarsi in mercati “nuovi”, che la politica si occupa di aprire mediante misure di snellimento del settore pubblico. Occorre chiarire che la privatizzazione del welfare non solo non contribuisce a generare crescita (trattandosi della cessione di attività dal pubblico al privato, in condizioni monopolistiche) ma contribuisce semmai a peggiorare ulteriormente la distribuzione del reddito, a ragione del fatto che i prezzi e le tariffe praticate da imprese private in mercati monopolistici sono più alti rispetto a quelli che si otterrebbero se gli stessi servizi fossero erogati da imprese pubbliche.

Si è, così, in presenza di un’operazione di redistribuzione del reddito dal lavoro al capitale, che passa attraverso la privatizzazione del welfare e che si legittima con il luogo comune secondo il quale il settore pubblico italiano è sovradimensionato, improduttivo, paradiso dei nullafacenti.

Guglielmo Forges Davanzati - Micro Mega

 
 
 
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