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« ImpulsoIl rumore del buio »

Alzheimer

Post n°34 pubblicato il 07 Ottobre 2007 da TamaraRufo
 

Era un privilegio essere accoccolato nel suo più appartato recesso, il suo letto, tra le sue lenzuola, osservando i suoi oggetti d’uso quotidiano, un senso di aspettativa pervadeva la stanza.

Ma cosa potevo aspettarmi da una perfetta sconosciuta, incontrata nientemeno che la sera prima?

La vita era sempre stata una favola strana, assurda dacché me ne ricordavo. Seguitava da anni senza particolari punti di svolta e poi all’improvviso, fluiva rapida lungo un sentiero scivoloso arrestandosi in preda a pensieri solo poco prima dichiarati inammissibili.

Non è che non l’avessi desiderato, ma era già da un po’ che la ritenevo finita, non credevo più all’avverarsi di un desiderio inesaudito. Conoscevo solo il silenzio e il silenzio, tanto lungo da portare al riposo.

E quella sera, su una strada piena di curve, all’improvviso non ricordavo più da dove fossi venuto, avevo scordato perché mi trovassi lì e cosa stessi cercando. Provai a domandare in giro, mi guardai intorno, e alla fini entrai nel portone di un grande edificio con la speranza di capire cosa si nascondesse dietro quella disattenzione, ma non ebbi successo. Senonché mentre mi allontanavo una donna mi si avvicinò con espressione pensosa. Aveva appena udito il dialogo con il portiere e mi parve preoccupata, così a modo nell’interessarsi, con un’aria imbarazzata mentre mi sorrideva. Mi raccontò che era capitato anche a lei, si era ritrovata per strada dimenticandosi dove abitava.

Quella sera l’avevano appena accompagnata, ancora teneva in mano la piccola busta della spesa mentre con l’altra stringeva al petto una borsa di pelle lavorata. Come se fosse in ansia o se temesse una qualche sciocchezza subito mi invitò a salire in casa sua e lo non nascondo, con una certa mia inconfondibile sorpresa; tanto che la mia esitazione la spinse ad aggiungere, “per favore, almeno per un momento”, indicandomi gentilmente l’ascensore che ci avrebbe condotti al piano superiore.

Mi ritrovai a seguirla notando il suo aspetto curato, affabile come le sue richieste.

“Come si chiama? Se lo ricorda?” mi disse.

“Bruno” risposi, stupito di essere lì e di udire la sua voce un’altra volta.

Le spiegai che avevo un figlio ma non sapevo come trovarlo, non ricordavo d’aver mai mandato a memoria un numero di telefono e, rammaricandomene davanti alla sua espressione, risultava che non tenessi con me nemmeno un’agendina.

“Si aggiusterà tutto, non deve preoccuparsi”, mi confortava. “Mi chiamo Vera”, mi disse.

Bevemmo un tè insieme assaggiando una torta al cioccolato e poi non so com’è che accadde, semplicemente mi addormentai. Quando riaprii gli occhi Vera era davanti a me, i capelli raccolti sulla nuca, intenta a sfogliare una rivista.

Mi scusai e mi scusai, ripetutamente, per il mio contegno inappropriato ringraziandola mentre le comunicavo con prontezza che per me era arrivato davvero il momento di andare.

Quindi Vera mi fissò assorta e in un soffio, “sarebbe bello se restasse” mi disse, “di questi tempi è così difficile trovare un po’ di buona compagnia.”

Continuavo a non capire. Cosa era accaduto quel giorno? Perché mi trovavo lì? Era da lei che sarei andato quel pomeriggio?

Mi sentivo bene tuttavia come non mi accadeva da tempo. Nonostante l’invito misterioso la mettesse a disagio, “scusatemi...” si affrettò a dire, Vera mi dava l’idea che l’avrei delusa se avessi rifiutato.

Dal canto mio per tranquillizzarla la interruppi prima che potesse finire la frase, “lei è stata incredibilmente gentile, non voglio recarle ulteriore disturbo”.

“Nessun disturbo”, proclamò, ma la sua premura ancora una volta non fu che un soffio.

Alla fine accettai, confermandole che altrimenti sarei stato nei guai poiché continuavo a non ricordare e dopotutto era già sceso il buio.

“Ci penseremo domani”, chiarì le cose, si alzò dalla poltrona e mi mostrò la stanza dove riposare.

Ero stanco. Impensierito. Non ero convinto nemmeno di essere sveglio.

Fu quando udii l’acqua scrosciare sotto la doccia che capii dove fossi, il mattino seguente, mentre gli occhi continuavano a fissare la paratia della porta con una certa ammirazione; dall’ingresso del bagno il vapore caldo stava sollevando enormi nuvole di incredibile densità.

Osservai quelle circonvoluzioni espansive a tal punto, soprappensiero, che mi sentii in imbarazzo.

Nota che la porta era socchiusa, come se fosse un invito o invece solamente l’apparenza di ciò che un tempo aveva significato l’oltrepassare un confine.

Mi domandai se il fatto non fosse dovuto ad una distrazione o piuttosto, inverosimilmente, se l’azione non fosse stata veramente intenzionale.

Vera si aspettava realmente che la raggiungessi sotto il getto caldo dell’acqua? Con incredulità me lo chiesi scivolando fuori dal viluppo del letto ancora profumato di fresco. Mi avvicinai e fu più di quanto non avessi azzardato quella notte.

Che fantasia! mi rimproverai decidendo subito per la marcia indietro. Sarebbe stato un affronto!

Ritornai nel tiepido groviglio di lenzuola quasi annaspando, incautamente, di fatto urtai una poltroncina accanto all’armadio e per un momento nel tentativo di non emettere alcun suono restai immobile.

Tra i comodini ed il comò, su uno dei due letti gemelli della sua stessa camera, pensai: “era un privilegio essere accoccolato nel suo più appartato recesso, il suo letto, tra le sue lenzuola, osservando i suoi oggetti d’uso quotidiano, un senso di aspettativa pervadeva la stanza”.

Mi vergognai dei miei pensieri, non c’era dubbio, ne era passato di tempo per contraddire la ragione.

Rimasi ad ascoltare lo scroscio dell’acqua finché d’istinto, forzatamente, con collaudata determinazione strinsi le gambe soffocando una risata rauca.

La memoria graffiava non producendo più alcun movimento… e in questa consapevolezza, a voce alta, pur sperando di non essere udito, “ah ah ah ah ah…” risi di gusto.

“E’ di buon umore, vedo.”

Finsi di non averla attesa e non la guardai, solo “… buongiorno…” dissi allegro.

Cercai il motivo per cui sorridevo con tanta insistenza ma non lo trovai, il gesto che seguì conquistò tutta la mia attenzione.

Era vestita come la sera precedente, si sedette di fronte allo specchio e prese a spazzolarsi i capelli, i suoi capelli corti di cenere, fin troppo sinuosi nella loro esile fragilità. 

Allora accadde, senza volerlo, il mio sguardo si perse sopra il suo viso e non incontrò ostacoli.

La sua fronte gocciolava ancora quando lo capii, gli occhi scavati dalle profonde rughe degli anni si erano distesi all’istante, non appena furono attratti dai suoi. Umidi, per tutto il tempo fermi nei miei, come il miraggio di una passata debolezza a dirmi che sarebbe stato ancora possibile.

Come due adolescenti privi di posizioni di attacco restavamo sempre innocenti, giovani nonostante tutto, anche se quell’anno proprio i nostri ottanta furono il momento più discusso della vecchia provincia.

Quell’anno e a dirla tutta, ancora adesso, mi racconta mio figlio.

 
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