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Questo bacio vada al mondo intero - Colum McCann

Post n°98 pubblicato il 05 Aprile 2011 da syd_curtis
 


NYC, 7 Agosto 1974, un uomo cammina su un cavo metallico steso tra le Twin Towers, a quattrocento metri dal suolo. Quell'uomo, Philippe Petit, matto funambolo, è il filo che lega tra loro le storie che compongono il libro di Colum McCann, a metà tra la raccolta di racconti e il romanzo corale. Un libro col naso all'insù, verso quel puntino scuro che saltella irridente tra vita e morte, sfiorato dagli uccelli e dal vento, scrutato dai poliziotti, infine preso, arrestato, tirato giù, riconsegnato alla prosa della vita quotidiana. Apologo morale, metafora evidente di un'umanità in bilico, pretesto per raccontare la città da un punto di vista inedito, post nine-eleven novel, fate un po' voi, il libro vale la lettura per il primo racconto (o primo capitolo, a seconda dei punti di vista), per il personaggio di Corrigan, monaco moderno, trapiantato dall'Irlanda nel Bronx con l'incarico di prendersi cura delle puttane di strada e dilaniato tra Gesù Cristo, castità e ascetismo quasi masochistici, e la vita, carne, sangue e amore per una donna. Corrigan va incontro alla sua passione e risulta complicato, una volta chiusa la prima parte, levarselo di torno, dalla testa. Il fascino irresistibile, il buco nero che attrae il lettore è quella lacerazione e i patimenti che porta con sé, che sono della modernità e dell'uomo diviso, e che fanno di Corrigan un personaggio tragico, quasi scespiriano, intento a ritagliarsi un ruolo, un senso, il proprio destino scomodo, fatto di digiuni, di tazzè di the nerviose, di botte, di ostinata generosità, di contraddizioni e di dolore, pagando infine il prezzo più alto. Sono pagine dolorose, intrise di passione, che incidono sulla carne viva della realtà e che restano indelebili.

Sul resto si può discutere, come no, ma la sensazione è che McCann spari subito le cartucce più fragorose e da lì il libro scenda, prima dolcemente e infine in picchiata paurosa. Dopo Corrigan, seguirà la madre di Park Avenue, Upper East Side, che perde il figlio in Vietnam e cerca un dialogo stridente con madri accomunate dalla stessa sorte, ma di altra estrazione sociale; solitudine con sottofondo di disperazione non urlata, ma netta, chiara. Quindi la coppia di artisti in macerazione, disfacimento dell'ispirazione e della vita di coppia, noia esistenziale una volta terminata la droga e il carnevale della mondanità. E poi via via diverse altre storie che si  intrecciano tra loro, si intersecano, come a voler dipanare a ritroso una matassa intricata, che si lasciano leggere ma non posseggono lo stesso grado di necessità, di urgenza della prima.

Avrei fatto volentieri a meno di alcune parti, l'ultima su tutte, ambientata negli anni nostri. E' come se McCann a un tratto decidesse di volerti spiegare la metafora, non si accontentasse di aver suggerito, ma volesse mostrare e si mettesse a spiare i propri personaggi dal buco della serratura. Come se si spingesse un passo oltre il limite consentito (da un punto di vista strettamente narrativo) e mettesse tutto in discussione. Non è tanto (o non solo) l'accumulo delle coincidenze, il personaggio che fuoriesce da una storia e si innesta in un'altra, a infastidire: in fondo la realtà è più sorprendente di un romanzo e il procedimento ricorda la ricostruzione che facciamo della genesi di un pensiero (come si è arrivati sin qui?). Non è questo, ma la discutibilità di certe scelte, di certi snodi, quali, ad esempio, la sequenza in montaggio non cronologico in cui Corrigan cede alla passione per l'infermiera sudamericana; oppure il capitolo finale ambientato nel 2006, in cui McCann scomoda i nipoti dei protagonisti e li porta verso un epilogo goffo, inutile; sembrano testimonianze della ricerca di un tutto tondo che in letteratura suona (quasi sempre) posticcio e fuori fuoco.

Un romanzo imperfetto, forse, ma da mettere senz'altro tra i libri da leggere.

 

 
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