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Cose che ho pensato mentre ascoltavo il nuovo album di Alela

Post n°100 pubblicato il 10 Aprile 2011 da syd_curtis
 



Ho pensato a Steve Earle. Alcuni giorni fa, in occasione di un viaggio in auto per lavoro avevo preparato il mio kit di sopravvivenza con quattro cinque cd da ascoltare lungo la strada. Mi sono poi accorto per via che nella confezione di uno di questi c'era il disco sbagliato, un cd di Steve Earle del 2009 dal titolo Townes dedicato al suo ineguagliabile maestro, Townes Van Zandt. Non so come sia potuto succedere, mi ero completamente scordato di questo album, mai ascoltato. L'ho messo nel lettore, più per curiosità che altro: beh, colpito e atterrato è dire poco. E' facile quando si pesca a mani aperte nella tradizione del folk americano scadere nell'alt-country più anonimo e dimenticabile; ma qui, oltre alla mano di Van Zandt, c'è un certo Steve Earle alla chitarra e voce, dici poco. E infatti le canzoni acquistano immediatamente lo status di classici senza tempo, sanno di pioggia e di polvere da marciapiedi, di piccoli club fumosi, di birra e di corse in autostrade che attraversano il deserto, sembrano fatte apposta per essere suonate attorno a un fuoco, sotto una coperta, seduti sul sofà di casa circondati dalle persone a cui si vuole bene, sono intime, familiari, hanno un respiro ruspante, ruvido, quasi campagnolo. Tutta l'epopea del country rock americano che ritorna più vivida che mai.

Ho pensato che alcune di queste sensazioni erano percepibili in buona parte dei  dischi precedenti di Alela, e non scriverò fatte le debite proporzioni, perchè The Pirate's Gospel resta un esordio fulminante, di quelli che capita di ascoltare, se va bene, una volta ogni cinque anni. Dischi giocati su pochi elementi, elementari arpeggi di chitarra acustica nei primi due e un accompagnamento davvero light della backing band in To be still, il terzo; su tutto, dominava la voce di Alela, straordinario strumento, così evocativo, ampio, ricchissimo di sfumature, capace di melodie commoventi, quasi dolorose.

Non sembra nemmeno più lei, è la prima cosa che ho pensato quando ho visto l'immagine di copertina di Wild Divine, il nuovo album. Dov'è finita la donna dai tratti nativo-americani che accompagnava Pirate's Gospel? La stessa cosa, grossomodo, ho pensato quando ho ascoltato per la prima volta l'attacco di To Begin, la traccia che apre Wild Divine. Suoni levigatissimi, voce controllata (ingabbiata, ricordo di aver pensato), un pezzo quasi pop. Ho cominciato a scuotere la testa e sono andato avanti così quasi fino a metà dell'album, a rischio torcicollo. Ho pensato a quel pericolo, l'alt-country più dimenticabile, e mi sono detto che sì, quel confine Alela stavolta l'aveva superato e da lì difficilmente si fa ritorno indietro. Stupidaggini. E' bastato l'attacco di The Wind per riportarmi a casa, farmi sedere sul sofà della vecchia casa di Nevada City in compagna di Bramble Rose, la sua gatta. Banjo e mandolino a far da contrappunto a una chitarra acustica sommessa e la sua voce che canta donna dell'isola/ spediscimi la luce/ mettila in una busta/ e indirizzala a L.A./ perché sono nel vento/ non posso tornare/ sono un sogno nel vento. E' bastata The Wind per farmi riconsiderare tutto quanto.

E' vero i suoni sono levigati, smussati, si avverte la mano del produttore (Scott Litt, già con REM, Replacements, Patti Smith, Nirvana, mica robetta) che ha lavorato per eliminare asprezze dagli strumenti classici del folk americano, ma il livello medio dell'album resta più che buono e la voce più evocativa che mai, anche senza lo yodeling consueto. I pezzi migliori sono in chiusura d'album (dieci tracce in tutto, poco meno di quaranta minuti di musica). Heartless Highway, canzone composta in tour, lungo autostrade senza cuore, in cui la band srotola un tappeto di swing e consente a Alela di andare in jam con la voce, di improvvisare assoli, di raccontare ancora una volta la malinconia e la nostalgia di casa (e non si vede l'ora che lei torni a intonare il ritornello, this is a heartless highway / so long / so long go).  E poi su tutte, l'ultima traccia, la migliore del disco, Rising Greatness, in cui la voce si ispessisce e si infila nel solco della tradizione delle migliori interpreti della canzone americana, con echi (se non ho le traveggole) della Grace Slick di White Rabbit. At the end of the day / song I sing is the same e viene voglia di sentirgliela cantare ancora e ancora quella canzone, di sedersi accanto a lei e ascoltarla accompagnata dal pianoforte o dal sottile arpeggio della chitarra.

Ho pensato che sarebbe bastato guardare il video che trovate sul suo sito e su vimeo, il trailer dell'album, girato a casina sua, con la gatta che passa correndo sul pavimento, i suoi lunghissimi capelli raccolti in un quadro alla parete, il ricamo indiano alla finestra, il marito che l'accompagna al piano e canta con lei Desire, il padre che suona il mandolino d'accompagnamento di The Wind, sarebbe bastato questo per capire che il pericolo del pop levigato, della perdita di sostanza della sua musica, del sottofondo anonimo destinato a accompagnare una voce patinata, resteranno confinati sullo sfondo ancora per un bel po'.

Nel video qui sotto, una versione completamente acustica e ancora più scarna di The Wind. Qui invece la versione live di To Begin, dove sembra che Alela abbia definitivamente abbandonato la chitarra per il microfono; alle sue spalle, Wild Divine, la backing band con l'acustica del marito Tom Bevitori e l'elettrica del padre Tom Menig. Sempre su YouTube, una bella intervista in più parti. L'album si può ascoltare in streaming da deezer.

 

 
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