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Stitches (ventinove punti) - David Small (2010)

Post n°108 pubblicato il 25 Aprile 2011 da syd_curtis
 


Se dovessi raccontare Stitches (letteralmente, punti di sutura) a un amico, sarei tentato quasi subito di smetterla, mi darei vinto: compralo, gli direi, fallo tuo, te lo raccomando col cuore, non ne uscirai pentito, ti ho mai rifilato un pacco? (oh, sì, più di una volta sì, ma non questa, prometto :-).

Il disegno di Detroit che sta in testa a tutto, ciminiere fumanti sotto un cielo livido e la scritta bianca su fondo nerissimo: avevo sei anni. E' da lì che David Small comincia a raccontare la sua vicenda autobiografica, da quel ragazzino che fluttua a testa in giù nel buio indistinto, mentre adulti dai visi impenetrabili lo osservano silenziosi (cover esemplare, che spiega più di fiumi di parole).

Il silenzio, l'urlo silenzioso che sale dal privato domestico di una famiglia americana degli anni cinquanta, classica middle class: padre radiogolo, madre casalinga, due figli. Il silenzio della madre di David, una povera donna nata col cuore nel lato destro del petto e un solo polmone funzionante, segretamente lesbica, madre che per settimane si chiude in un mutismo ostinato, rancoroso, durissimo, incomprensibile. Di questa madre Small ci racconta tre cose: una tossetta nervosa, singhiozzi sommessi dietro una porta chiusa, e il rumore di armadietti della cucina sbattuti con violenza. Il padre si rifugia in cantina, prende a pugni un punching ball; il fratello si chiude in camera e pesta su un tamburo: questo il loro linguaggio.

La malattia di David, il cancro alla gola a quattordici anni, e l'operazione devastante che ne consegue, ventinove punti di sutura sul collo, asportazione della tiroide e rimozione di una delle due corde vocali, con conseguente perdita della voce: "naturalmente il mio silenzio non era più una questione di scelta". Malattia che è taciuta a David dai genitori, ne apprenderà casualmente leggendo una lettera della madre alla nonna.

La follia, poi, le labbra terree della madre, gli occhi privi di espressione, i libri del figlio adolescente bruciati perché pieni di sconcezze (tra questi, immancabile, Lolita). E ancora, la nonna che lava le mani del nipote con l'acqua bollente per punirlo di un'insolenza. La stessa nonna che chiude il nonno in cantina, dà fuoco alle tende di casa e si precipita nuda per strada. In un sogno posto in coda al racconto, Small dice di aver resistito al richiamo della follia: la madre spazzava con la scopa il sentiero verso il manicomio di stato in cui era rinchiusa la nonna.

Stitches è una parabola di redenzione, è fiducia (forse) ingenua, ottimistica nell'arte come mezzo per esprimere, rappresentare le proprie angosce e in una qualche misura lasciarsele alle spalle. Questo è il cammino di Small, quantomeno. Ce lo racconta con un tale nitore, con una tale sapienza narrativa. E' un attimo, maneggiando una materia tanto incadescente quanto le vicende familiari, accusare il colpo della pesantezza, sprofondare sotto il macigno di eventi di durezza intollerabile. David Small se ne tira fuori grazie anzitutto alla forza incontrovertibile del graphic novel e dei mezzi che mette a disposizione dell'autore, grazie all'essenzialità che utilizza nel raccontare: pagine di sguardi e dettagli senza didascalia, occhi soprattutto, un bianco e nero a tratti cupo ma sempre estremamente evocativo, ombre e luci.

Infine, la scoperta della psicanalisi a sedici anni, l'analista ritratto come il bianconiglio di Alice, l'accadimento inaspettato che consente una comprensione di sé e degli eventi della propria vita cui non si era mai potuti accedere, una sorta di alter ego maturo dello stesso protagonista. Analisi che consente a Small di riconsiderare il mondo, i rapporti con la propria famiglia (tua madre non ti ha mai voluto bene, tra le prime parole pronunciate dall'analista, il dolore di un'infanzia e adolescenza prive d'amore: il fatto che sia bianconiglio a parlare, conferisce alla vicenda una leggerezza altrimenti inavvicinabile) e con gli altri e di avviare un faticoso cammino di emancipazione e recupero di sé.

In coda al libro Small dedica una galleria fotografica ai propri familiari e riconsidera attraverso le lenti della maturità il proprio passato e la natura e la profondità della malattia della madre e del dolore che le è derivato. E' propria della comprensione matura la citazione finale, attribuita a Edward Dahlber: "Nessuno udì le sue lacrime; il cuore è una fontana e geme un'acqua che non risuona nel mondo".

(Il libro è uscito negli Usa nel 2009 e in Italia, per Rizzoli, nel 2010. La traduzione italiana è di Marco Bertoli).










La Detroit degli anni Cinquanta richiama inevitabilmente alla memoria la Tamla Motown, fondata nel 1959 da Berry Gordy, etichetta che ha scritto la storia della black music. Primo singolo a raggiungere la cima delle classifiche di vendita fu Please Mr. Postman delle Marvelletes, nel 1961, brano rifatto un paio d'anni dopo dai Beatles.

 
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