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« Venticinque dischi per i...La contro-pleilista del 2011 »

Venticinque dischi per il 2011 (se dio vuole, la fine).

Post n°193 pubblicato il 02 Febbraio 2012 da syd_curtis
 

 

 

 

1.

St. Vincent
Strange Mercy

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi spingo subito sino alla coda. Quella Year of the Tiger che oso segnalare come miglior canzone del 2011, ohibò. Ha tutto quel che serve per solleticare le mie corde di ascoltatore emotivo. Passo strascicato, intro acustica, basso in evidenza, incrostazioni elettroniche, voce tra il tenero e il qualcos'altro. Quel ritornello che fa venire le lacrime agli occhi, tanto è evocativo di chissà che. Una coda con accenno di concitazione. Oh. Ascoltatela. Ripercorrendo il filo delle tracce, (quasi tutto) ciò che viene prima di Year OTT è di valore assoluto. Chloe in the afternoon (che riecheggia in salsa bdsm un antico film di Rohmer), si apre su un synth liquido e prosegue intrecciando chitarra elettrica -che dà più spessore che melodia- e ritmica incalzante. Cruel, il brano di presa immediata, il manifesto del modo di fare musica di Annie Clark: la mescolanza di elementi propri del rock classico, l'elettrica dura, con synth dal colore smaccatamente pop, che intonano ritornelli di facile presa; voce zuccherina-eterea-evocativa e arrangiamenti d'archi nel fondale: come il tutto suoni miracolosamente fresco e innovativo è un fatto che meriterebbe di essere meglio approfondito. Il resto della rece è qui.


Il video

 

2.

Yuck
Yuck

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Oh, 'sto ascoltando per la settima volta consecutiva Get Away e ancora non riesco a fermarmi. C'è dentro tutto. Le chitarre di J Mascis, i dinosauri, Lee Ranaldo con i capelli d'oro, Neil Jung e gli incubi di Norman Blake, Thurston Moore che incide su musicassetta, i capelli di Napo Orso Capo, la bassista di Hiroshima, la disperazione posticcia da club, le vhs disturbate, le tette sporche di sangue e i lupi mannari, Lou Reed, il colore azzurro e gli occhi chiusi, la playlist di Bloom e Blumberg, la memoria da pesce rosso dei feticisti indiepop, le ballate intossicate e i distorsori un tanto al chilo, gli occhi lucidi, gli occhi arrossati, gli occhi come cazzo vi pare, la merda che s'accumula sulle vostre vite, la rabbia dei gggiovani e i fish and chips e la rivolta dei teenagers, il quinto elemento ilana, gli anni novanta che ritornano come in un incubo a basso costo, la psicanalisi di jung suonata al contrario, i marciapiedi bagnati di pioggia a soho. Il resto, qui.



Il video




3.

Bon Iver
Bon Iver













Bon Iver, il nuovo album, è tutto fuorché un ridimensionamento, non fraintendete. Dispiega mezzi diversi, strumenti differenti, una pienezza che l'esordio non aveva. E conquista senza remissioni, ascolto dopo ascolto, con la forza di canzoni sommesse e ancora una volta straordinariamente ben congegnate. Si ascolti Perth: quanto appaiono necessari quei tamburi marziali, l'irrompere della batteria e il passaggio stupefacente in Minnesota, con la sua elettronica giustapposta all'acustica, i fiati accennati, il modo in cui precipita dolcemente nel ritornello, never gonna break never gonna break, la naturalezza con cui cede il passo, di colpo, a uno dei pezzi più intensi: Holocene, con i suoi cieli autunnali, la chitarra arpeggiata, quel piccolo xilofono. Holocene è un cielo d'Ottobre col sole, è una castagna, un bacio, una carezza, un po' di acqua salata nell'angolo dell'occhio sinistro, un piccolo gioiello di tenerezza e struggimento. Parla senza bisogno di parole ai disadattati come me, ai paurosi del cazzo, a chi scrive su un foglio che mette subito via perché nessuno lo legga. Non è niente di tutto ciò. E' tutto ciò. E' magnifica. E' un cassetto in cui c'è tutto quello che cerchiamo nella musica pop, la ragione per cui non possiamo fare a meno di ascoltarla. Il resto della rece è qui.


Il video

 

 

 

 
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