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Devo averla già usata da qualche altra parte, ma pare che sia la formula migliore. La musica di Beatrice Antolini non sopporta la catalogazione facile, non la puoi chiudere in una scatola con la sua brava etichettina e fare spallucce. No, le sue canzoni saltellano, si muovono, portano appiccicata addosso tutta una serie di specchietti ritmici colorati che rifrangono la luce in maniera diversa a seconda dell'angolo prospettico dal quale li si guarda. Del resto, che la base ritmica fosse l'elemento essenziale sul quale Beatrice fondava il proprio mondo, la propria realtà musico-esistenziale, pareva innegabile già da A Due, il disco precedente (2008). Album sghembo, rapsodico, per certi versi isterico, pervaso di uno spirito che chiamo _per amore di etichetta_ punk (e lo era, cazzo, nell'attitudine quanto meno); disco spigoloso, col pianoforte in primo piano, una bella verve e tanta generosità di particolari, l'elemento afro-brazilian _di cui parla più sopra_ bene in evidenza (si ripensi alla meraviglia di A new room for a Quiet Life).
Beatrice, fedele al motto che chi fa da sé fa per tremilatrentatré, è polistrumentista alla maniera di Joe Steer, suona e produce tutto quanto: "Ho utilizzato poche cose: batteria, percussioni (sopratutto afro), sax, sintetizzatori (2 un moog e un dx7), piano, basso, chitarra, clavinet e la mia voce. Violoncello e tromba sono stati suonati da Mattia Boschi e Enrico Pasini."
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Inviato da: Gesu
il 28/07/2022 alle 01:24
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il 28/07/2022 alle 01:22
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