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I'm (really not) happy when it rains

Post n°35 pubblicato il 29 Gennaio 2011 da syd_curtis
 

 

 

Non so se sia lecito produrre un live report a distanza di una decina di giorni dall'evento. Roso dall'incertezza, stendo queste note febbrili come in bilico su una gamba sola, pigiando la tastiera solo con i diti mignoli. Potrà il lettore perdonarmi, mi domando. Ho poco tempo (e molta fame), ergo condenso in una sola serata tre live acts (dio quanto fa fico l'inglese). Alla Fnac di Milano suonano i Verdena, nel giorno del loro quinto album, che è doppio e si titola WOW. Poi più in là nella nottata, alla Casa 139, The Calorifer (is very hot) introducono il clou, ossia le Ian Fays, gemelline californiane poco più che ventenni. Ecco quel che ne ricavo.



Cominciamo col dire che la sera del 18 Gennaio Milano era come Natale, luminarie, negozi aperti e luminariosi, freddo polare, zampognari. La Galleria con il soffitto azzurro e le stelline, ma con uno Swarovski di meno, un cuore di legno del diametro di un metro caduto sulla testa di una poraccia settantenne (nota: subito dopo il fattaccio, accorre sul posto l'assessore al Decoro Urbano, giusto per assicurarsi che il sangue della vittima non corrompa il Decoro medesimo). Nella piazza, l'alberone di Natale, penoso, alto com'è e piuttosto rinsecchito, che una squadra di operai comunali smantellava proprio quella sera, come a chiarire ogni equivoco spiritual-temporale: larghe imbragature, un camion lungo così, oh-issa. Chissà dove sarà, adesso, l'alberone. Nel caso vi capitasse di passare, controllate se alla fine non sia stato lasciato lì a stagionare ancora un po'.

Quindi, la Fnac. Mi accingo a entrarci e mi ricordo di via Torino, dove, nel periodo dark, compravo orrende camicie scure in un negozio di abiti usati. Il concerto dei Verdena si tiene al secondo piano dell'edificio Fnac, nel comparto in cui sono in vendita gli I-Pad e i Mac e le custodie in pelle per gli I-Pad medesimi, eccetera, e diamine c'è davvero un sacco di gente, gente everywhere.

Uno schermo al plasma (lo vedete, piccino picciò?) circondato da moltitudine di teste è tutto ciò che è dato vedere dei tre Verdeni, i quali suonano in una saletta assurdamente angusta, ai limiti della quale vigilano i mandinghi del servizio d'ordine, bicipiti che assomigliano presumibilmente alla mia coscia e sguardi trucissimi: entrare, neanche a parlarne.

 



La graziosa segretaria Fnac, collana di caramelle al collo, mi dice che la coda arriva fin là in fondo (gesto) e che i ragazzi sono qui da stamane alle 10.00, con la brava colazione al sacco. I ragazzi sono bravi e disciplinatissimi, altro che i buzzurroni di quarant'anni fa, con le loro autoriduzioni e processi ai musicisti sul palco.
M'accomodo quindi vicino a un contenitore di calendari variopinti, intrattengo un rapporto simbiotico con un calendario che riporta caricature di cani (di cani) che vorrebbero parodiare personaggi famosi, mao chaplin hitler churchill. Poco a lato ho il gomito su una pila alta così di Baronciani, le ragazze nello studio di Munari, che scopro essere un fumetto bello bello e col quale pure mi intrattengo, io e il mio gomito.

Dalla mia postazione privilegiata fotografo le teste dei ragazzi e lo schermo su cui intravedo i tre Verdeni pestare per bene sui loro strumenti. Da quello che ascolto mi pare di poter dire, pur non riconoscendo alcun brano eccetto il già noto razzi arpia eccetera, che il disco WOW (prenotato su amazon) sarà niente male e confermerà a onta di ogni critica malevola i Verdena come mio gruppo preferito italiano saecula saeculorum. Benché il luogo non si presti all'evento e malgrado le teste e lo schermo piccino picciò, si respira un'arietta hype che mi ricorda (ma in sedicesimo, eh?) i Fab Four sul tetto della Apple o i Sex Pistols sul Tamigi. Vabbé perdonate il delirio.
I Verdeni suonano per una quarantina di minuti e firmano tonnellate di autografi, mentre io vado a mangiare un boccone e Natale sembra ancora più vicino, il Duomo una facciata di cartone con nulla dietro e la madunina dorata più che mai, accanto a una luna grande così (gesto).

 



A tarda notte (le nove e mezza) mi sposto sino alla Casa 139, arrivando con largo anticipo, a quanto pare. Non so se siate mai stati alla Casa 139. Onore e gloria a chi porta a Milano un sacco di bella musica, ma la sensazione è di suonare in una casa privata, o quasi. Un appartamento su due piani all'interno di un caseggiato qualunque, con portone anonimo e sempre sbarrato, lontano mille milioni di miglia dall'accoglienza di altri circoli come il Magnolia o la Schighera, che restano i miei preferiti Arci di milano (gli unici che conosca, d'altronde). Saletta concerti al piano sopra, larga pressappoco quanto il soggiorno di casina mia.

Il portone chiuso fa tanto circolo di cospiratori, in una zona tra le più-periferiche-nell-animo di Milano, a dispetto del fatto che il centro è a due passi. Fa un freddo epocale, ancora più di prima. Lascio la macchina nel solito posto, traverso la strada, il portone come detto sbarrato, da tradizione: su web diceva 21.30 ma vai a capirli, 'sti comunisti. Ogni modo alle 21.25 si avvicina per la strada la cassiera che bontà sua mi fa entrare con qualche minuto di anticipo, considerato il rischio di assideramento e la mancanza di bar praticabili nelle immediate vicinanze.

All'ingresso tra il pannello in cartongesso, il calcio balilla e la macchinetta del caffé, trovo duns assorto nella lettura di un opuscolo con gli eventi della grande città di Milano, zero, da sito. Lo trovo bene, mi racconta delle cose che legge e scrive, mi cita una poesia di EE Cummings che parla della necessità dell'indie-rock nella vita del quarantenne malinconico e ombelicale, e fa tanto d'occhi mentre lo dice. Dopo un caffé alla macchinetta, sprofondiamo nel divano della saletta bar, che ha tutta l'aria di esser stato recuperato da un robivecchi. Mi racconta con precisione quel che cerco nella musica e dove sta l'errore nella mia vita e dove il punto esatto di non ritorno tra una comune pacata nostalgica malinconia e la vena vetero ombelical piagnucolosa che -dice- mi vien sempre fuori quando anch'io scrivo. Le cose che scrivi tu, dice e vuota un orrendo midori dopo l'altro come fosse gassosa, non sono mai riuscito a arrivare a pagina due. E' rassicurante, duns. Mi restituisce l'immagine di me che corrisponde all'immagine di me che mi sono fatto.



Tiriamo sbadigliando le 22.45, solo un'oretta e un quarto di ritardo sulla tabella, poco male. Alle 22.48 fuoriescono quasi di nascosto i caloriferi e siamo una quindicina assiepati (si fa per dire) sotto il palco. I tre, chitarra-basso-batteria, si producono in uno show minimalista, complice anche la voce non eccezionale (già sul cd m'era sembrato un punto debole) e non sollevano grandi entusiasmi, a parte i gridolini poco convinti e convincenti delle tre fays assiepate (eddai) a bordo palco. Il calorifero (errore cambiare nome, per conto mio: il vecchio era molto più suggestivo) pare tiepido stasera e si scalda un poco solo verso il finale, con la gente che si fa di un metro più sotto il palco. Duns dice che la chitarra non riverbera, il batterista non s'impegna e il bassista dovrebbe mettersi le scarpe: sei un cagacazzo, gli faccio; Evolution On Stand-By è un disco bello e promettente, e una serata così può capitar, dico mentre scatto un paio di fotine sfocate.

 


Duns sbadiglia, ma si ringalluzzisce non appena attaccano le ian fays. Non so decidere, mi fa, quale delle due ragazzine mi piaccia di più. Canzoncine da pochi accordi, semplici, voci morbidissime, vestitini colorati per le due gemelline Fays, Sara e Lizz (tastiere/basso e chitarra), poco più che ventenni, divertenti e belline, a cui si aggiunge la presenza in nero di Lena, terza sorella, che ogni tanto dà un colpetto a uno xilofono giocattolo, a un triangolo o a un tamburello. Duns, in vena di boutade, dice che Lena probabilmente funge da catalizzatore e asciuga la naturale dialettica emotiva tra le due gemelline, sarà. Completano il quadro una drum machine e il contributo al basso di Samuele dei Caloriferi.

 



L'album in uscita delle Fays, Jensen's camera (l'etichetta è il collettivo We Were Never Being Boring, non etichetta tutta italiana gestita con amore e per amore dagli stessi calorifer, da Le Man avec les lunettes e altra gente) è molto gradevole, acustico, lineare, canzoni da torrente montano tanto sono fresche e diafane. Zuccherine, forse troppa assunzione fa alzare la glicemia, ma va bene così. Un'oretta divertente di Ian Fays (che m'hanno fatto venir voglia delle Au revoir Simone) e poi saluto duns, dandogli appuntamento al prossimo concerto, che potrebbe essere l'Antolini al Magnolia o Steve Wynn acustico al Bloom, chi lo sa.

Torno a casa nella nebbia della A4, con in sottofondo ancora le Fays intervallate nostalgicamente dagli ex-fratelli-terribili Reid, ora paciosi cinquantenni. Quel loro Darklands, che a distanza di ventitré anni suona così pacifico, gradevole, innocuo, dimentico della cortina dei distorsori di Psychocandy. Happy when it rains, canta Jim Reid, ma non ci crede davvero più nessuno.

 

 
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syd_curtis
syd_curtis il 01/02/11 alle 10:23 via WEB
Il calendario dei cani era bellissimo.
 
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