Una forte esortazione
mi spinge ad uscire nell’inquieta notte
lungo le malebolge deserte
dei viali alberati (olmi
spettrali,
platani nodosi)
e
dei selciati lucidi di pioggia e
dei lampioni che effondono
tremante la luce velata.
Odore d’ incenso nell’aria fredda
e umida
(statica)
Dove sono? Io? Ascolto?
“Potrebbe tornare, prima o poi”, mormora la mia ombra
al muro. “Potrebbe anche succedere. Tu non assillarti:
scrivi le tue poesie, spargi la tua quota quotidiana d’inchiostro
e leggero tocca il gatto che inarca il dorso,
quando passa - languido -
sulla scrivania.”
Il mio occhio analizza l’ombra
impietrita,
congelata
dal flash della mia instabile attenzione;
il mio orecchio
avverte la pressione indicibile di un
silenzio che non è tanto assenza di suono
quanto
un abisso ruotante dietro il mio plesso solare. Il cuore,
il mio cuore infetto, sta proprio dietro,
o giù, da qualche parte.
“Non direbbe certo
ti amo. Non ora, né mai.”
Pertanto
mi limiterei ad una veloce stretta di mano
e ad un vattene considerato in silenzio.
Sulla superficie dello specchio c’è un'incrinatura.
La fine è inevitabile.