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Avrei voluto disegnare aquiloni e lasciarli liberi di giungere in mondi lontani e come tappeti volanti farmi trasportare, avrei voluto disegnare sbuffi d'aria come un elfo dei boschi, e con essi navigare su nuvole capricciose buone da mangiare, ma questa è un altra storia, di quelle che che si vedono al cinema, o si leggono sui libri quando da bambino la fantasia materializza ogni cosa e nulla sembra irreale, improbabile, piuttosto assume i caratteri di forme e sostanze alternative, vive. Per me era importante sapere che il mondo non finiva in ciò che gli occhi mi mostravano, ma che c'era un velo oltre il quale cose sempre nuove si manifestavano agli occhi della mente, che c'era sempre un avventura da vivere oltre il sogno, una terra misteriosa dove tutto poteva essere contrario, opposto, un incredibile visione dove certezza e logica lasciavano il posto al dubbio e all'irrazionale, dove la ragione diveniva follia gioconda, dove l'ordine era disordine e caos. La fantasia è sempre stata una terra di conquista fin da quando ho iniziato a muovere i primi passi, non che li abbia mossi subito, ero pigro in questo o forse già da allora mi piaceva viaggiare con la testa prima ancora che con le gambe, e ho anche parlato tardi, tre anni dicono i più informati di me, coloro che per affetto e cura parentale hanno sempre tenuto il conto dei miei progressi, delle malattie infantili, del rifiuto tanto atteso del pannolino, dei primi dentini caduti e lasciati riposare sotto il cuscino. Forse parlare a quell'età aveva anch'esso una ragione in quel viaggiare nel regno della fantasia, che crea materia come le forme d'argilla create da un genio, e mi si disvelava davanti un infinito cosmico fatto di incredula duttilità della sostanza, da plasmare e levigare, da disfare e rifare con la stessa velocità di un pensiero che si scalda e partorisce lesto da un emozione continuamente mutante. Per me era importante penetrare i segreti, ma non per carpirne il midollo della ragione, no o non solo, piuttosto per farmi trascinare da lui, conquistarmi alla sua deriva per poi uscirne come da sabbie mobili mortali o dal fondo di un abisso e tornare a respirare a pieni polmoni con la consapevolezza di esserne sopravvissuto. Il buio mi spaventava, avevo quattro anni, e ciò fino a sei anni, non era una paura fertile e orrorifica, no...era un timore tangibile di qualcosa di sconosciuto, inafferrabile, così lo affrontavo col cuore in gola, evitando, per quanto riuscivo a farlo, di aprire le luci, era come se sfidando quel mistero a palesarsi ne esorcizzavo la pazienza inabissandomi dentro di lui per esserne parte. Per me era importante conoscere i miei limiti, e questo nella gioia , nella sofferenza, nel dolore, nei giochi, nella paura di non farcela, nel confronto con gli altri ragazzi e nel rapporto con le donne. Sempre la costanza del mettermi in gioco e la risultante di un confronto pari a pari, come una gara senza la pressione della vittoria, ma la necessità di conoscere se stesso nel fondo dell'anima. Come quando ci si guarda allo specchio, non so se capita anche a voi ma al primo sguardo ci riconosciamo e forse nemmeno ci badiamo, siamo sicuri della presenza di noi stessi, della coincidenza di quell'immagine col nostro io senziente, magari parliamo tra noi e spesso a voce alta con quell'altro...si, quello riflesso nello specchio che sappiamo essere noi.....ma se ci fissiamo per un tratto più lungo di una banalità scolpita nel silicio, allora quell'immagine, quell'inquilino chiuso in quel riflesso inizia ad avere una vita tutta sua. Così fissandolo scopriamo una ruga , un difetto, un tratto d'espressione che prima non conoscevamo o su cui eravamo sempre stati distratti. Guardiamo gli occhi, le pieghe ai lati della bocca, un neo appena visibile e quello sguardo che sembra censurare o ammansire, rimproverare piuttosto che darci un buffetto sulla guancia per dire ..su su che che stai andando alla grande. Siddy
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