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« Nessuno straniero, tutti...La vita normale »

Per un teatro educativo dell’oggi

Post n°5 pubblicato il 19 Agosto 2014 da b.zucchermaglio
 
Foto di b.zucchermaglio

di Bruno Zucchermaglio

Accogliere i bambini a teatro e trasmettere loro l’idea che il teatro è un luogo “diverso”, un luogo deputato ad una o più specifiche attività del tutto peculiari ed anche “distanti” – e pertanto “divertenti” (per giocare un po’ con l’etimologia[1]) – non è certo semplice, in particolare negli ultimi anni.

Un giorno, dopo aver accolto in un piccolo teatro quattro classi di una scuola elementare in lingua tedesca della provincia di Bolzano, un attore germanico cercò in tutti i modi, prima di iniziare lo spettacolo vero e proprio, di “istruire” i suoi piccoli spettatori sulla natura e sulla specificità del teatro e sull’evento che esso è rispetto a quanto di norma accade e si fruisce nella vita quotidiana.

L’attore, mosso indubbiamente anche da una forte indole idealistica, faceva di tutto per far comprendere agli scolari che lì erano a teatro, che non si trovavano di fronte alla solita televisione, che, dunque, ciò che veniva loro richiesto era la compartecipazione ed, in sostanza, almeno quello “sguardo fisso”, quell’altrimenti denominato “gaze”, che si distingue dalle “occhiate”, da quelle “glances”, che da tempo siamo abituati ad utilizzare quando fruiamo i programmi televisivi.

I bambini, e non di meno gli adulti, in sostanza, sono distratti.

Sono abituati a fruire le sollecitazioni multimediali in modo incostante e spezzettato, in alternanza ad altre numerose attività che si intrecciano, nella quotidianità, con quella della fruizione di uno spettacolo.

Giunti in teatro, in un luogo deputato alla manifestazione di una messinscena teatrale, si sentono smarriti, privati di quegli appigli “distrattori” che di norma li circondano ed ai quali si aggrappano.

Il teatro rimette, o dovrebbe rimettere, tutto nuovamente in gioco.

Entrando in teatro è un po’ come se ci si sentisse “nudi”, e per questo disorientati. Sensorialmente ed esperienzialmente nudi.

Non c’è il telefono di casa che squilla, non c’è il cellulare (o almeno non dovrebbe esserci) che manda messaggi, che emette suoni, che ci ricorda appuntamenti e ricorrenze o che ci fa giocare, non vi sono le incombenze della vita quotidiana che invece si presentano regolarmente quando siamo a casa, non vi sono i genitori (o i figli, i fratelli, i coniugi, ecc.) che stressano e che ci richiamano a diverse occupazioni, non c’è il campanello di casa che suona.

Il teatro, insomma, è avulso.

Avulso e dunque isolato, in un certo modo, dalla datità della quotidianità. Ed è proprio questo suo isolamento che ne costituisce, in buona parte, una delle sue specificità  fondamentali, probabilmente una delle più caratterizzanti.

Weinrich l’aveva chiamata “serenità dell’arte”, ovvero quella sorta di sentimento che permette allo spettatore di scegliere di fruire (o meno) un’opera d’arte e di congedarsi da essa in qualunque momento. È dunque “sereno” il lettore che decide di aprire un libro e di sorbirlo ed altrettanto “serenamente” potrà decidere, in qualunque momento, di chiuderlo e dunque di interrompere (provvisoriamente o anche per sempre) il contratto libero ed aperto siglato con l’opera d’arte stessa (cfr. Weinrich H., 1976, Metafora e menzogna. La serenità dell’arte, tr. Paola Barbon, Italo Battafarano, Lea Ritter Santini, Bologna, Il Mulino).

Tutto ciò non è possibile con la quotidianità, con quella “datità” di cui parla Ortega y Gasset, ovvero con la realtà esperienziale e contingente in cui ognuno di noi è catapultato e dalla quale è difficile emanciparsi.

 “La vita è imprigionamento nella realtà circostanziale. (…) La vita è un fare dei più varii. E tutto ciò in lotta con le circostanze e perché l’uomo è prigioniero in un mondo che non ha potuto scegliere. (…) Ad una creatura come l’uomo, la cui condizione è lavoro, sforzo, serietà, responsabilità, fatica e gravità, è assolutamente necessario il riposo. Riposo da che? È chiaro: dal vivere o, che è lo stesso, dallo ‘stare nella realtà’, naufrago in essa. (…) Per questo, signori, la vita – l’Uomo – si è sempre sforzato di aggiungere a tutte le sue occupazioni imposte dalla realtà l’occupazione più strana e sorprendente, un fare che consiste precisamente nello smettere di fare tutte le altre cose che facciamo seriamente. Questo fare, questa occupazione che ci libera dalle altre è… giocare. (…) Il gioco, quindi, è l’arte o tecnica elaborata dall’uomo per sospendere virtualmente la sua schiavitù dentro la realtà, fuggire, sot-trarsi a questo mondo in cui vive per rifugiarsi in un altro irreale. (…) La forma più perfetta di evasione verso l’altro mondo sono le belle arti. (…) Esse riescono effettivamente a liberarci da questa vita in modo più efficace di qualsiasi altra cosa. (…) Il più importante di questi metodi di evasione che sono le belle arti, quello che più completamente ha consentito all’uomo di sfuggire da suo penoso destino, è stato il Teatro nelle epoche in cui ‘era in forma’”. (Ortega y Gasset, 1986, pp. 161-164).

Difficile, ma non impossibile. Affrancarsi e “divertirsi” (ancora una volta nel suo significato etimologico: allontanarsi, come sempre Ortega ci rammenta) è possibile proprio facendo ricorso all’opera d’arte, ad uno spazio museale, ad un luogo deputato ad una messinscena teatrale o multimediale, ad una proiezione video-cinematografica, ad uno di quegli “happening” oggi sovente tramutatisi in eventi di matrice prevalentemente commerciale e promozionale che sempre meno possono essere ricondotti all’arte; almeno a quel genere d’arte cui in questa sede facciamo riferimento e che ha come precipua, ma non unica, caratteristica, quella di essere svincolata dalla strumentalità della vita quotidiana.

Il rimando, inevitabile, a questo punto, va anche a Brecht ed al suo “distacco epidittico” e quindi a quel teatro di matrice prevalentemente didattica che trova il suo presupposto in quel Verfremdungseffekt, in quell’effetto di straniamento che consiste proprio, ma non solo, nel pro-porre, nel ri-proporre, la realtà della datità quotidiana sotto un’altra prospettiva, con una distanziazione che non può non risolversi in critica, in presa di posizione, in atto partigiano che richiama il dovere civico (civile) di ogni abitante di una comunità.

La poetica teatrale di Bertolt Brecht, infatti, è fondata, come si sa, sull’effetto di straniamento che caratterizza la messa in scena di un’opera teatrale in tutte le sue componenti e nell’ambito di tutti i rapporti (intersoggettivi come interoggettivi: soggetto-oggetto; soggetto-soggetto; oggetto-oggetto) che essa instaura. Lo straniamento (ovvero l’allontanamento, la costante presa di coscienza della propria alterità nei confronti del soggetto o dell’oggetto in questione) regola difatti il rapporto fra l’attore e il suo personaggio, tanto che l’interprete più che tale finisce col diventare un “annunciatore”, un “presentatore” del suo personaggio. Non solo. Anche nei confronti della storia, della vicenda, l’attore mantiene un atteggiamento di non-coinvolgimento, di distacco, sempre di straniamento, dunque. Lo stesso accade anche nel suo rapporto con gli oggetti scenici, con la scenografia, con i costumi, il trucco, le musiche o gli altri elementi multimediali che tessono la partitura della messinscena teatrale, della sua epifania, della rappresentazione (rap-presentazione).

Tutto è lì, in sostanza, solo in funzione di una messa-in-scena, di una esaltazione (a scopi “didattici”) della quotidianità. Tutto ciò che attornia l’attore (e, infine, anche egli stesso) fa parte di una sorta di programma dimostrativo, di un macroesempio parabolico nato dal “rigonfiamento” (dall’esaltazione, appunto) di un frammento di microquotidianità. E così gli oggetti, le musiche, i cartelli, i filmati, le didascalie, ecc.

Tutti questi elementi si presentano separatamente, ognuno con una propria presa di posizione, con un proprio ideale o carattere da mettere in mostra, pur non rinnegando la totalità dell’opera completa cui tutti s’ispirano.

 “L’irruzione dei metodi del teatro epico nell’opera ha per conseguenza maggiore una radicale separazione degli elementi. La grande lotta per il primato fra parola, musica e recitazione (che sempre provoca la questione chi sia l’occasione di che cosa – se la musica del fatto scenico oppure il fatto scenico della musica, ecc.) può essere risolta semplicemente grazie alla netta separazione degli elementi. Finché l’ ‘opera d’insieme’ significa che l’insieme è una slavatura, finché cioè si tratta di ‘fondere’ le diverse arti, tutti i singoli elementi vengono necessariamente degradati in ugual misura, giacché ognuno può costituire solo uno spunto per l’altro. Nel processo di fusione viene incluso anche lo spettatore che fondendosi finisce col rappresentare, nell’insieme, una parte passiva. Bisogna rinunciare a tutto ciò che rappresenta un tentativo di ipnosi, a tutto ciò che è atto a produrre indegne ubriacature e nebulosità” (Brecht, 1962, pp. 30-31).

Per scongiurare un tale “processo di fusione”, per creare la separazione degli elementi e per far sì che “ogni scena stia per sé”[2] è necessaria la presenza dell’intervallo, di diversi e non casuali momenti di sospensione della messinscena, che favoriscano la distanziazione degli elementi scenici fra loro e dello spettatore da ciò cui assiste.

La presenza degli intervalli (l’alternarsi continuo di questi ultimi con i “pezzi” di rappresentazione vera e propria) impedisce l’immersione dello spettatore nelle emozioni della vicenda e favorisce la creazione di un altro intervallo, ovvero la distanza fra sala e palcoscenico.

In questa condizione di distacco il fruitore viene invitato ed esortato alla riflessione, al giudizio, piuttosto che alla suggestione dell’illusione scenica.

 “Nel teatro epico alla Brecht, per mezzo di meccanismi teatrali vari, tra cui il più noto è quello dello ‘straniamento’ – di quando in quando un attore dice, ad esempio: ‘Badate, io rappresento il signor tal dei tali, grande industriale di Chicago – la rappresentazione drammatica cerca di superare l’impatto illusorio della scena: l’idea è che lo spettatore dovrebbe sempre essere capace di giudicare ciò che vede, senza abbandonarsi all’illusione” (Vattimo, Perniola, 1990, p. 55).

 La non-illusiorietà della messinscena non fa dello spettatore, però, materia inerte e disinteressata a ciò che viene rappresentato.

 

Al contrario.

Lo scopo è proprio quello di scrollarlo dal consueto torpore cui è avvezzo il teatro di matrice borghese, di farlo meravigliare e quindi stupirlo di fronte alla messa-in-scena di ciò che gli è quotidiano e familiare. Il teatro “ deve meravigliare il suo pubblico; e a tanto può giungere mediante una tecnica che stranii ciò che è familiare” (Brecht, 1962, p. 132). Una tecnica, cioè, in grado di creare continui intervalli, cesure, diastemi critici, di intercalare i “pezzi” della rap-presentazione con momenti di sospensione della / dalla stessa.

La sensazione di estraneità provata per ciò che altrimenti è abituale e consueto è infatti possibile e facilitata se lo spettatore viene spronato a mantenere un atteggiamento di distacco nei confronti della “materia” scenica.

 “ ‘Non c’è nulla di più bello che stare sdraiati su un sofà e leggere un romanzo’, dice un narratore del secolo scorso. Ciò suggerisce fino a quale punto di rilassamento un’opera di narrativa possa portare il fruitore. L’idea che ci si fa comunemente di chi assiste a un dramma è pressapoco il contrario. Ci si immagina un uomo che segue un succedersi di eventi, profondamente teso in tutte le sue fibre. Il concetto di teatro epico (che Brecht ha elaborato teorizzando la sua prassi poetica) implica specialmente che questo teatro esige un pubblico rilassato, in grado di seguire l’azione con distacco” (Benjamin, 1966, p. 127).

Un pubblico che prenda dunque coscienza, innanzitutto, della sua condizione, o meglio del suo ruolo che è, appunto, quello di pubblico, di qualcuno che assiste in piena libertà ad una rappresentazione che ha liberamente scelto di andare a vedere. Quella serenità dell’arte, cui abbiamo riferimento nelle pagine precedenti con il contributo di Weinrich, ha dunque un ruolo di primaria importanza nella poetica teatrale brechtiana in cui, nonostante la caduta della “quarta parete” del teatro borghese, uno dei primi presupposti è il distacco fra il pubblico e ciò che accade sulla scena.

 

Presupposto che Brecht individua anche nelle forme più arcaiche di rappresentazione teatrale.

“Lo sforzo di creare un distacco fra il pubblico e gli avvenimenti rappresentati si può riscontrare, a uno stadio primitivo, nelle recite teatrali e pittoriche delle vecchie fiere popolari. Il modo di parlare dei clown da circo e il modo di dipingere usato nei baracconi da fiera esercitano un’azione di straniamento” (Brecht, 1962, p. 72).

Del teatro borghese la poetica teatrale brechtiana abbatte la cosiddetta “quarta parete” perché con essa il pubblico rischiava di percepire lo spettacolo in qualità di qualcosa di completamente autonomo dalla sala, che prescindeva dagli spettatori e dalle loro reazioni. Lo spettacolo rischiava così di essere considerato come qualcosa di reale di fronte al quale lo spettatore veniva a trovarsi solo casualmente.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

- Benjamin W. (1966) Che cos’è il teatro epico?, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa (tr. E. Filippini), Torino, Einaudi. Ed. or.: (1955), Frankfurt am Main.

- Brecht B. (1962) Scritti teatrali (tr. E. Castellani, R. Fertonani, R. Mertens), Torino, Einaudi. Ed. or.: (1957), Frankfurt am Main.

- Giunta C. (2008) L'assedio del presente. Sulla rivoluzione culturale in corso, Bologna, Il Mulino.
- Ortega Y Gasset José (1986) Meditazioni del Chisciotte (tr. B. Arpaia), Napoli, Guida. Ed. or.: (1957) Meditaciones del Quijote, Madrid, Universidad de Puerto Rico.  

- Vattimo G., Perniola M. (1990) Arte e illusione, in Vattimo G., Filosofia al presente, Milano, Garzanti.

- Weinrich H. (1976) Metafora e menzogna. La serenità dell’arte (tr. Paola Barbon, Italo Battafarano, Lea Ritter Santini), Bologna, Il Mulino.



[1] Facciamo qui riferimento all’etimologia della parola “divertimento” legata all’aggettivo latino diversus, che propriamente significa vòlto altrove, voltato in altra parte e traslativ. opposto, contrario, dal verbo latino divertere (supin. diversum) volgere in altra parte, allontanarsi, composto dalla particella di(s) da (indicante allontanamento) e vertere: volgere e fig. cangiare, mutare, trasformare.

[2] Brecht dispone su due colonne contrapposte le diverse caratteristiche della forma drammatica del teatro e di quella epica. In quest’ultima l’indicazione “ogni scena sta per sé” si oppone all’espressione “ogni scena serve l’altra” della forma drammatica, Ibidem, p. 30.

 
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