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Post n°508 pubblicato il 21 Settembre 2009 da L_assenza

La coscienza di Sé dopo la morte clinica

(Vita latente)


Viene qui formulata l'ipotesi di vita intellettiva latente quale stato della coscienza post mortem di ogni essere, stato che permarrebbe per un periodo di tempo imprecisato dopo la cosiddetta morte clinica, e che si annullerebbe solo con il completo dissolvimento dei neuroni del sistema nervoso centrale.
Alla base di tale ipotesi c'è la convinzione che la coscienza sia il risultato dei processi di comunicazione tra i vari tipi di neuroni, non solo di quelli motòri ma anche di quelli associativi e che la normale attività elettrica rilevabile da un elettroencefalogramma sulla cute del cranio di un paziente riguardi gli impulsi nervosi in ingresso o in uscita dai neuroni motòri, di ampiezza e durata tali da poter superare notevoli distanze, mentre gli impulsi elettrici tra i neuroni associativi dovrebbero avere complessivamente valori di tensione più bassi, e quindi difficilmente rilevabili tramite le normali tecniche elettroencefalografiche.
Se l'ipotesi qui formulata fosse suffragata da risultati di ricerche mirate, effettuate su pazienti in coma irreversibile (EEG piatto) e/o su pazienti da poco deceduti, la pietà per i defunti acquisterebbe un significato più profondo e  determinerebbe un assoluto rispetto per il corpo dell'estinto,vietando l'espianto dei suoi organi, in quanto si avrebbe la certezza che non solo i vari organi non cesserebbero di vivere  istantaneamente al cessare del battito cardiaco, riducendo gradatamente le loro funzioni, ma anche la coscienza  di Sé dell'estinto durerebbe un certo periodo di tempo, anche se limitato, dopo la cosiddetta morte clinica. 
  

 

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Oggetto: La coscienza post mortem.
 

Egregio Mr. John,
Le scrivo questa lettera per avere una sua opinione strettamente personale su un argomento molto delicato, quello della "coscienza di sé" della persona dichiarata morta, nel periodo che va dal manifestarsi, nel suo cervello, dell'elettroencefalogramma piatto fino al dissolvimento dei neuroni.
In occasione delle campagne pubblicitarie volte a sensibilizzare la gente sul problema della donazione degli organi si e' sempre insistito, per ciò che concerne la sicurezza del donatore, sulla morte certa in caso di elettroencefalogramma piatto. Direi che più che di morte certa, si dovrebbe parlare di morte presunta, perché non si sa di morti resuscitati che ci possano raccontare del travaglio post mortem della mente.
Non vorrei sbagliarmi, ma mi sembra di ricordare che in passato ci sono stati casi, pur se rari ed eccezionali, di persone dichiarate morte (con arresto cardiaco ed elettroencefalogramma piatto), coinvolte in incidenti stradali, le quali, dopo vari tentativi di rianimazione,  hanno successivamente avuto un "risveglio" ed hanno raccontato agli astanti tutto ciò che era accaduto intorno a loro, dal momento della morte a quello del risveglio, e ciò che veniva raccontato dai "resuscitati" non era frutto di allucinazioni bensì era effettivamente l'accaduto. In quei casi si è parlato di fatti inspiegabili dalla scienza. Io non so se in qualche centro di ricerca si sia mai effettuata una registrazione, tramite le attuali tecniche di risonanza magnetica, dell'attività del cervello dopo la morte, ma penso che ancora non si possa avere, senza l'utilizzazione di sonde "in loco", quella risoluzione della misura sufficiente a registrare l'attività elettrica delle singole sinapsi neuroniche. 
E' infatti a tale attività che si deve il passaggio, da una zona all'altra del cervello, delle informazioni necessarie alla costruzione, nel cervello stesso, della sensazione della "coscienza di sé".
Nell'ipotesi che ricerche mirate abbiano invece dimostrato, tramite metodi di misura innovativi, la presenza di una sia pur debole attività funzionale del cervello post mortem, penso che i risultati di tali ricerche sarebbero mantenuti segreti per vari motivi, non solo perché la loro diffusione potrebbe inficiare seriamente la propaganda sulla donazione degli organi, ma anche e soprattutto perché la relativa notizia metterebbe una grossa ipoteca sulle speranze di vita ultraterrena, sulle quali si basano pressocché tutte le religioni, turbando così la tranquillità di molte popolazioni.
Certo, il morto, nel quale si siano verificati i primi fenomeni di decomposizione organica, non può più, allo stato attuale dell'arte medica, tornare alla vita, anche nell'ipotesi di una sua "coscienza di sé" limitata nel tempo.
Ma mentre è normale pensare che la vita sia essenzialmente comunicazione dell'essere con se stesso e con il mondo esterno, non è invece lecito pensare, neppure per un istante, che l'eventuale "coscienza di sé" dell'estinto possa essere assimilabile a un flebile rigurgito della sua mente, utile solo a lui ma non alla comunità. Né si può affermare, cinicamente, che "non importa se il morto ha qualche sprazzo di coscienza, tanto quest'ultima è destinata ad annullarsi". 
Ebbene, io non so se tale "coscienza di sé" della persona morta duri secondi, ore o giorni, ma la mia mente ha un sobbalzo all'ipotesi che anch'io, quando sarà giunto il mio momento, affetto dalla paralisi mortale, dovrò assistere impotente al dissolvimento del mio corpo. Tuttavia, pensando che questo è il destino di tutti gli esseri viventi e ripensando ai principi religiosi inculcatimi nell'infanzia, mi consolo illudendomi della possibilità di un'altra vita, che forse ci sarà, forse non ci sarà. E poi, anche se non ci fosse, l'importante è fingere di credere che ci sarà, perché ciò aiuta la ragione ad affrontare il tremendo pensiero dell'ineluttabile annullamento dell'essere. Ma sono anche certo che se l'uomo avesse la prova definitiva dell'annullamento del proprio essere con la morte fisica, egli, essendo fondamentalmente pragmatico,  non sprofonderebbe affatto nella disperazione ma, dopo un periodo di preoccupazione e di smarrimento, rimuoverebbe semplicemente il problema dalla sua mente.
Tornando alla donazione degli organi, prenderei ora in considerazione le due ipotesi:
1) Con l'elettroencefalogramma piatto la "coscienza di sé" del "de cuius" cessa immediatamente di esistere e quindi non si reca danno alla sua mente se si estraggono organi dal suo corpo.
2) Con l'elettroencefalogramma piatto il "dichiarato morto" ha ancora "coscienza di sé" per un certo periodo di tempo, che si potrebbe definire di vita latente. Durante tale periodo  egli, anche se in assenza di dolore fisico per la paralisi dei collegamenti nervosi tra il cervello e la periferia, avrebbe la sensazione di essere squartato vivo mentre vengono asportati gli organi dal suo corpo.
Mi sono spesso chiesto  perché l'uomo in vita, invece  di rompere la pace dell'estinto, non perfezioni le tecniche di realizzazione degli organi artificiali e della loro produzione in serie, o non utilizzi l'ingegneria genetica per attivare la rigenerazione, nel corpo vivente, dell'organo malato o perduto, con un meccanismo simile a quello della ricrescita della coda nelle lucertole. Tale comportamento umano sarà forse perché, per fare alcuni esempi, con la tecnologia attuale dei sensori o dei dispositivi optoelettronici non si è ancora raggiunta la perfezione di un occhio naturale, o perché le attuali pompe meccaniche non possono ancora uguagliare la perfezione di un cuore vero. Ma la spiegazione di tale comportamento potrebbe anche essere quella, molto più semplice e deludente, che un organo donato costa molto di meno di un organo artificiale.
Egregio Mr. John, io non appartengo a nessuna associazione contro la donazione degli organi e questa mia lettera ha solo lo scopo di evidenziare il problema dell'accertamento pieno della morte, al di là di ogni ragionevole dubbio, problema che a mio parere non è stato ancora abbastanza approfondito. Se l'ipotesi di vita latente espressa nella lettera fosse verificata (e chi, scienziato, ricercatore o medico, sa qualcosa deve parlare!), con l'espianto degli organi entreremmo tutti in un'era di barbarie. In attesa di un Suo commento,  Le invio cordiali saluti.     Ignazio Farnè
Roma, il 18 Marzo 1999


 

 
 
 
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