Creato da guarneri.cirami il 18/07/2009
 

Racconti&altro

Le storie di Alberto Guarneri Cirami: i suoi romanzi, i suoi racconti e il suo teatro.

 

 

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I Racconti di Guarneri Cirami: L'Incredibile Storia del Gabelloto e dello Spiritato

Post n°948 pubblicato il 29 Ottobre 2011 da guarneri.cirami
 

 A Daniela Vicino che mi ha raccontato una storia

A Costanza Grifeo che mi ha dato l’occasione per scriverla

e nella sera di Halloween, al Palazzo Reburdone, l’ha interpretata con straordinaria intensità

 

Laggiù, laggiù, sul quel colle, da dove si vede il mare, in contrada Salvatorello, il patri di me patri, Don Nino Vicino, cento anni fa, teneva delle terre in gabella[1]. Erano terre magnifiche: di ulivi, mandorli, viti; di rocce calcaree e misteriose caverne, dove, qualcuno narrava, si aggiravano ancora gli spiriti degli antichi abitatori di Qal'at al Ghiran.

Antonino Vicino raccontava di suo nonno – un vero galantuomo, raro esempio di gabelloto che trattava con umanità i suoi braccianti – alla figlia Daniela, mentre percorrevano in bicicletta il tracciato dell'antica ferrovia che, negli anni Venti, congiungeva Caltagirone a Piazza Armerina.

-          Era bello d’estate, mi raccontava mio nonno, - continuò Antonino col fiatone della pedalata,- quando tutta la famiglia veniva qui, da Caltagirone, per la villeggiatura. “Sarà stato per lu straventu e macari per lu travagghiu, che l’omini parivanu allùpati, mugghieri e soggìri giniusi e sinceri, e li picciriddi, cu lu mussu sporco di mènnuli e cioccolato, di li diavuli petri petri…”

-          Bello, - rimarcò Antonino con uno sguardo strano rivolto alla figlia, - ma solo quando ancora faceva chiaro ed i nostri antenati venivano distratti dal lavoro dei campi e delle conserve, dal profumo della carni e dei pipi arrostiti sul fuoco...

Perché il solo ricordo delle notti trascorse a Salvatorello ogni volta metteva i brividi a nonno Nino. Pitruliati contro la porta, vuci forti, di cantanti di suprani di tinuri, sciarre in lingue mai ntisi , duelli cu ferru e cu focu; e Pinuzzo Strano, il caruso di Don Nino, che parlava nel sonno come fosse un oratore, di Crispi, di Giolitti, dei fasci e della Rerum Novarum. Cose insomma dell’altro mondo, se si pensa che Pinuzzo, gran lavoratore, non sapeva ne leggere, ne scrivere, oltre ad essere tardo di intelletto e balbuziente. Furono li fimmini ad accorgersi dell’oscuro legame esistente tra Pinuzzo e gli spiriti stravacanti della contrada, quando un giorno il caruso cominciò a dare i numeri del lotto e a fare le profezie. Furono prima le signorine innamorate con lo zito soldato, ed i giovanotti sfaticati, che speravano di fare i sordi senza travagghiari.

In verità la cosa cominciava, ogni volta, in maniera alquanto impressionante: Pinuzzu si sentiva male, stracanciava in viso fino a diventare jancu ed urlava.

-          Madonna mia! Li sirpenti, li sirpenti ca mi vogliono affucari!

Così  prendeva lu cuteddu, cchi ci serviva pi nzitari le viti, e cominciava a menar per aria fendenti, che facevano rabbrividire la carne tenera dei picciriddi; per poi piombar per terra come morto con lu cuteddu ficcato dentro la creta. In questo stato di trance, in manera inaspettatamente struita, Pinuzzo dava voce alle sue visioni. Sfortuna volle, per don Nino Vicino, che un giorno Pinuzzo raccontasse di una truvatura, di un tesoro, lasciato lì, in una delle caverne di Salvatorello, da Cavalieri di Malta di passaggio; e che il giorno successivo identificasse con precisione e dovizia di particolari la caverna in cui si trovava nascosto il tesoro, da dissotterrare dopo la mezzanotte del quindici di agosto.

Don Nino non stava più nni li so causi per la contentezza, sognando una vita alla grande in cui, finalmente , avrebbe potuto “purtari li causi”[2] senza essere più gabelloto, con tutti quegli obblighi verso il padrone della terra. Così dette al suo garzone una doppia razione di caponata e di melenzane buttunate e, a mezzanotte del quindici, mentre tutti dormivano, se ne andò con lui nella caverna, che i buoni spiriti di Pinuzzo avevano indicato. Don Nino con la lanterna, Pinuzzo carico di zappa, pala ed arnesi vari cominciarono a scendere tra tutto quello scuro, non senza timore. Il miraggio, tuttavia, del tesoro serviva loro a vincere la fifa. Scinnivano, scinnivano, ma più scendevano e più scavavano, più niente trovavano. “Che quella bestia si fosse sbagliato?” si chiese Don Nino, innervosito e stanco per quella camminata, con la tentazione di tirare un càuciu a quell’imbroglione e, attraverso lui, a tutti li dannati spiriti di quella contrada che, forse si erano presi gioco di lui. Ma non c’è ne fu il tempo: perché, all’improvviso, uno spiffero di vento infido, entrato chissà da dove, spense la lanterna. A quel punto un odore puzzolente di zolfo si diffuse per la caverna ed una ridda di voci incomprensibili e di risa maligne circondò i due poveretti, che vennero legati con le loro stesse funi. Altro che tesoro; legnate, càuci, pugni e timpulate! Botte da orbi per tutte le ruote, specie al povero Pinuzzo, che la pala sulla testa pure li sfasciarono. Li trovarono i braccianti di Don Nino l’indomani, più morti che vivi, tanto che in ospedale li dovettero portare senza perder tempo.

Don Nino si sentiva un groppo in gola che non lo faceva respirare. Era ancora spiritato! Con gli occhi sbarrati non faceva che ripetere ai suoi famigliari: “Esiste lu ‘nfernu figghi mii, l’haju visto io! Mai più, mai più a Salvatorello!” Così, una volta guarito, subaffittò le terre ad un suo amico, e da lui sistemò pure Pinuzzo: che il solo vederlo gli faceva impressione.

Quanto a Pinuzzo: risvegliatosi dal coma, una volta passato il dolore delle legnate che l’aveva fatto lamentare durante tutta la sua degenza, perse il suo dono (se dono poteva dirsi!). Non parlò più ne da sveglio, ne da addurmisciutu.  Muto per sempre diventò. Solo che, a chi lo incontrava (anche se poi non lo andava a raccontare per timore di essere preso per matto) capitava di avvertire come un venticello infido sul collo, come una risata maligna, strudusa, che veniva chissà da dove; ed tutto attorno al povero Pinuzzo un insopportabile lezzo di zolfo e putrefazione….

 

 


[1] Contratto d’affitto di grandi estensioni di terreno in uso in Sicilia. Il gabelloto si identificava spesso con il mafioso, ma non sempre com’è nel nostro caso

[2]Essere padrone

 

 
 
 
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