Creato da guarneri.cirami il 18/07/2009
 

Racconti&altro

Le storie di Alberto Guarneri Cirami: i suoi romanzi, i suoi racconti e il suo teatro.

 

 

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Racconti: I Mali Passi di Guarneri Cirami

Post n°466 pubblicato il 19 Maggio 2010 da guarneri.cirami
 

Gli amici di Far Finta di Niente presentano questo racconto ispirato al pensiero tradito del grande calatino Don Luigi Sturzo

Palermo. Antonino Santacroce, ex consigliere regionale,  sin dagli anni settanta uno dei più noti e potenti esponenti della Democrazia Cristiana siciliana,  è stato arrestato nella sua villa di Cefalù nella notte del 17 settembre 1993. Cognato del noto senatore nisseno Ferdinando Malaspina, l’ultimo viceré di Sicilia  è accusato di ricettazione ed associazione mafiosa. In particolare si ipotizza il reato di voto di scambio, che sarebbe stato perpetrato dal Santacroce durante la recente campagna elettorale. Santi Lo Castro,  nel sentire le notizie del TG1 delle tredici rimase basito, a fissare lo schermo nero della TV, mentre la sofisticata poltrona di pelle, regalatagli dall’ultimo medico sistemato all’Ospedale del paese , aveva d’improvviso perduto tutte le sue comodità.  L’intera sua vita pubblica trascorse, dinanzi al suo sguardo introspettivo, in un baleno: dai primi entusiasmi giovanili, come attivista del partito, ai complotti nei corridoi dei disincantati palazzi della politica. Santi Lo Castro respirava a fatica, tanto da sciogliere in malo modo, con l’uncino delle sue dita tremanti, il nodo della cravatta firmata, dono di un uomo d’onore di Partinico che, da solo, in una memorabile campagna elettorale, gli aveva portato più di mille anime. L’uomo non s’accorse che il suo unico figlio maschio, Filippo – quel “testa di cazzo” che a trent’anni continuava a “addivirtirisi cu li so sordi! – era dietro di lui. E quando Filippo si mise  a commentare incredulo e divertito l’arresto del padrino , Santi  infastidito della “minchioneria del figlio, senza ciriveddu come sua  matri”, lo sgridò senza ritegno, gettando per aria il telecomando – come fosse quello il colpevole della brutta notizia . “ Vai a manciari,” gli disse “ che tua matri aspetta, lasciami solo!”. Santi non volle neanche stare  a sentire della gita in barca organizzata dal figlio, ma andò a rinchiudersi nel suo studio mormorando: “Arrestano suo patri e lui se ne va in barca!”. Perché sicuro era Santi Lo Castro che, una volta preso Santacroce, anche lui avrebbero messo in galera: erano anni infatti che combinavano affari insieme. Qualcuno aveva vuotato il sacco alla fine. Ma tutti, tutti sapevano da tempo della contaminazione tra criminalità organizzata, politica locale ed istituzioni dell’isola guidati dal vicerè e dai suoi lavapiatti. Si tutti lo sapevano; solo che chiudevano un occhio, anzi tutti e due! Anche certi magistrati, che davano confidenza a galantuomini, a cui la gente attribuiva saghe di efferati delitti. Persino i carabinieri, che si guardavano bene dal disturbare le riunioni tra il Santacroce e gli innominabili; perché, si diceva, il cognato senatore anche le forze dell’ordine controllava. Fu la moglie ad interrompere il filo dei suoi pensieri. “Che ti senti male, Santi? A mangiare non ci vieni?” gli chiese, cercando invano di aprire la porta chiusa a chiave. Per poi tornare dopo il pranzo con la scusa del caffè.  “Ma, a messa non ci vieni?” Lo Castro no, in chiesa  non ci voleva andare. Nessuno, voleva vedere! Sarebbe stato insopportabile per lui il peso di tutti quegli sguardi curiosi, maligni su di lui. “Nemmeno il tuo amico qui vuoi vedere? ” E no! A Michelino Laiacona lui era affezionato. Al suo pupillo aprì senz’altro la porta, per poi richiuderla subito in faccia alla moglie sgomenta, e tornare a scrivere la sua lettera. “All’onorevole Santacroce hanno arrestato, dott. Lo Castro! L’avete sentito..?” gli disse Michele, preoccupato. Da tempo Lo Castro  aveva benedetto la futura unione del giovane con Annalisa, la sua figlia prediletta. Quei due ragazzi gli ricordavano se stesso agli inizi, quando aveva ancora degli ideali, quando non aveva ancora compiuto, emulando i suoi cattivi maestri, quei “mali passi” che lo stavano portando alla rovina. Egli li ammirava, da quando avevano sdegnosamente rifiutato l’impiego in una sorta di ente fantasma e dei quattrini facili facili. Ma  lui, Santi, rimaneva un ladro, al pari di Santacroce e di Malaspina, al pari di tanti altri colleghi di partito e dell’opposizione. Siccome, però, rubavano, truffavano quasi tutti, era da tempo sbiadito, nel partito e nelle istituzioni, il confine tra liceità ed illiceità dei comportamenti, godendo i più furbi di privilegi ed impunità non concessi alla gente comune. “No, dottor Lo Castro, no voi non siete un ladro! Non potete essere un ladro! Io vi conosco! Voi sempre il bene del partito e della nostra isola avete voluto. Per questo vi siete sempre battuto, anche a rischio della vostra salute. Vi difenderò io!”. Santi,intanto, a tutto questo ingenuo discorso del giovane, rispondeva di no con la testa ; poi si alzò, mettendosi una busta in tasca, ed afferrò il giovane per le spalle. “Ascoltami Michele,” gli disse, “ tu con questa faccenda non c’entri. Tu non ti devi immischiare. Non ti preoccupare che, Santi Lo Castro, sa ancora il fatto suo. Ascoltami piuttosto: tu e mia figlia dovete accettare quelle borse di studio lassù a Milano. Dovete andarvene via, subito… Promettimelo! Fatemi stare tranquillo…” “Ma perché, voi dove sarete…?” domandò Michele frastornato. “Ma che, ancora non l’hai capito?” gli rispose Santi. “ Mi arresteranno! E forse in galera ci dovrò stare per un bel po’; almeno che non vuoti il sacco anche su quei nostri amici…”. In quel momento bussò ancora la moglie, per avvertirlo che, dopo la messa, andava a fare la solita partitina a carte con le amiche,  e si portava il suo carnet di assegni. “ Ma, a vostra moglie non dite  niente…?” chiese meravigliato il giovane. “ Lasciamola svagare povera donna, che ne avrà grattacapi ed incombenze da sbrigare nei prossimi giorni! L’importante è che li lascio ricchi lei ed i suoi figli. Anche se bloccano il conto corrente o sequestrano qualche immobile qui in Sicilia, ci sono i conti e i beni all’estero…”disse scuotendo il capo Santi, mentre inginocchiato prendeva dei vecchi libri, li ripuliva dalla polvere e li poneva dentro un borsone.  “Qua in questi libri, Michele,” disse Santi trasfigurato dal dolore e dall’amarezza, “ c’è tutto il patrimonio di pensiero che  ci ha lasciato Don Luigi Sturzo; e che noi non abbiamo voluto accogliere. Queste idee, infatti, non entrarono mai nelle sezioni del partito, almeno in quelle che ho frequentato io! Qualcuno importante della DC, al  ritorno dall’esilio di Sturzo, ci disse chiaro e tondo che si era rimbambito, pensa! Lo stesso De Gasperi, che pure gli voleva bene e lo stimava, sosteneva che era impossibile nella vita concreta delle istituzioni mettere in pratica il suo pensiero. Molti allora – specie quelli della sinistra del partito – non gli perdonavano le sue catastrofiche profezie in quel periodo di boom economico. Egli ammoniva  il partito a  non compiere i “mali passi”, a non allontanarsi dalla dottrina sociale della chiesa, a non seguire le “tre male bestie” – lo statalismo, la partitocrazia, lo sperpero del danaro pubblico – che avrebbero prodotto solo un pauroso deficit pubblico e la corruzione della classe dirigente. Io credo, Michele, che se fossimo rimasti fedeli al suo pensiero non sarebbe successo tutto questo! Io forse non sarei diventato un ladro! Per tale ragione voglio donare a te questi libri; perché ci sia ancora una speranza per la buona politica!”.  Nel frattempo  una sirena dei carabinieri, sempre più vicina, dovette  apparire a Santi come un incubo, che incredibilmente si materializzava. Michele lo vide correre, all’improvviso, come una bestiola inseguita, e provò pietà per quell’uomo che aveva sempre ammirato. “Ma non voleva costituirsi, dottor Lo Castro?” gli chiese deluso, mentre con l’ascensore scendevano in garage. “Si, si, lo farò!” promise Santi frettoloso, “ma non voglio che mi portino via con le manette sotto gli occhi dei miei vicini…”. Arrivati, poi, in garage, egli usci da una tasca una pistola e, con mano tremante ,tentò di consegnarla a Michele. “ Ti chiedo un favore, l’ultimo favore, Michele, aiutami a morire. Sono troppo vigliacco per premere il grilletto!” Michele a quella richiesta, rinculò inorridito, accennando di no con la testa. “ Come potete chiedermi questo? Non avete timor di Dio? Vigliaccheria sarebbe uccidersi; perché il coraggio ci vuole ad affrontare la vita. Ma se uno ha fede!” urlò Michele. “ Fede? Fede? Una volta forse. Ma è da tempo che non mi pratico con Dio, a parte la parata domenicale. Quando,  caro Michele, con una tua parola puoi dare la vita e la libertà ad un uomo, alla sua famiglia – perché un posto di lavoro ed uno stipendio mensile ti fanno vivere con dignità, senza la paura degli usurai  -, va a finire che tu stesso ti senti un dio e vedi la terra come l’unico paradiso possibile. Ma hai ragione, scusami, non dovevo chiedertelo…”. Santi buttò via la pistola, nel mentre che una lunga macchina nera  entrava dentro il garage. Erano i picciotti di Don Cosimo Arnone. Che un altro regalo gli voleva fare quel galantuomo?  Appena li vide l’agire di Santi divenne frenetico, incomprensibile al frastornato Michele: l’abbracciò frettolosamente e gli consegnò una busta per la famiglia. “Ora tu va via, Michele, spicciati!Credo che questi amici mi toglieranno dall’impiccio…Ora si, che avrò bisogno di Dio!” Di fronte  alle rimostranze di Michele, Santi lo spinse letteralmente via da sé, fin dentro la sua macchina, incitandolo a mettere in moto e a partire, che quei suoi amici fino dai Carabinieri lo avrebbero accompagnato. Così mentre Santi si avviava lentamente verso quelli della  macchina nera, Michele spinse forte, nervoso, sull’accelleratore ed uscì dal garage. Ma c’era qualcosa che non lo convinceva in quei tipi, cosicché si mise a girare attorno al palazzo indeciso sul da farsi, fina a quando la macchina nera, venuta fuori a folle velocità da quel garage, sgommando sull’asfalto, quasi non lo investì. A quel punto quell’impressione negativa si trasformò in un cattivo presentimento e si mise a piangere, a tremare, finché non lo vide a Santi: ai piedi di un pilastro, giù nel sotterraneo, con il tronco legato, a sostenere il suo corpo inanimato, e la testa penzoloni sul petto, strangolato con la cravatta che gli aveva regalato quel galantuomo di Don Cosimo Arnone…

 

 

 
 
 
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