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Racconti&altro

Le storie di Alberto Guarneri Cirami: i suoi romanzi, i suoi racconti e il suo teatro.

 

 

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Racconti: Hanno ammazzato Nino di Guarneri Cirami

Post n°468 pubblicato il 27 Maggio 2010 da guarneri.cirami
 

Gli amici di Far Finta di Niente presentano il nuovo racconto di Guarneri Cirami dedicato al giudice di Canicattì Nino Saetta...

 

Alla memoria del Giudice Antonino Saetta

Con un sentito ringraziamento allo scrittore Carmelo Cannizzaro Sciascia che al giudice ha dedicato un saggio “come un grido di sdegno e di dolore di fronte all’oblio”, dal quale ho attinto la documentazione per questo racconto

 


Quando il capitano Drago gli telefonò, per comunicargli, con voce avvilita, che avevano ammazzato il presidente Saetta, il suo collega ed amico Nino Saetta, il giudice non ci voleva credere. Un brutto sogno gli pareva! Inebetito, vagava per la casa buia, ripetendo “ a Nino, a Nino hanno ammazzato; un brutto sogno ha essiri.. Perché, perché poi a Nino che, riservato e modesto com’era, mai compariva su un giornale, su una televisione?”. Era mezzanotte passata, e sua moglie lo chiamò spaventata. “E che, male ti senti, Franco? Ti preparo un po’ di alloro…?”. Allora il giudice andò da lei, e gli ripeté tutto d’un fiato: “ Hanno ammazzato a Nino, a Nino Saetta, te lo ricordi il mio collega..?” Certo che se lo ricordava sua moglie, tanto che scoppiò a piangere. “ Che galantuomo. Che persona squisita. Ma chi poteva volergli male a Nino...?”. Se solo ci pensava, Franco, sentiva delle fitte allo stomaco e al petto. Alcuni giorni prima, gli aveva riferito il capitano, si erano riuniti in una villino di Mondello i capimandamento delle varie provincie siciliane. In quell’occasione, forse, la Cupola, capeggiata dai corleonesi, aveva emesso la sua sentenza di morte nei confronti del povero Nino. Un piano elaborato nei minimi dettagli, per mandare un messaggio forte a quelli che credevano che la mafia fosse intimidita dalle condanne, dagli ergastoli comminate negli ultimi processi, dopo anni di assoluzioni ed annullamenti; un piano geniale, paziente, che, anche per depistare gli inquirenti, prevedeva che il giudice dovesse essere ucciso al suo paese, a Canicattì, e che quelli del mandamento di Canicattì avevano eseguito senza pietà, uccidendo anche il figlio maggiore del presidente Saetta, Stefano, che quella sera accompagnava il padre a Palermo. Era destino che quei due morissero insieme, col padre che, fino all’ultimo momento di vita, prima del colpo di grazia, dentro la macchina, finita fuori strada, crivellata di proiettili, aveva cercato col suo corpo di proteggere il figlio, come già era successo durante la fragile adolescenza di Stefano. Insieme, in quel terribile agguato, dopo una curva, lungo quella maledetta strada (dove due anni dopo avrebbero ammazzato pure Livatino), lo “scorrimento veloce”, che collega le provincie di Agrigento e Caltanissetta al capoluogo e che, nell’illusione dei residenti, doveva servire a scongiurare miseria ed isolamento. Erano circa le undici di sera del 25 settembre 1988: l’ora segnata dall’orologio, dal quadrante  scheggiato ed insanguinato, del presidente Saetta. Le lancette si erano, infatti, fermate nello stesso istante del suo cuore. Ma sarebbero passate ore prima che quei corpi martoriati fossero identificati; prima che un automobilista di passaggio s’accorgesse del massacro, così da telefonare agli inquirenti. Il giudice non si dava pace, biasimava se stesso per la leggerezza con cui, in quegli anni, aveva affrontato il problema della sicurezza dell’amico e collega, così da lasciarlo alla fine, insieme al figlio, alla mercé di quei vigliacchi. Nino Saetta, prima a Caltanissetta, poi a Palermo aveva, infatti, condotto grossi processi di mafia, per omicidi eccellenti, emanando anche, dopo troppe stagioni di assoluzioni ed annullamenti, condanne esemplari contro uomini di “cosa nostra”. Il bello era che ci avevano pure riso sopra; ed era così raro che Nino si lasciasse andare al riso! Solo col nipotino Alberto, nelle loro passeggiate in bicicletta alla Marina di Punta Raisi, permetteva simili strappi al suo carattere riservato, che qualche brillante collega, prodigo di apparizioni televisive, articoli, libri e partecipazioni a convegni, tutti all’insegna dell’antimafia, avrebbe definito “introverso”. “Ma chi vuoi che ci ammazza a noi della giudicante?” aveva detto Nino in quell’occasione. La convinzione generale era infatti che fossero quelli che operano in prima linea, gli inquirenti, il bersaglio preferito da Cosa Nostra, per spezzare sul nascere il filo delle indagini che avrebbero potuto approdare ad un processo, ad una sentenza, all’accertamento e alla condanna delle loro illecite attività. “Noi, in fin dei conti, siamo presidenti di una Corte, di un organo collegiale, che in quanto super partes, non si pone, come il Pubblico Ministero, contro il colpevole, ma, in qualità di garante di un processo giusto, tutela colui che, fino all’accertamento della verità, è solo un imputato...”. Soltanto adesso, ma troppo tardi, il giudice trovò argomenti per ribattere al ragionamento del collega ucciso. “Come se quegli infami, dinanzi alla prospettiva di una pena severa, di un ergastolo, potessero capire principi come la “terzietà del giudice” ed il “giusto processo”! Non me lo perdonerò finché campo, Nino, forse io ti potevo salvare…”   In verità il dottor Saetta la scorta non l’aveva chiesto mai, soprattutto perché lui – che non aveva mai pensato di trarre profitto dalla sua posizione privilegiata per far carriera politica, rimanendo sempre lontano dalla luce dei riflettori – voleva condurre una vita normale, da cittadino comune, che compiuto il proprio quotidiano dovere, espletate le delicate incombenze del proprio servizio, ama concedersi quattro passi a piedi nella bella Palermo, o una vacanza rilassante con la sua famiglia nel villino di Punta Raisi. “ Che poi la protezione, - diceva, intanto, il giudice alla moglie che, ancora frastornata da quella terribile notizia, gli portava una tazza di alloro fumante, “ non disposta per chi rappresenta per essa un ostacolo e dunque un bersaglio reale, veniva poi concessa d’ufficio a politici e preti, per il solo fatto di discutere di mafia nei convegni…” Protezione nella quale Nino Saetta non aveva mai creduto. Perché se la  mafia aveva deciso di ammazzare qualcuno, niente avrebbe potuto impedirlo; nemmeno tre auto blindate e decine di poliziotti. “Perché, caro amico mio,” gli disse una volta, “ come si dice da noi, a Canicattì: amaru cu è mortu ni lu cori d’antru!”. Lo squillo di quel maledetto telefono fece di nuovo rabbrividire il giudice. “Che può essere successo ancora..?”. Era un giovane magistrato, un sostituto del pool antimafia, che lo chiamava sconvolto per quella tragedia. “ Cose dell’altro mondo, presidente!” gli disse. “ Hanno ammazzato un magistrato di un collegio giudicante, non era mai successo! Questo non può non avere conseguenze negative sui processi che sono in corso. Vi vogliono intimidire. Da questo momento nessuno, neanche un giurato, potrà considerarsi fuori dal mirino della mafia; tantomeno un giudice che, come il dottor Saetta, fa niente altro che il proprio dovere, applicando la legge, nel rispetto delle norme procedurali e delle garanzie della difesa, ove questo comporti una condanna per i loro affiliati. Perché, presidente, come poco fa mi diceva il tenente dei carabinieri, è ipotizzabile che, per vendetta, oltre che per mostrare la loro onnipotenza,  i corleonesi abbiano ammazzato il dottor Saetta...”. Anni dopo un pentito avrebbe confermato la supposizione del magistrato. “ Stu curnutazzu,” avrebbero detto i mandanti del delitto in quella famosa riunione, “ci ha mancato di rispetto, e per questo deve pagare. Ma lo dobbiamo ammazzare anche perché questo  pericoloso è, non è “accunniscinnenti” come certi so’ colleghi, cu iddu non si po’ abbirsari nenti…”La telefonata aveva lasciato pensieroso il nostro giudice, che concordava pienamente con i timori espressi dal collega. Non era mai stato facile (figurarsi dopo quel delitto!) comporre un collegio giudicante nei processi di mafia. Non era raro, infatti che, per diversi motivi, i presidenti delle sezioni penali, che avrebbero dovuto dirigere il dibattimento, rifiutassero l’incarico, così da doversi ricorrere ai giudici civili, dotati di grande preparazione giuridica e senso del dovere, come era stato per Nino Saetta. Non era infatti nella sua natura addurre motivi pretestuosi per rifiutare il gravoso e pericoloso incarico di giudicare dei mafiosi. “L’eroismo del dovere! Ha bevuto il suo calice sino in fondo il nostro povero Nino!” esclamò d’un tratto il giudice, mentre continuava a sorbire il suo alloro, mentre la moglie lo guardò stranita. Si, era vero, ogni volta che il dottor Saetta era stato chiamato, non si era certo tirato indietro. Era presidente della Corte di Assise d’Appello di Caltanissetta quando, nell’ottantasei, il collegio da lui presieduto aveva confermato, per il delitto Chinnici, la condanna all’ergastolo per i fratelli Greco – fino ad allora incensurati! -, il “papa” ed “il senatore” di Cosa Nostra, aumentando le pene per gli altri imputati. “Cosa straordinaria, perché, secondo una prassi consolidata sino ad allora, in appello le pene venivano sempre ridotte, anziché inasprite…”, disse il giudice, ricordando la determinazione dell’amico nella corretta applicazione della legge, anche quando, come nel caso del massacro di piazza Scaffa, aveva dovuto assolvere per insufficienza di prove gli scellerati autori dell’eccidio. Il nostro giudice ora rammentava che, dopo  la sentenza di Caltanissetta, il villino a mare del presidente Saetta era stato dato alle fiamme. Un chiaro avvertimento, di cui ne lui ne Saetta avevano tenuto debito conto, tanto che nell’ottantasette, in qualità di presidente della prima sezione della Corte di Assise d’Appello di Palermo, Saetta venne chiamato a dirigere il processo per l’uccisione del capitano Basile. “ Pensa cara,” spiegò il giudice alla moglie, “un processo che approdava alla prima sezione dopo un annullamento ed un’assoluzione, che aveva fatto gridare allo scandalo, a causa soprattutto della motivazione, per la quale, a carico dei tre imputati “c’erano troppe prove”. Anche questo processo finì con delle condanne. Ma ora credo che, firmando quella sentenza, il povero Nino abbia deciso anche la sua condanna a morte!” Adesso il giudice sentiva di nuovo quelle fitte allo stomaco e al petto. “È stata colpa mia, è stata colpa mia quello che è successo!” “ Che dici Franco?”. La moglie non riusciva a capire. “ L’ho messo in una situazione di grave pericolo. L’avrei dovuto capire! Ma non ho voluto ascoltarlo. Si perché lui, il povero Nino, mi aveva rappresentato quale pericolo rappresentasse per lui quest’ultimo processo, dopo la sentenza per il delitto Chinnici. Io, io gli ho detto che doveva continuare, che la Corte non poteva perdere un magistrato bravo come lui. Ma mio Dio, potevo pensare che…” Nino Saetta era stanco, debilitato nel fisico e preoccupato. Aveva voglia di  cambiare aria, e così aveva fatto domanda per il posto di Procuratore Generale a Caltanissetta; carica assegnata poi ad un altro magistrato. Così Nino Saetta aveva ubbidito, continuando a fare il proprio dovere, pur nella percezione del grave pericolo che correva, fino all’emanazione della sentenza nel giugno 1988. Una sentenza – quella per l’uccisione del capitano Basile - che era costata tanta fatica al presidente Saetta: avvicinato da “ambasciatori” della Cupola palermitana, già all’atto del suo insediamento, per ottenere da lui una sentenza favorevole agli imputati, egli, infine - per arrivare a quella sentenza di condanna, reclamata dalle risultanze processuali, alle quale ogni volta egli scrupolosamente si atteneva - aveva dovuto imporre, a dei giurati impauriti, la stringante logica del suo ragionamento, che nessuna minaccia o pressione di piazza poteva piegare. “ Ci siamo visti pochi giorni fa con Nino. Ora che ci penso, l’ho trovato dimagrito e – non so se mi condiziona ciò che è successo – pensieroso. Non vedeva l’ora di tornare al paese. Ancora mi ha fatto partecipe del suo disagio e della sua voglia di cambiamento. Ed io, ancora una volta, l’ho pregato di resistere. Si “resistere” è la parola giusta. Qui a Palermo, in questi anni, in questa guerra infinita tra Stato e Mafia, è stato come a Beirut. E lui, caro Nino, non ha saputo dirmi di no…” Il giudice si chiuse nel suo studio e pianse con la testa abbandonata su uno dei tanti fascicoli sottoposti al suo esame. Pensava alla bella famiglia di Nino, al suo ultimo nipotino, per il battesimo del quale era tornato nel fine settimana al paese, e a cui aveva dedicato l’unico sorriso di quell’ultimo loro incontro. Egli dette  un pugno terribile sulla scrivania, e con un gesto improvviso mandò all’aria tutte le carte riposte con cura sul ripiano. “Così vorrebbero loro: che mandassimo per aria anni d’indagine, di sacrifici di troppi innocenti, chiudendo un occhio, anzi tutti e due, perché possano continuare a fare i loro sporchi affari…” Il giudice guardò smarrito tutte quelle carte, tutta quella fatica, sua e dei suoi tanti colleghi impegnati in quel fronte di guerra, e si chiese perché, perché…Per finire ammazzati come Basile, come Chinnici, come il suo amico Nino Saetta, in una carneficina infinita? La mafia aveva una grande organizzazione, aveva soldi, mezzi sofisticati, aveva uomini, che combattevano una guerriglia invisibile, perfida, sleale contro lo Stato, supportati da una strategia ordita da intelligenze malefiche. Non esisteva ormai da tempo la figura del mafioso galantuomo, una sorta di giudice di pace, di saggio del paese a cui si rivolgevano i litiganti, che rispettava le donne ed i bambini: c’erano in gioco enormi interessi economici. Tuttavia, dopo la strage di Ciaculli del ’63, con i sette militari caduti nell’agguato, era saltato anche quel tacito accordo, quella sorta di rispetto che sembrava esistere tra mafiosi e Stato. Il giudice pensò seriamente di arrendersi. Davanti ai suoi occhi stanchi sfilava una teoria infinita di martiri, di vedove, di orfani, di famiglie smembrate, segnate per sempre dal dolore. Ma il giorno del funerale - magnificente scenografia di istituzioni impotenti e sconfitte - nella chiesa madre di Canicattì, davanti al lutto composto della bella famiglia di Nino, ascoltando il ricordo felice del suo ultimo giorno, il giudice provò fortemente il senso di appartenenza a quello Stato, che serviva da quarant’anni, a quel consorzio civile che unito attorno a quel dolore reclamava giustizia e non vendetta. “Suvvia è persa una battaglia, non la guerra…”sussurrò alla moglie, che velò con un timido sorriso di circostanza la sua incomprensione. Tuttavia di fronte a quelle bare, prima che le portassero via, alla toga di Nino che copriva il suo feretro, il giudice commosso si corresse ancora e, ripudiando la parola “guerra”, si sentì finalmente fiero di far parte di quel popolo di miti che avrebbe ereditato la terra…


 

 

 
 
 
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