Creato da alex.canu il 28/01/2012

alessandro canu

arte, racconti, idee

 

 

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IL SECONDO DEI LED ZEPPELIN Cap. 8

Post n°49 pubblicato il 03 Febbraio 2012 da alex.canu

Thank you

 

 

"If the sun refuse to shine, 

I would still be loving you. 

When mountains crumble to the sea, 

there will still be you 'n' me"

 

“Se il sole si rifiutasse di splendere, io continuerei ad amarti.

Quando le montagne crolleranno nel mare, io e te ci saremo ancora.”

   Conosco con precisione assoluta questa prima parte della canzone, ma la seconda strofa non mi viene, d'altra parte ricordare le parole di tutte le canzoni non è facile. Riuscii a trovare i testi di Led Zeppelin Due, non facevo altro che mettere il disco e seguire la voce di Robert Plant. Li leggevo e li imparavo a memoria, assorbendo anche una discreta pronuncia inglese. Davo una mano a Robert mentre cantava e, quando in certi momenti la sua voce andava un po’ troppo su con gli acuti, lo sostenevo con la mia. Aiutavo John Bonham alla batteria, quando lo vedevo un po’ spompato e giù d’allenamento. Battevo sulla sedia di legno o sul tavolo in cucina, oppure mi percuotevo il petto, per avere suoni più cupi e profondi. Per Jimmy Page non c’era problema, la sua chitarra era sempre perfetta. Il basso di John Paul Johnes lo rinforzavo con dei du-dum, du-dum... molto efficaci che gli davano spessore e grinta. Insomma ero io il quinto dei Led Zeppelin, il misterioso personaggio di cui tutte le cronache musicali parlavano, ma che era avvolto da un fitto mistero. “Rolling Stones”, la prestigiosa rivista di musica rock, spese un capitale, ma nessuno ebbe mai la fortuna di trovare le mie tracce. Non rilasciavo interviste, comparivo nei concerti vestito totalmente di nero, celandomi nell’ombra. Invisibile a tutti, tranne ai quattro componenti della band che mi cercavano sempre con la coda dell’occhio nei momenti di maggiore tensione emotiva. Ebbene si, il quinto elemento, la colonna dorica, la stella polare del gruppo ero io. Nella foto di copertina dell’album, (e ora rivelerò il terzo segreto di Fatima), sono io quello che Robert Plant cinge con il suo braccio sinistro. Sono sempre io che in Stairway to heaven bisbiglio la parola lived, (devil), all’incontrario. Non mi rivelavo, niente ragazzine adoranti, niente flash di fotografi, ma l’anima di tutto ero io. Suonavano solo quando volevo io, a tutte le ore del giorno e appena mi stancavo o altri impegni mi distraevano, zac, li facevo smettere all’istante, bastava semplicemente premere il pulsante rosso del giradischi. Conoscere a memoria tutti i testi delle canzoni mi dava un potere enorme. Trovare i testi però non era facile.

Le possibilità si riducevano fondamentalmente a due, avere un amico che già ne era in possesso, oppure rubarli. La tecnica era semplice ed efficace. La chiamavamo “delle tre carte”. Cioè, due distraevano il proprietario del negozio, il terzo rubava, il più velocemente possibile, quanti più spartiti poteva infilare nel fondo dei calzoni. Facile. Entravamo nel negozio, quindi cominciavamo a sfogliare i dischi nel reparto novità. Ne estraevamo alcuni e fingevamo di chiedere dei chiarimenti al commesso. 

- Possiamo sentire, per cortesia, la seconda traccia di Kind of Blue, di Miles Davis?- Il terzo uomo individuava rapidamente quello che volevamo e cercava di prendere, quanto più velocemente possibile, il maggior numero di spartiti, i cappotti larghi erano perfetti. Compiuta l’operazione il terzo uomo usciva senza dare nell’occhio. In questa maniera mi ero procurato i testi del Secondo dei Led Zeppelin, ma anche quelli di tanti altri dischi. Quando Vallanzasca, mi propose questo sistema ci rimasi di sasso.

- Ma sei sconvolto? - gli dissi.

- Qual’è il problema, entriamo nei negozi e ci prendiamo quello che ci serve.

Fu lui a spiegarmi il sistema, fu con lui che ci andai la prima volta, e anche la seconda, e la terza. Quando mi accorsi di quanto era facile mi misi in proprio. Vigliani mi aprì un mondo e mi spiegò che si può rubare qualsiasi cosa dappertutto, basta volerlo.

- I negozianti sono tutti stupidi, - disse - non si accorgono di niente, se sei gentile e ben educato si fidano. Fino a ieri erano contadini, non conoscono neppure l’italiano. Minchia, aveva ragione lui, rubare non era per niente difficile! Entravi da qualche parte e ti portavi via esattamente quello che ti serviva e non c’era neanche bisogno di scomodarsi a dire grazie. Rubavo dove potevo, nei negozi di dischi, ai grandi magazzini, nelle piccole botteghe di generi alimentari, al bar, dal fruttivendolo, nelle boutique. Era una mania, anzi no, era diventata una moda, un gioco pericoloso per dimostrare innanzitutto a se stessi di essere capaci di farlo. Era la reazione violenta dell’anticorpo che si opponeva ad anni di buoni consigli dati dai genitori, era la risposta ai Salve Regina e ai ceffoni dei preti nelle sacrestie. Rubai persino nella cartoleria Fodianu, la più cara e la più sorvegliata di tutta la città. Il vecchio si vantava di avere delle persone che la tenevano costantemente sott’occhio, ingenuo! Gli sfilai sotto al naso una confezione intera di compassi Kern. Gli rubai un kit completo per rapidografi. Mi portai via squadrette, goniometri, curvilinei, righe da 50, 60 e 80 cm. gli avrei portato via anche i calzini. Una volta che il freddo era intenso e si faceva sentire entrai alla UPIM con l’intento innocente di ingannare il tempo, nell’attesa che si facesse l’ora in cui Grazia sarebbe uscita dalla lezione di canto che frequentava. Mi immersi nel reparto abbigliamento, toccavo calzini, apprezzavo maglioncini in lana, controllavo il collo delle camicie, bighellonavo. Quando vidi un paio di jeans rossi a tubo me ne innamorai subito. Non amo particolarmente il colore rosso nell’abbigliamento maschile, quel pantalone però aveva qualcosa che mi affascinava, mi colpì particolarmente per la carica eversiva che emanava, per quel rosso particolare, brillante e sfacciato. Lo staccai dalla stampella ed entrai nel camerino per provarlo. L’immagine che mi propose lo specchio mi piaque. Sbirciai il cartellino del prezzo, un furto! Veramente qualsiasi prezzo sarebbe stato troppo alto in quel momento, perchè nelle tasche avevo solo i soldi del biglietto dell’autobus per tornare a casa. 

   Mi riguardai allo specchio, non male proprio, mi facevano sembrare un gran figo. “Perchè no”, dissi a me stesso. Decisi in un attimo, tenni i pantaloni rossi sotto e mi infilai quelli vecchi sopra, feci un po’ di fatica, ma alla fine riuscii a tirare su la zip della lampo, scostai la tendina e uscii fuori. Mi guardai ancora allo specchio, assunsi un’espressione imbronciata, finsi di avere una sigaretta fra le dita, quel rosso mi dava un’aria nuova. Mi diressi verso le casse e uscii dal lato dei clienti senza spesa. Passai davanti alla guardia giurata che era impegnata a discutere con una signora con troppe buste. Tutto filò liscio e uscii fuori camminando con le gambe larghe come il pupazzetto Michelin. Quando Grazia arrivò e mi vide camminare in quella maniera mi chiese cosa mi fosse successo. La pregai di seguirmi e ci dirigemmo verso un vicoletto buio la vicino. Trovammo un portone aperto e ci infilammo dentro.

- Ehi, ehi, che intenzioni hai?- mi disse. Sbottonai il giubbotto, tirai su il maglione e misi mano alla chiusura lampo.

- Ma che fai?- disse, - sei scemo?

- Zitta e guarda, - le dissi io.

Mi tirai giù i pantaloni e lei cacciò un mezzo strillo. Vide i jeans rossi sotto e mi disse: - E questi?

- Li ho rubati poco fa ai grandi magazzini mentre ti aspettavo. Non sono belli?

Lei mi guardò ancora, aprì un pochino il portone ed esplose in una risata fragorosa. - Raccontami, - disse. Le raccontai tutto, mentre rideva e mi aiutava a sfilarmi i calzoni vecchi. Ridevamo, beati, orgogliosi di noi e dei nostri anni folli. Per quel gusto aspro che ha la vita, quando i denti con cui la mordi sono quelli che ti appartengono per nascita.

   Talvolta ci inventavamo una festa da qualche parte, qualsiasi posto andava bene. La voce si spargeva in un lampo e arrivava sempre il doppio delle persone che avevamo invitato. Allora bisognava dar da bere e da mangiare a tutta quella brava gente, e siccome il giochino dei pani e dei pesci aveva già il copyright e l’idea non si poteva più riciclare, optavamo più prosaicamente per una “spesa-a-modo-nostro” nei grandi magazzini più abbordabili. Ci organizzavamo per gruppi di due o tre, dividendoci gli incarichi. Un gruppo comprava le bibite, un’altro gli affettati, il pane, eccetera. Pagavamo regolarmente alle casse e, una volta usciti, svuotavamo tutto dentro il portabagagli dell’auto con cui eravamo arrivati e, con le stesse buste e gli stessi scontrini, rientravamo dentro il supermercato per una nuova spesa, esattamente identica alla prima, stavolta però, senza ripassare dalle casse. Riuscivamo fuori, scaricavamo in macchina e ritornavamo alla carica, questo per più e più volte. Nel reparto dischi della Standa rubai “Are you experienced ?”, di Jimy Hendrix e dentro quel long playing vi trovai  “Hey Joe”. Ascoltavo questo blues in modo ossessivo, da malato. Finiva e lo rimettevo, mi ipnotizzava, l’avrei potuto ascoltare all’infinito. Ma non rubavo solo dischi, in un negozietto di articoli da regalo vidi un carillon che girava portandosi dietro tutto un gruppo di uccellini gialli. Aveva una musichetta  che piaceva tanto ad una ragazza e lei piaceva a me. Si era fermata davanti a quella vetrina e guardava incantata quel cazzo di carillon che continuava a girare. - Ti prego entriamo.- Mi disse. Entrammo e lei caricò non so quante volte la molla. Quello cantava sempre, pilin, pilin, pilon, pilin.

- Che amore, che bello!- Sospirava lei. Glielo regalai per natale. Rubai anche calzini, mutande, guanti di lana di poco prezzo. Mi appropriai indebitamente di un coltellino a serramanico, di una infinità di lamette da barba, profumi al patchouli, penne e matite di varia durezza. Rubai oggetti utili e mille altre cose che sapevo che non mi sarebbero mai servite. Mia madre mi odiava!

    "Little drops of rain whisper of the pain. 

The tears of loves' lost in the days gone by" 

         Canticchiavo questa canzone, una mattina fredda di tramontana gelida che staccava la pelle dalle ossa quando, arrivato in prossimità della scuola, Tonuccio Dettori mi prende da parte e mi dice:

- Senti un po’ Grigio, alcuni di noi stamattina non entrano. - Mi indicò un gruppetto di ragazzi poco più in la, intirizziti dal freddo pure loro,

- Ti va di venire con noi? Ce ne andiamo nella saletta di Baldo, giù alle Conce, ci portiamo qualcosa da bere e un po’ di dischi.

- Quanti siamo? - Gli chiesi con aria complice.

- Con te otto, quattro e quattro, ci stai?

Ci stavo eccome! Angela Marongiu, la prof. di matematica aveva un debole per i numeri bassi nel registro, recentemente me ne aveva regalato uno e non avevo proprio intenzione di dargli un fratellino. La signora Marongiu vestiva come un domatore di circo e mi ripeteva sempre: - qui la matematica non entrerà mai! - mentre mi picchiava con l’indice sui capelli arruffati. Lo scantinato di Baldo stava giù alle Conce, nel quartiere più popolare della città, fatto di viuzze strette, vicoli ciechi, gente che strilla. All’ultimo momento però, una delle ragazze cambiò idea e decise di entrare a scuola. Ci ritrovammo così in sette, tre ragazze e quattro ragazzi. Tra loro c’era Rossana, una ragazza arrivata da poco. Ogni volta che mi capitava di parlarci mi si drizzavano i capelli in testa. Non che fosse particolarmente carina, ma aveva un modo di ridere e di passarsi la lingua tra i denti che mi metteva in agitazione. La chiamavamo “la Quarta T.” per via del suo seno generoso che metteva allegria anche solo a guardarlo da lontano. Una volta mentre parlavamo  muoveva meccanicamente la cerniera della chiusura lampo del maglioncino che indossava. Un gesto semplice, come un tic nervoso e inconsapevole. Riuscivo ad intravvedere a intervalli rapidi e regolari il bianco della spallina del suo reggiseno, nient’altro. L’immagine di lei che muoveva la cerniera della lampo però mi rimase impressa nella mente e non la dimenticai più. Ogni volta che la vedevo sorridere in quel suo modo particolare mi ricordavo di quel gesto e mi veniva uno struggimento che non saprei proprio come definire. Allora dicevo, eravamo rimasti in sette, tre ragazze e quattro ragazzi e ce ne stavamo andando dentro questo scantinato. Ci portammo un po’ di dischi e, dopo qualche minuto che eravamo li a cazzeggiare, iniziò il gioco della bottiglia, poi qualcuno si alzò e mise su un disco, si spensero alcune luci e cominciammo a darci da fare. Hey tonight dei Credence, Nutbush di Ike e Tina Turner, pezzi svelti e ben ritmati riscaldarono l’atmosfera. Poi iniziò il giro dei lenti, ancora una serie di brani svelti e così via. L’atmosfera era muy caliente e Rossana rideva mostrando i suoi denti bianchissimi. A quel punto le luci si spensero quasi del tutto e attaccarono Samba pa ti di Carlos Santana, il brano più crudele che abbia mai sentito, i mariachi andavano sulle stelle a portare fino lassù quelle note strazianti da delitto passionale. Le ragazze continuavano ad essere solo tre, cercai  nella penombra il sorriso promettente di Roxane e, quando la individuai, mi avvicinai e la presi per un braccio. L’attirai dolcemente a me e le cinsi i fianchi. Lei posò le mani sulle mie spalle e lentamente, abbandonandoci al veleno della musica, cominciammo a dondolare. Samba pa ti inizia con una chitarra rauca, ma morbidissima, picchia sette note che ti fanno entrare in trance e poi entrano, rotonde e piene, le congas che aggiungono mistero e malìa. Avevo già anestetizzato Rossana con una marea di chiacchiere che la facevano ridere e mi sentivo particolarmente brillante e in forma. Percepivo, nel dolce dondolare della musica, i suoi seni schiacciati su di me e, mentre le parlavo di viaggi immaginari e di artisti maledetti, pensavo a quella chiusura lampo e a quelle spalline bianche intravviste qualche tempo prima. Le congas tenevano il ritmo e le spazzole graffiavano dolcemente la pelle del tamburo; la chitarra di Carlos vibrava note altissime e struggenti, un organo Hammond versava veleno su tutto il brano. Lo faceva penetrare lentamente, in profondità, annullando tutti i sensi di colpa residui che si potevano avere in occasioni come questa.

Il mio lavoro con i fianchi di Roxane era già a buon punto, lei continuava a sorridere a tutte le stupidaggini che le dicevo e io mi sentivo particolarmente sciolto. Poco prima che Samba pa ti giungesse al suo delirio finale le mie mani stavano più giù rispetto alle posizioni di partenza. Lei si teneva stretta a me, abbandonandosi con maggiore fiducia e la sentivo più rilassata. Potevo permettermi anche dei piccoli silenzi carichi di tensione. Finito quel pezzo e dopo un attimo di pausa qualcuno andò a cambiare disco e mise Thank you, la quarta traccia di led Zeppelin Due, forse il mio preferito. Inizia con una chitarra che preannuncia un suono di campane molto lontane che si inseguono e spazi infiniti che si aprono allo sguardo. E’ un brano lento, molto profondo, una canzone d’amore vero, perfetta per quel momento. Abbracciai Rossana, sicuro di quello che facevo e, dopo che le luci si furono spente del tutto, posai la mia fronte sulla sua, avvicinai la bocca al suo orecchio e le bisbigliai: “ Se il sole si rifiutasse di splendere, io continuerei ad amarti.

Quando le montagne crolleranno nel mare, io e te ci saremo ancora. Ti darò tutto me stesso. Niente di più “.

- Cos’è? - Sussurrò lei con curiosità.

- E’ quello che sta dicendo ora la canzone che stiamo ascoltando. -  Le dissi piano.

- La conosci a memoria? Cioè, conosci tutto il testo a memoria e lo sai anche tradurre? - Disse lei sorpresa.

- Certo, - le dissi, fingendo stupore - conosco tutto il disco a memoria.

- Ma com’è che hai cinque in inglese? Se ti sentisse il prof. non crederebbe alle sue orecchie

- Quello! Bell’inglese che ci insegna. Grammatica, grammatica e solo grammatica e quando ci fa fare un po’ di conversazione si chiamano tutti Mr. e Mrs. Brown e stanno a tavola come manichini:

- Possou have’e, pe’ co’tesia, si non distu’bou, una feta di paene imburatou?

-  Ce’tamentei si, puoi. Coume la pref’rishi, col burou vegetalei e con un pou di ma’melata di lampounii? 

- Pref’rirei have’re un to-ust se non ti distu’ba.

- Ma nientei afatou.

- Graziei.

- Pregou.

Roxane rideva, i suoi denti brillavano.

- Ma tu fai colazione così tutte le mattine? Qui in queste canzoni c’è l’inglese vero. Questi non sono Mr. e Mrs. Brown, questi sono i led Zeppelin e non si perdono in salamelecchi. I Led Zeppelin, li conosci no?

- Così, - rispose lei - li ho sentiti nominare, ma non ho mai ascoltato niente. Dove stavo prima non potevamo ascoltare tanta musica, le suore non ce lo permettevano.

- Ah, le suorei, - dissi.

 

   "And so today my world it smiles. 

Your hand in mine we walk the miles. 

But thanks to you it will be done. 

For you to me are the only one. 

Happiness, no more be sad. Happiness, I'm glad"

 

- Bello, ma che significa, lo sai?

 

   Oggi il mio mondo sorride. 

La tua mano nella mia, camminiamo per miglia. 

Ma grazie a te ciò sarà fatto. 

Per me sei l'unica.

Felicità, non più tristezza. Felicità, sono gioioso

 

- Questa è Thank you la quarta traccia del loro disco più bello, il Secondo. Io ce l’ho, cioè ce l’avevo, però mio fratello me l’ha rotto e adesso me lo devo ricomprare. Se vuoi però possiamo farci prestare questo, usciamo di qui che si muore dalla puzza di muffa e ce ne andiamo a sentircelo da qualche altra parte. Non lontano da qui... ehm, abita mia sorella, potremmo andare da lei. A quest’ora... non dev’essere in casa, sarà sicuramente al lavoro e... io ho le chiavi, se vuoi... Lei si staccò leggermente e stringendomi le mani sulle spalle disse: - Ma tu, non ti sei fidanzato con Grazia?

- Con Grazia? Beh, si, ma ci stiamo lasciando. Lei è troppo... tirata, troppi problemi per la testa. I genitori, non la lasciano uscire, la madre capisci, troppo oppressivi. Studia sempre, non pensa ad altro. Io, insomma...

- Ah, troppi problemi, studia sempre, è così?

- Sempre, non vede altro che i libri, libri la mattina, libri a pranzo e cena, matematica e italiano a merenda, latino per dolce, cose così.

- E tu a cos’altro stai pensando in questo momento?

- In questo momento, beh se per caso io e te... 

 

"Se il sole si rifiutasse di splendere, 

io continuerei ad amarti.

Quando le montagne crolleranno nel mare, 

io e te ci saremo ancora" 

 

   Le stavo soffiando all’orecchio le ultime strofe della canzone dei Led, quando mi sentii picchiare leggermente alle spalle, Tonuccio mi voleva dire qualcosa in privato.

- Scusami, - le dissi - torno subito.

Mi staccai da Rossana e raggiunsi Tonuccio poco più in là e gli dissi: 

- Ma che vuoi, proprio adesso che stavo per...

- Senti un po’, - mi disse - servirebbe da bere e da mangiare, perchè non vai a rimediare qualcosa come sai fare tu?

- Proprio adesso, stavo ballando con Rossana, non l’hai vista?

- Proprio adesso, vai, vai piccola Katy.

Non si poteva dire di no ad uno come Tonuccio, una montagna d’uomo, tutto muscoli e fronte bassa, un metro e ottanta di carne macinata, metteva paura solo a guardarlo. Che fare? Tornai da Rossana, la abbracciai un attimo e le dissi che dovevo andare a prendere qualcosa da bere, ma  sarei tornato prima della fine del prossimo brano. Mi staccai con riluttanza dal tepore che emanava la sua camicetta e dopo aver cercato a tastoni il mio cappotto, mi attrezzai per risalire le scale e affrontare il mondo dei vivi. Pensai che Rossana non si sarebbe raffreddata nel breve tempo che sarei stato via. Tornai dopo quasi un’ora, la faccenda era stata più complicata del solito. Ai grandi magazzini a quell’ora del mattino c’era ancora poca gente e quindi bisognava essere più cauti per non farsi beccare. Tornai indietro quasi di corsa e scesi le scale dello scantinato col cuore in gola. Le bottiglie tintinnavano dentro le buste. Arrivato giù, un odore di fumo greve misto alla muffa mi arrivò alle narici, come cazzo facevamo a stare rinchiusi li dentro senza morire soffocati? Nessuno spiraglio di luce filtrava dalle fessure della porta. Bussai e attesi col cuore che mi batteva forte. Bussai ancora, ma nessuno venne ad aprire, uno strano presentimento mi assalì. Bussai ancora e ancora, senza alcun risultato. Mi decisi a chiamare Tonuccio. Chiamai anche Rossana: - Tonuccioo, Rossanaa...- niente, nessuno veniva ad aprire. Sentii il giradischi attaccare Child in time, dei Deep Purple, la canzone più bella di tutta la storia del rock. Mi aggrappai alla porta e chiamai ancora ad alta voce:- Tonucciooo, Rossanaaa, - bussai forte, ma  inutilmente. Alzarono ancora di più il volume della musica, Ian Gillan strillava forte la sua canzone contro tutte le guerre del mondo. Sarei voluto essere la dentro, stringere Rossana fra le braccia. Avrei voluto sentire i suoi due proiettili puntati dritti sul mio petto.

- Tonucciooo, gran figlio di quella bagassa di tua madre, apri questa porta di merda, fammi entrare. Ho qui le bottiglie, il vino, l’aranciata, c’è pure il chinotto. Ho da mangiare, Roxane, pane e qualche dolce, ho preso un tiramisù niente male. Aprimi Rossanaaa, puttana che non sei altra. A chi ti stai appiccicando adesso? 

   Le bottiglie continuavano a sbattere le une con le altre, pensavo ai seni di lei e mi veniva da piangere. Risalii le scale e a metà mi trattenni ancora, mi voltai indietro se, alle volte. Poi raggiunsi l’uscita, mi tirai su il bavero del cappotto, faceva un freddo becco quel giorno, com’è che non me n’ero accorto prima?  Pensai ai miei compagni al calduccio in classe, pensai alla scusa che avrei inventato per la giustificazione da scrivere sul libretto. Guardai il sacchetto pieno di roba da mangiare: 

- Un signor tiramisù, minchia! E adesso che ci faccio con tutta questa roba, chi se lo beve lo spumante? Mica me lo posso portare a casa. Uscii per strada con la busta penzoloni e mi diressi verso i giardini pubblici. Mi sedetti su una panchina, poggiai a terra la busta e infilai le mani dentro le tasche. Mi strinsi nel cappotto e incominciai a canticchiare:

“If the sun refuse to shine, I would still be lovin' you. 

Mountains crumble to the sea, 

there will still be you an' me...” 

- E poi, qual’è la canzone che viene dopo? Ah! Heartbreaker, bella! 

   Rimasi un po’ così, seduto sulla panchina a gelarmi i piedi. Osservavo la gente che passava, andavano tutti di fretta. Pensavo al caldo della saletta dove ballavano, ora tre e tre finalmente. Stronzi, vatti a fidare degli amici. Pensavo alle luci basse, alla musica, alle tette di Rossana... 

Frugai in una busta e vi trovai una lattina di chinotto, la stappai e ne bevvi una sorsata, - mica male - pensai. Somigliava alla Coca-cola, più amara, però.

 
 
 
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