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STORIA DEL DECIMO FIGLIO figlio ottavo

Post n°73 pubblicato il 06 Febbraio 2012 da alex.canu

Figlio ottavo

Tothòi Chnua

 

 

     L'ottavo figlio arrivò nell'indifferenza generale. Non faceva più notizia la pancia gonfia e sfibrata di Aisentha, lei stessa ne informò Anzichu con qualche mese di ritardo, imbarazzata del "lieto evento" che si stava compiendo dentro il suo ventre. Anzichu accolse la novità con una alzata di spalle che la diceva lunga sulla "trepida attesa" di questa nuova bocca che si affacciava alle porte della famiglia Chnua, come se la cosa non lo riguardasse più e fosse solo un problema di Aisentha. Neppure le cronache dal mondo registrarono niente di particolare come se, dopo la catastrofe della guerra, la gente fosse tornata alla vita in uno scaramantico silenzio. Si potrebbe sottolineare forse, il breve discorso che il papa Pio XII tenne agli artisti del Teatro di Stato di Stoccarda in dura lingua Tedesca, ma ci si dovrebbe fermare qui, non è un granchè. L’Europa produceva e si godeva il suo progresso economico, il mondo intero riprendeva a respirare e nessuno sembrava aver voglia di fare il minimo gesto che producesse uno straccio di notizia, silenzio, basso profilo. Eppure avrebbero fatto bene, tutti quanti, da Nughavi a Mihlusa, da Epihnea alla piccola  Jahnua, di appena tre anni, a prestare maggiore attenzione a questa nuova creatura che venne al mondo in punta di piedi, come a non voler disturbare un ordine già stabilito e immutabile. Si limitò semplicemente al pianto rituale per ogni neonato e poi si addormentò di un sonno appagante, come un prolungamento dei nove mesi passati dentro le acque confortevoli e vischiose della pancia di Aisentha, preludio ad una vita che si annunciava tranquilla e serena, o almeno così pareva. Tothòi, così lo chiamarono, in memoria di un vecchio zio di Anzichu che lui stesso non aveva mai conosciuto, dormiva e teneva chiusi i suoi pugnetti, non li apriva mai, si sarebbe detto che dentro vi custodisse un suo piccolo segreto, forse un tesoro che avrebbe rivelato, chissà quando, solo a pochi fortunati. Crebbe così, sereno e grasso, con le labbra carnose e quelle mani che teneva perennemente serrate in un pugno ostinato. "Forse sarà un pugile da grande", osservò Anzichu, e già l'idea di un figlio boxeur lo inorgogliva. Si sarebbe fatto rispettare da tutti, magari avrebbe avuto il naso rotto, ma gli avrebbe conferito maggior virilità. Lo vedeva già campione europeo dei medi e guardava a quei piccoli pugni chiusi come a due magli, scagliati contro il campione in carica: knock-out alla terza ripresa dopo una serie di finte e di schivate e una combinazione micidiale di montante sinistro e diretto alla mascella. Il gong avrebbe decretato la fine dell'incontro, l'arbitro avrebbe alzato la mano del campione verso le luci gelatinose al neon del palazzetto, il pubblico in piedi, in delirio. Il nuovo campione avrebbe dedicato la sua vittoria a lui, suo padre, che aveva creduto nelle sue possibilità fin da quando era ancora un bambino.

   Aisentha  invece guardava a quei pugni chiusi immaginandoli pieni di chicchi di grano, come quelli del marito quando seminava la campagna, dopo averla lavorata con l'aratro. Non ne era propriamente felice, avrebbe desiderato di meglio per lui, ma quell'immagine le sembrò la più poetica che fosse in grado di pensare e la mano del suo piccolo che si apriva e rivelava tanti semini le sembrò molto bella. Ne accennò ad Anzichu e lui disse: "Noo, farà il pugile, te lo dico io". "Dio non voglia!", rispose allarmata Aisentha stringendosi al petto il piccolo Tothòi, che intanto continuava a dormire ignaro di tutto. La massa indistinta della lanugine sulla testa mutò col crescere, lasciando il posto a dei riccioli color del rame, inusuali nella famiglia dato che nessuno dei parenti dei due genitori avevano mai avuto questa caratteristica. Forse un antico avo spagnolo del seicento, un soldato catalano al seguito delle truppe che conquistarono quella parte di mondo si era ritagliato un pezzo di piacere fra le gambe di qualche donna del posto. I suoi occhi verdi erano così vivi e attenti che li si sarebbe creduti accesi come due lampadine, se fosse arrivata la bolletta della luce degli occhi di Tothòi nessuno se ne sarebbe meravigliato e Anzichu avrebbe fatto la fila all'ufficio postale di zia Chlelia senza dire bah! Crescendo le labbra carnose si erano disegnate meglio e le muoveva come se fossero due muscoli separati dal resto del corpo. Avevano un che di grazioso e di insano al tempo stesso, erano piene e gonfie come un frutto maturo che stesse per esplodere da un momento all'altro. Nessuna delle caratteristiche fisiche di Tothòi apparteneva alla famiglia Chnua, Aisentha e Anzichu lo guardavano increduli, come si guarderebbe un marziano, e teneva sempre quei suoi pugni ben serrati, come se vi custodisse un misterioso messaggio di un altra civiltà della galassia che avrebbe dovuto consegnare a chissà chi al momento opportuno. Tothòi, quello stesso nome si rivelò nel tempo inadeguato, lo avrebbero dovuto chiamare Ares, o Ariel, con un nome esotico che sapesse di mitologia o di fantascienza.  

   Mihlusa e Benìah osservavano il piccolo alieno e provavano a forzargli i pugni per farglieli aprire, ma Tothòi li serrava maggiormente opponendo una forza come mai si sarebbe potuto supporre in un bambino così piccolo. Ridevano e Benìah imitava il fratellino chiudendo a sua volta le mani e tendendo i suoi muscoli. Agitava i pugni in aria e li avvicinava rapidamente a Mihlusa che si ritraeva spaventata. Poi si fermava e portava i pugni chiusi e uniti ai polsi vicino agli occhi di Mihlusa e li apriva lentamente come i petali di un fiore carnoso e gliene faceva dono con una risata. Dentro quelle mani, ostinatamente chiuse, Benìah intravedeva tanta dolcezza. Mihlusa non era d'accordo e diceva che sarebbe stato un uomo duro come loro padre. Avrebbe fatto del male a tante donne diceva, con quelle mani e soprattutto con quelle labbra, carnose in modo osceno. Lei e Benìah lo tenevano quando la mamma era troppo indaffarata al telaio e aveva delle consegne urgenti che non potevano aspettare, oppure lo scaricavano a Epihnea che provava ad aprire e unire quei due ostinati pugnetti in un gesto che voleva essere di preghiera. Ma era inutile perchè Tothòi resisteva alle pressioni della sorella senza scomporsi. L'immagine di due pugni uniti non suggeriva affatto l'idea della preghiera e allora Epihnea vi rinunciava pensando che forse si sarebbero aperte spontaneamente quando la parola di Gesù gli sarebbe stata rivelata dal sacerdote durante il catechismo, ma in fondo però non ci credeva neppure lei. Il lavoro di Aisentha era l'entrata economica principale in famiglia in certi periodi dell'anno, o quando il raccolto era scarso e Anzichu non sapeva come bilanciare i conti di quella famiglia così numerosa. I tappeti si vendevano bene e lei era particolarmente apprezzata anche al di fuori di Issòghene. Venivano dai centri vicini delle ragazzette mandate dai loro genitori ad imparare direttamente sul telaio di Aisentha. La famiglia era così numerosa che qualsiasi aiuto era ben accolto. Nughavi e Ghelanu andavano già in campagna col padre e davano il loro contributo, anche se Anzichu passava metà del suo tempo a separare i due fratelli maggiori che litigavano in continuazione su ogni cosa. Mihlusa e Benìah li avrebbero seguiti di li a poco, Epihnea, Miràha e Jahnua erano ancora troppo piccole e quindi bisognava rimboccarsi le maniche e lavorare duro.

   All'età di quattro anni, quando la primavera stava lasciando ormai il posto all'estate e dentro casa non si respirava più, Aisentha portava tutti i pomeriggi Tothòi fuori sul marciapiede antistante i gradini di casa a giocare con gli altri bambini che, come lui, indossavano una magliettina di cotone e le mutandine, niente altro. Le donne si riunivano a sedere sui gradini, intente a mangiare semi di melone e a sputare le bucce lontano, mentre i figli piccoli, come Tothòi, stavano per terra a giocare con piccole pietre, pezzetti di legno, chiodi e escrementi secchi di cavallo che le madri mettevano loro a disposizione. I piccoli afferravano i pezzetti di legno e con infinita pazienza componevano forme che osservavano incuriositi per poi distruggerle e creare nuove composizioni unendo i bastoncini con le pietre e i chiodi e impastandole con gli escrementi secchi. Le mamme intervenivano solamente quando i bambini si rubavano a vicenda le cose e litigavano o piangevano. Tothòi sene stava appena in disparte e non mostrava nessun interesse a interagire con gli altri coetanei. Le mamme osservavano e commentavano fra loro, qualcuna rivolgendosi ad Aisentha e mal celando una punta di veleno, le diceva: "Certo che tuo figlio è strano Aisè, non gioca mai con i nostri e poi ha quei capelli rossi, nessun altro bambino li tiene, da dove vengono, dove li hai comprati?" Aisentha rispondeva con una battuta altrettanto velenosa, valendosi dell'autorità riconosciuta di miglior tessitrice della zona.

   Durante uno di questi pomeriggi fra mamme e bambini, veleni e risate, semi di melone e pettegolezzi  di carta vetrata, per la prima volta, spontaneamente, senza che nessuno lo avesse obbligato a farlo, Tothòi aprì il pugno destro e afferrò un sasso di tufo bianco, friabile come gesso, e lo poggiò delicatamente sul mattonato, tracciò dapprima un cerchio e vi disegnò dei raggi intorno, poi diede forma a un pesce e poi un altro ancora, quindi abbozzò una forma squadrata che poteva essere una casa primitiva. Successivamente impostò un gatto, con la coda dritta e dei lunghi baffi che si avvicinava pericolosamente ad un uccellino appollaiato sopra i rami di un albero rinsecchito su cui faceva bella mostra di se un unica gigantesca foglia. Il grosso gatto stava per saltargli addosso. Nel cielo grosse nubi correvano rapide, come le mani del piccolo Tothòi, che disegnava senza fermarsi mai a riflettere su quello che faceva, come se da sempre avesse creato quel genere di figure. Seguiva i suoi pensieri e non si accorgeva delle donne che se lo indicavano a vicenda, richiamando l'attenzione di Aisentha che osservava meravigliata e senza parole, il lungo racconto che suo figlio stava velocemente dispiegando davanti ai suoi occhi. Tothòi disegnava con la naturalezza più completa, animali, alberi, nuvole. Raccontava delle piccole storie che altri non avrebbero saputo realizzare neppure da grandi. Quando ebbe finito posò il sasso ormai consumato e richiuse di nuovo i suoi pugni. Si mise a piangere, perchè le dita gli facevano male e aveva fame. Aisentha lo raccolse dal marciapiede e se lo portò dentro, gli sbucciò una mela, gli tagliò una fetta di pane e ci mise sopra lo zucchero. Da una bottiglia gli versò dell'acqua da bere, mentre Tothòi osservava con attenzione nuova tutti i gesti che la madre andava compiendo e lei, ne era convinta, li avrebbe ritrovati il giorno dopo sul mattonato della strada. Decise che quella sera ne avrebbe parlato col marito. 

   Anzichu  ascoltò in silenzio il racconto della moglie e non prese bene la notizia. L'idea di un figlio pittore non lo entusiasmò per niente, pugile si, magari, questo non gli avrebbe impedito di lavorare in campagna con lui, ma pittore no. Sarebbe cresciuto con strane idee in quella testa già così diversa da tutte le altre di Issòghene e non avrebbe portato a nulla di buono. Magari avrebbe anche chiesto di studiare e andare in città per le scuole grandi e questo non se lo potevano certamente permettere. Anzichu consigliò ad Aisentha di non dargli più pietre per disegnare, ma la moglie non ubbidì al marito, permettendo a Tothòi di continuare di nascosto a costruire il suo mondo di linee e colori. Gli comprò dei gessetti colorati e un libro nuovo di illustrazioni che il bambino ricopiò per intero sul mattonato della strada. A volte lo spazio a disposizione non gli bastava ed era costretto a proseguire il suo lavoro nel tratto della vicina di casa. Mare, alberi, navi da cui usciva un fumo grigio e denso, animali di ogni specie e forma popolavano quel fortunato pezzo di marciapiede. I passanti si fermavano divertiti a osservare quel bambino dalla testa rossa realizzare quelle immagini di sogno e si azzardavano a richiedergli di disegnare un asino o una pecora o un cavallo imbizzarrito e lui dava forma a tutte quelle richieste. Un vecchio che aveva perduto il figlio in guerra gli si avvicinò e, col cappello in mano, gli mostrò una foto del giovane vestito da soldato, chiedendogli se lo poteva disegnare per terra. Tothòi lo accontentò e il vecchio accarezzò l'immagine ingrandita del volto di suo figlio con la sua mano rugosa, facendogli cadere sopra una moneta, che tintinnò inaspettata. Lo stesso Babai Esòhle, il vecchio prete, una volta, passando di li per la benedizione delle case, gli chiese una madonna e Tothòi gli disegnò un volto di donna, con due occhi così teneri e luminosi e una bella aureola splendente sopra il velo in testa, che Babai si chinò a benedirla, intimando a tutti i presenti che non venisse cancellata se non dalla pioggia. Nessuno doveva passarci sopra, pena la menzione sul misterioso libro nero della chiesa, che il sacerdote agitava come una minaccia.  Anche Babai posò piano sulla sacra immagine due monete grosse che Aisentha non toccò, lasciando che fosse il marito, che di li a poco sarebbe rientrato dal lavoro a raccoglierle. 

   Quando Anzichu tornò a casa e vide suo figlio, carponi per terra e tutta quella gente attorno che commentava, non ci vide dalla rabbia e, cacciati via tutti, raccolse il bambino e lo riportò in casa. Ritornato fuori si avventò con uno straccio bagnato sul marciapiede e non volle guardare quei disegni di cui aveva paura. Grattò forte per terra e gettò lontano le monete, ma commise l'imprudenza di vedere quella madonna, con quegli occhi immensi di mare azzurro. Vide il manto turchese che la avvolgeva e due dita che lo serravano pudicamente all'altezza del mento. Con una mano la vergine pregava un angelo, che non si vedeva, di concederle ancora un attimo prima che l'eternità si compisse. Anzichu per un istante rimase fulminato davanti a tanta bellezza e vacillò, ma gettò lo straccio umido anche sopra quel volto e lo cancellò, spargendo il colore sul mattonato, come il fuoco scioglie le immagini fatte di cera. Tornato a casa trovò sua moglie, ostile, muta, con gli occhi che lo inchiodavano ad una responsabilità che lui riteneva di non avere. Chiese la cena con un pugno sul tavolo battuto con rabbia, ma per quella sera la cena non arrivò dalle mani sua moglie. Mihlusa dovette mettersi ai fornelli e insieme a Epihnea riuscirono a tirar su una tavola decente. Di sopra Aisentha piangeva. Quando Anzichu andò, come ogni sabato pomeriggio, a confessarsi da Babai Esòhle, il prete lo rimproverò aspramente e per quella volta non ottenne l'assoluzione dai propri peccati. 

   Tothòi crebbe e conclusi gli studi della scuola media, chiese alla madre il permesso di iscriversi al liceo artistico in città. Avrebbe viaggiato, si sarebbe alzato presto la mattina per prendere la corriera insieme agli operai che andavano al lavoro. Aisentha lo guardava addolorata, perchè sarebbe stato il padre a prendere l'ultima decisione. Nessuno dei figli, fino a quel momento, aveva mai avuto l'idea bizzarra di proseguire gli studi. Quando entrò in camera dei genitori, una domenica mattina e chiese al padre l'autorizzazione a iscriversi ad una scuola d'arte, Anzichu lo seccò, gelido, dicendogli che fra qualche mese, finita l'estate, avrebbe cominciato a lavorare con lui. La scuola non gli sarebbe servita a niente, in campagna avrebbe trovato tante rocce piatte dove disegnare. Non aveva fatto così un anche grande artista italiano? Gli disse, con una punta di ironia che il figlio non comprese. Tothòi incassò il rifiuto, ma pensava che il padre avrebbe cambiato idea prima della fine dell'estate. Si impegnò maggiormente nel lavoro e lo aiutò tutti i giorni, senza risparmiarsi mai e quando fu il momento gli chiese ancora il permesso di proseguire gli studi, ma Anzichu, convinto di averlo già domato una volta gli oppose un secondo rifiuto. Tothòi non si scompose e prosegui il suo lavoro in campagna agli ordini dei fratelli più grandi che lo deridevano e lo chiamavano "professore". Qualche tempo dopo Anzichu si appartò dietro una roccia piatta, lontano dagli occhi indiscreti dei suoi figli per fare i suoi bisogni. accovacciatosi con i pantaloni calati, notò sulla pietra un disegno realizzato col carbone, ritraeva una persona sdraiata su un letto, evidentemente ammalata, circondata da enormi animali neri che tenevano dei ceri accesi sollevati. In quella figura di malato riconobbe se stesso e rabbrividì, lo stronzo gli si incastrò a metà del culo e non voleva scendere giù. Fu costretto a tagliarlo con un bastone di legno e si fece male, sanguinando un po' dalla ferita. La sera a casa non cenò con lo stesso appetito di sempre, accusava un forte mal di pancia e sentiva bruciore allo sfintere dell'ano. Aveva i brividi e la fronte scottava. Aisentha si preoccupò e gli preparò un infuso di camomilla, ma non ottenne nessun risultato positivo se non quello di farlo dormire per qualche ora. Durante la notte si svegliò in preda a dei forti dolori e Aisentha fu costretta a mandare Benìah, il più veloce, a chiamare il medico. La ferita si era infettata, sentenziò il dottor Simàha e ritenne necessario il ricovero immediato. Quando Anzichu finalmente guarì e uscì  dall'ospedale, la prima cosa che fece fu di andare a vedere la scuola che il figlio avrebbe voluto frequentare. Durante la breve degenza ci aveva riflettuto a lungo. Non era troppo distante dall'ospedale e, fattosi coraggio, salì i gradini in trachite rossa dell'ingresso monumentale dell'edificio che aveva ancora i segni del ventennio fascista. Dal muro avevano scrostato i fasci littori e le date fatali, ma le ferite erano ancora evidenti, come dei tatuaggi malamente rimossi. Chiese del preside e quando gli fu davanti si levò il cappello, perchè allora si usava così con le persone di rispetto e, dandogli del voi, gli chiese goffamente se suo figlio sarebbe stato ancora in tempo a frequentare i corsi. Il preside si grattò la testa, sbuffò, fece bah e uff, ma poi acconsentì a patto che il ragazzo avesse delle doti certe. Anzichu sorrise, per quello non c'era da preoccuparsi, i dolori sarebbero arrivati con i libri nuovi da comprare, con il viaggio in corriera tutti i giorni da pagare e col cibo che Tothòi non poteva ricambiare col suo lavoro. Ma ripensò alla roccia piatta e i dubbi gli scomparvero come neve al sole. Tornato a casa raccontò alla moglie della visita alla scuola, del preside, delle spese che avrebbero dovuto sostenere. Aisentha sorrideva, per la prima volta felice, al marito. Diede dei gran colpi di pettine sul telaio e disse in un soffio: "Ce la faremo". 

   Tothòi Chnua andò a scuola finalmente e da quel momento si staccò dai suoi genitori. Da grande andò via, il suo lavoro lo portò molto lontano, ritornò solo per il funerale del padre e lo vide schiacciato dentro la bara. Gli sembrò più grosso di come se lo ricordava. La sua pelle sembrava fatta di cera, pareva uno di quei manichini che gli anatomisti del seicento utilizzavano per le loro lezioni. Prese il suo blocco degli schizzi e una matita smozzicata e lo disegnò, come se dormisse, con il lato della bocca leggermente aperto, come faceva sempre, quando in campagna, dopo il pasto del mezzogiorno si appoggiava al tronco di un albero per farsi un sonnellino. Russava leggermente, soffiando dalla bocca un fischio leggero. Era buffo, ma quel ridicolo ricordo era tutto ciò che gli restava del padre. Richiuse il quaderno e nel pomeriggio lo seppellirono. Tothòi Chnua, il figlio dai capelli rossi, non si trattenne con i fratelli ne con la vecchia madre e ripartì immediatamente con un aeroplano. Anzichu dopo la malattia non tornò più a fare i suoi bisogni dietro la roccia piatta, ma sono convinto che quel disegno a carbone sia ancora li. 

 
 
 
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