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IL GUARDIANO DI SANTO TOME` (VII. parte)

Post n°62 pubblicato il 04 Febbraio 2012 da alex.canu

 

   Tornando a casa mi sentii più sollevato, la sera stessa mia moglie mi disse che aspettavamo il nostro secondo figlio. Disse proprio figlio, come buon augurio, sapendo quanto io desiderassi avere un figlio maschio. Me la strinsi forte al petto, la tenni stretta. Lei, meravigliata, ne rideva un po’ e quella notte mettemmo dentro un’altro semino, per non lasciare il futuro Jorge-Manuel lì dentro, al buio, tutto solo. Non passò molto tempo, dopo il colloquio con Josè. Una gelida mattinata di metà Marzo, la donna si presentò, puntuale alla consueta apertura della cappella.  A dire il vero, quando mi decisi a lasciare il mio solito dolce di marzapane, lei era già lì sul portone e da come batteva i denti, si poteva supporre che fosse arrivata col treno delle 8,25. A quell’ora, neanche i primi bar davano grande ospitalità. Fino alle 9,30 doveva essere rimasta lì , sulla rientranza del portone della chiesa, a saltellare da una gamba all’altra per ammazzare il tempo e il freddo pungente. Mi immaginai i pulsanti degli alzacristalli elettrici delle macchine di lusso a cui doveva essere abituata in passato. Il loro rumore, soffice e rassicurante, è il segnale del divario con gli altri comuni mortali. Difficile rinunciare a quel rumore di velluto. Lei era li adesso, a saltellare sui suoi tacchi come tutti, col suo bigliettino del prossimo treno per il ritorno e, segnato dietro, l’indirizzo di una pensione dove andare a passare la notte, in caso di bisogno. Toledo è maledetta nella sua capacità di incanalare tutti i venti più odiosi. Quelli che soffiano da tutte le direzioni e non danno tregua, gelandoti fin dentro le ossa. Il nostro fiume, il Tajo, è impietoso nel fornirgli un canale ideale per cingere di ghiaccio e di gelo la città intera. Uno sperone di granito è tutto quello su cui poggiano le fondamenta delle case di Toledo, città imperiale. Per tre quarti dei suoi lati è cinta d’assedio dal fiume più odioso del mondo, che dopo un lungo peregrinare nelle nostre terre, va a gettarsi sull’atlantico, portandosi appresso tutto quello che gli spagnoli vi buttano dentro, con tanti saluti ai nostri simpatici vicini portoghesi. Nessuno va mai a bagnarsi i piedi nelle sue acque. Neppure i ragazzini d’Estate, quando il caldo calcìna ogni cosa che ha il coraggio di muoversi fuori dall’ombra dei muri e degli alberi. Un fiume che assedia per tre lati la tua città, può mai aspettarsi la simpatia e la solidarietà dei suoi abitanti? Chiedo, alle volte qualcuno abbia una idea diversa. Per quanto ne so io, è così che la pensano gli abitanti di questa città. Quando Domènikos Theotòcopoulos, il pittore venuto dalla Grecia, vide questo strano paese per la prima volta, se ne dovette innamorare in modo morboso perché, sicuramente, vi riconobbe il luogo ideale, adatto ad accogliere la sua follia. 

   Ma io divago, divago. Mi lascio prendere dalla corsa folle dei pensieri e non ricordavo più che narravo una storia. Lei, lei, lei e sempre lei, era lì, morta di freddo. Orgogliosa e dritta come una nobile figura del dipinto. Il cappotto nero, leggermente abbondante, i capelli tinti tirati all’indietro, la facevano apparire più nervosa e fragile di quanto era in realtà. Si stringeva le braccia al petto, infilando le mani intirizzite sotto le ascelle e sollevava prima un piede e poi l’altro, per scrollarsi di dosso il freddo di questa città. Quando arrivai non parlò, mi guardò dritto negli occhi e, appena li abbassai, mi passò avanti, lasciandomi nella scia del ticchettare irregolare, sempre più cadenzato, dei suoi tacchi. Non esisteva quasi più il dolce dondolio dei capelli sulle spalle che adesso apparivano stanche, nessuna scia di profumo accompagnava il suo passaggio. La forza che un tempo teneva su tutto il corpo, sembrava che ora la stesse progressivamente abbandonando. Si sedette al suo solito posto. Posò la borsa, rassettò la gonna dopo essersi sbottonata il pesante cappotto. Appariva così più piccola. Una tosse, leggera e stizzosa, le agitava continuamente le spalle. Nella cappella non c’era anima viva, oltre lei ed io, chi avrebbe potuto esserci a quell’ora, con quel gelo?  Ad un certo punto fece qualcosa che mi stupì, aprì la borsetta e nervosamente estrasse un pacchetto di sigarette, ne accese una e aspirò  profondamente ogni singola boccata. Era matta? Voleva mettermi nei guai con don Andrés? Quando feci per intervenire, sentii risuonare i miei passi nella cappella e il senso del ridicolo mi prese. Tornai indietro, verso la mia sedia accanto al cancello e lentamente, come avevo già fatto altre volte, lo accostai quel tanto che bastava per farlo sembrare chiuso, perché nessuno vedesse o potesse entrare. Fumò lentamente tutta la sua sigaretta. La si sarebbe detta l’ultima di un condannato e poi, senza nessuna vergogna, gettò il mozzicone per terra. Non lo spense neppure col tacco. Rimase seduta, impassibile, mentre io osservavo la brace che si consumava. Non mi mossi, la osservavo affascinato, lo devo ammettere con tutta sincerità. 

   Dopo tanti anni che veniva qui mi domandai se lei amasse veramente quel quadro. Se le piacesse quello che vedeva. Non ero più sicuro di niente che fosse legato al rapporto che univa la donna al dipinto. Per la prima volta mi posi delle domande, alle quali sapevo già che non avrei potuto dare nessuna risposta. Le parole di Jusepe mi ronzavano nel cervello - auto blindata, il marito, l’incarico che aveva dovuto abbandonare, e poi la guerra civile i morti e tutto il dolore e l’odio che si era trascinata dietro. Non ero sicuro che il dipinto le fosse mai veramente piaciuto, ma qualcosa la legava a quella tela e, come i medici di Franco, non la lasciava andare via, la tratteneva a forza causandole chissà quale dolore. La sua attenzione si era rivolta verso la parte alta del dipinto, lassù nel cielo dove Cristo brillava di luce. Spostò lo sguardo verso sinistra, dove un san Pietro con un grande manto giallo, lasciava pendere le sue chiavi, simbolo del compito che il suo Maestro gli aveva assegnato, quando ancora stavano quaggiù sulla terra.  Appariva seminascosto da una nuvola ed il suo ruolo era, evidentemente, impacciato da tutta quella messinscena. San Pietro, con la sua barba bianca, gli occhi rivolti in alto nel tentativo di accarezzare il figlio di Dio, sembrava scontento del ruolo e del colore eccessivo che il pittore, in quel momento forse a corto di idee, gli aveva assegnato. Sul lato opposto, un san Giovanni Battista smunto e sproporzionato nella sua altezza, anticipava con un gesto di presentazione della mano, l’anima gelatinosa del conte che arrivava, proprio allora, al cospetto di Gesù. Anch’egli stava in bilico, a cavalcioni su una nuvola, che pareva un mezzo lenzuolo sfilacciato. Una volta, così tanto per scherzare, mi permisi di chiedere a don Andrés, che avrebbero fatto tutti quei santi, lassù in paradiso, in caso di bel tempo, con un cielo perfettamente azzurro, senza neanche una nuvoletta dove appoggiare il piedino. Il parroco mi guardò e mi benedì, con un segno della mano, senza rispondermi, muovendo sconsolatamente la testa mentre si allontanava.

      Io, che lavoro qui da anni, ho capito, ho capito tutto. Non è scritto in nessuna guida. Non lo troverete in nessun manuale, perchè nessuno se n’è mai accorto. Solo io, ho inteso il respiro malevolo e la risata che il greco si deve essere fatto, davanti al suo quadro finito. Osservate, in basso a sinistra, il monaco agostiniano, come finge pietà, appena sopra il figlio. E’ tutto falso, io lo so. Lui è lì, appena dietro santo Stefano, fra i notabili della città. Uno porge la mano, la più bella che io conosca dipinta da essere umano. Si è voluto vendicare di noi. Scacciato dalla sua terra, scacciato da Venezia, costretto a mendicare una commissione a Roma. Approdato in Spagna e scacciato perfino dall’Escorial, dove trovavano rifugio tutti i pittori del mondo. Eccolo arrivare qui a Toledo, manicomio della Mancha e della penisola iberica tutta. Città arroccata, chiusa, dispettosa, dove tre confessioni religiose si facevano la guardia l’un l’altra e dove l’unico dio aveva tre facce diverse e lo si pregava in tre direzioni diverse. Dove, perfino le barbe dei sacerdoti, avevano tre lunghezze diverse. Chiunque arrivava era accolto con sarcastico entusiasmo, come nei manicomi, appunto, dove ogni nuovo arrivato è motivo di curiosità e di scherno. Dove non si lascia partire nessuno e quando qualcuno muore è pianto in modo esagerato. Gli si fa un funerale da operetta, come se fosse morta la bertuccia della prima donna, con alte grida rivolte al cielo e risate sgangherate di là in platea. Osservate, vi dicevo, quella marea di teste, di barbe, che stanno sopra il Battista. In alto a destra è la folla di santi minori e di beati che assediano quotidianamente Cristo. Tutti si rivolgono a lui tremanti, tenuti su artificialmente da quell’unica nuvola, sulla quale poggia anche Giovanni. Guardate quell’angioletto, verso sinistra, che torce il suo corpo , facendo muovere la nuvola fino a farle fare una grossa piega. Abbiate pazienza, ora disponetevi alla destra del quadro, mettetevi sotto e osservate, con attenzione, proprio quella nuvola. Guardatela, vi scorgerete un mostro terribile, una balena bianca con l’occhio aperto, rivolto al conte e al gruppo dei suoi hidalgos straccioni e affamati. Quel mostro è un brutto presentimento. E’ il teschio di un cane o di un uccello terribile, che col suo becco adunco e duro, sta per voltarsi e mangiare tutti quei nobili che stanno la sotto.      Lei si trattenne ancora per poco. Mi ero informato anch’io sugli orari dei treni da Madrid. Quando chiuse la borsetta e si abbottonò il pesante cappotto, mi alzai in piedi per aprirle il cancello. Tossendo, invece, si avvicinò ancora di più  al dipinto, vi si trattenne un poco sotto e poi, con la mano destra, toccò delicatamente la veste del paggio. La ritrasse e stette così in attesa per un attimo, forse si aspettava una mia reazione, ma io le permisi di fare quello che desiderava. Lasciò correre la mano sul lino bianco che stava per avvolgere don Gonzalo, poi risalì verso l’armatura, toccò il nobile volto, le labbra inerti, il naso sottile, la fronte pallida. Infine toccò i capelli e li accarezzò, come se fossero di persona vera, dalla quale si stesse accomiatando. Rapidamente si voltò, percorse in lungo il corridoio tra i banchi che la portava verso l’uscita, si fermò proprio davanti a me e mi osservò a lungo, come se mi vedesse per la prima volta. Dovette accorgersi in quel momento che anch’io ero invecchiato, perché ebbe una smorfia di compatimento. Poi, come aveva fatto anche Jusepe, allungò una mano e mi toccò la spalla, sfiorò i miei occhi e la mia fronte. Mi accarezzò i capelli, diventati più radi e grigi. Mi sfiorò la barba e i baffi che da qualche tempo mi ero lasciato crescere, senza una parola, senza un sorriso, ma guardandomi dritto negli occhi, come di chi voglia imprimersi per sempre un’immagine nel ricordo. Arretrò di un passo, aprì la borsetta e mi porse una busta chiusa, già vecchia, all’apparenza. Feci per respingerla, pensando si trattasse di denaro che lei non mi doveva affatto. La implorai con gli occhi, lei mi prese la mano e vi pose il plico, feci ancora per restituirglielo, farfugliando qualcosa di stupido, ma lei respinse la mia mano e uscì, per sempre, da santo Tomè e dalla mia vita.

 

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