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« ESAME!!!RISPOSTE ALLA DODICESIMA... »

RISPOSTE ALL'UNDICESIMA ESERCITAZIONE

Post n°22 pubblicato il 19 Aprile 2008 da dirittoprivato2008

Eccovi un esempio di risposte all'undicesima esercitazione:
1) Il generale criterio di comportamento delle parti contraenti è quello della buona fede che è anche criterio di interpretazione del contratto, che non ha altro significato se non correttezza e lealtà. La buona fede è un dovere : le regole non scritte della correttezza e della lealtà sono regole di costume e spetta al giudice stabilire ciò che è secondo buona fede e ciò che è contrario alla buona fede. Il dovere di buona fede opera nello svolgimento delle trattative con il carattere di informazione di una parte nei confronti dell’altra. Chi violando il dovere di buona fede nelle trattative contrattuali ha cagionato un danno all’altra parte è tenuto a risarcirlo (responsabilità precontrattuale). Una specifica ipotesi di responsabilità precontrattuale è prevista dalla legge e prevede che chi conoscendo l’esistenza di una causa di invalidità del contratto non ne ha dato notizia all’altra parte è tenuto a risarcire il danno considerando che potrebbe esserci anche l’interesse contrattuale negativo cioè il danno emergente e il lucro cessante. La buona fede opera anche nella esecuzione del contratto e la legge obbliga di comportarsi secondo buona fede in pendenza della condizione e il divieto di rifiutare la propria prestazione avvalendosi dell’eccezione di inadempimento se il rifiuto è contrario alla buona fede. La buona fede nell’esecuzione del contratto può comportare anche l’adempimento degli obblighi non previsti dalla legge (obbligazioni accessorie). La violazione del dovere di buona fede può anche configurarsi come abuso del diritto e accade quando un contraente esercita verso l’altro i diritti che gli derivano dalla legge o dal contratto per realizzare uno scopo diverso da quello cui questi diritti sono preordinati. La violazione del dovere di buona fede comporta di regola l’obbligazione di risarcire il danno che si è cagionato alla controparte. Quando per l’efficacia del recesso non è richiesta una giusta causa l’effetto estintivo del vincolo contrattuale dovrebbe prodursi per mera volontà del recedente.
2) Il contratto , fatto di parole scritte in un documento o dette a voce, può creare evidentemente un problema interpretativo e ciò, di conseguenza, può dar luogo a controversie. Ne derivano dunque criteri di legge per l’interpretazione del contratto: sono criteri che vincolano le parti e di questi si può avvalere il giudice se rimane controversa tra le parti l’interpretazione del contratto dedotto in giudizio. Detti criteri si distinguono in : • criteri di interpretazione soggettiva basata sulla ricerca della comune intenzione delle parti e quindi non limitandosi al senso letterale delle parole usate • criteri di interpretazione oggettiva basata sulla buona fede contrattuale o altri elementi oggettivi nono riconducibili all’intenzione delle parti Nel primo caso si può scoprire la reale intenzione delle parti valutando il complessivo storico comportamento delle stesse anche seguente la conclusione del contratto o interpretando le singole clausole ( criterio di carattere logico ) attribuendo a ciascuna il significato che risulta dal complesso del contratto ( 1363 c.c. ).
3) Al di là della prospettiva giurisprudenziale e storica , si può dire che con il termine causa del contratto si intende comunemente la ragione dell'atto, l'elemento unificante del regolamento di interessi tra le parti, idoneo a giustificare lo spostamento di beni e valori. Non può esserci, quindi, alcun atto senza giustificazione funzionale, ossia senza causa. Di qui la ripetibilità (cioè la restituzione) dell' arricchimento senza causa. Su un diverso piano di giudizio si colloca, invece, la reazione dell'ordinamento avverso negozi a causa illecita, (vale a dire contraria a norme imperative, ordine pubblico o buon costume), giacché questi negozi sono sì dotati di una ragione giustificativa lo spostamento patrimoniale, ma tale ragione è incompatibile con i valori fondanti, in un determinato momento storico, quella determinata società civile. L'illiceità della causa va estesa anche al caso in cui il contratto costituisca il mezzo per eludere l'applicazione della norma imperativa in frode alla legge (funzione in astratto lecita ma piegata in concreto ad un fine contrario alla legge), articolo 1344. La causa va infine distinta dal motivo, ossia dalla ragione soggettivo dell'agire della persona, che rientra a far parte del contratto soltanto nel caso di apposizione di condizioni sospensive. Il contratto diventa poi illecito, e quindi nullo, quando le parti si sono determinate a concluderlo esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe. Fatta questa premessa distinguiamo tra vendita e permuta: La vendita è un contratto a titolo oneroso: il trasferimento del bene avviene attraverso il corrispettivo di una somma in danaro, il prezzo: la causa è dunque lo scambio tra un diritto e una somma di danaro. Si realizza così una duplica funzione economica : la circolazione dei beni da una parte e la circolazione del danaro dall’altra. La permuta è il contratto che ha per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose, o di altri diritti, da un contraente all'altro. (art. 1552 c.c.) Sebbene si applicano, in quanto compatibili, le norme stabilite per la vendita (art. 1555 c.c.), la permuta differisce da quest'ultima in quanto lo scambio non avviene verso il corrispettivo di un prezzo, ma tramite il reciproco trasferimento della proprietà di cose o della titolarità di altri diritti. La permuta, infatti, deriva da quella forma primitiva di scambio chiamata baratto.( scambio di cosa con cosa). Tranne le norme generali, che richiamano la disciplina della vendita, la permuta è regolata in particolare in tema di evizione ( si ha evizione quando , dopo la vendita, un terzo rivendica con successo la proprietà della cosa e il compratore ne perde la proprietà ) e di spese a carico dei contraenti. Il permutante, se ha subito l'evizione e non intende riavere la cosa data, ha diritto, come per la vendita, al valore della cosa evinta, salvo in ogni caso al risarcimento del danno. (art. 1553 cod.civ.) Infine, salvo patto contrario, le spese della permuta e le altre accessorie sono a carico di entrambi i contraenti in parti uguali, a differenza della vendita in cui, sempre salvo patto contrario, sono a carico del compratore. (art. 1554 cod.civ.).
4) Si può esaminare il caso di compravendita di un immobile di nuova costruzione privo del prescritto certificato di abitabilità. E' prevalsa, soprattutto in giurisprudenza, la tesi per cui l'oggetto di tale contratto non sarebbe affetto da vizi o privo delle qualità essenziali, ovvero gravato di oneri che ne diminuiscano il libero godimento ai sensi dell'art. 1489 c.c., ma di un bene diverso con la conseguente possibilità per l'acquirente di chiedere la risoluzione del contratto ex art. 1453 c.c. Il compratore della cosa viziata è tutelato con le azioni edilizie, la cui origine storica va ricercata nel diritto romano. Tali azioni sono: a) la risoluzione del contratto (azione redibitoria) b) la riduzione del prezzo (azione estimatoria o quanti minoris), previste dall'art. 1492, comma II, c.c. L'azione redibitoria non è un'azione sui generis, ma ha la stessa natura dell'azione generale di risoluzione per inadempimento; trova il proprio fondamento in un difetto funzionale della causa che sussiste indipendentemente dall'eventuale colpa o dolo del venditore. La risoluzione del contratto comporta, per sua natura, il ripristino della situazione anteriore, così come previsto dall'art. 1493 c.c.: il venditore deve restituire il prezzo e rimborsare le spese ed i pagamenti legittimamente fatti per la vendita, mentre il compratore deve restituire la cosa vendutagli. Questa restituzione non potrà avvenire se la cosa sia perita in conseguenza dei vizi (artt. 1492, co.III e 1493, co.II). L'azione estimatoria, invece, consiste nella riduzione del prezzo in rapporto alla minore utilità offerta dalla cosa al compratore; tale riduzione si eseguirà diminuendo il prezzo pattuito di una percentuale pari a quella che rappresenta la menomazione che il valore effettivo della cosa subisce a causa dei vizi. 5) La vendita obbligatoria è riferita ai casi in cui il trasferimento della proprietà della cosa venduta non è effetto immediato del contratto (1476 c.c. ). Il venditore ha inncapo l’obbligazione di far acquistare al compratore la proprietà del bene venduto. L’effetto traslativo della proprietà resta un effetto reale ma questo effetto può prodursi in tempi successivi. I casi di vendita obbligatoria sono: a) vendita di cose determinate solo nel genere: la proprietà passa solo al momento dell’individuazione (es: quella partita di legno di faggio pregiato ) nei modi di legge o di contratto; b) vendita di cose future : cose che ancora non esistono al momento della conclusione del contratto ma che si spera vengano ad esistenza ( futuro raccolto di un fondo agricolo oppure nuovi appartamenti ancora da costruire). La proprietà passa nel momento in cui la cosa viene ad esistenza (art. 1472 c.c.) In questo contesto il contratto di somministrazione è un tipo a sé stante di contratto che si inquadra però nello schema della vendita obbligatoria. E’ un contratto a esecuzione continuata o periodica : una parte si obbliga, per il corrispettivo di un prezzo, ad eseguire verso l’altra prestazioni periodiche o continuative di cose (art. 1559 c.c.) E’ contratto consensuale, ad efficacia obbligatoria nel caso di somministrazione d’uso (di bottiglie per la vendita di bevande, che devono essere restituite), o ad effetti reali nella somministrazione di consumo (fornitura di gas, energia elettrica ecc. in cui le cose fornite vengono trasferite in proprietà al somministrato). Si tratta di un contratto di durata avente ad oggetto più prestazioni autonome e differenti, ma tra loro collegate in funzione di soddisfare esigenze di tipo continuativo o periodico. La prestazione è periodica quando va ripetuta a distanza di tempo, a scadenze determinate. Continuativa è invece la prestazione che si prolunga ininterrottamente per tutta la durata del contratto. Di frequente ricorrenza nel contratto di somministrazione è la c.d. clausola di esclusiva, in virtù della quale uno o entrambi i contraenti si impegnano a non offrire e/o chiedere la stessa prestazione ad altri in un determinato ambito territoriale e per il tempo della durata del contratto. Rivela in fine il c.d. patto di preferenza, di efficacia al massimo quinquennale, con cui somministrato si obbliga a preferire il somministrante, a parità di condizioni, per la stipula di un futuro contratto di somministrazione avente lo stesso oggetto: la clausola viene indicata come tipo es di prelazione convenzionale. Il contratto di somministrazione differisce dall’appalto in quanto quest’ultimo ha ad oggetto la prestazione di servizi; la distinzione diventa però evanescente allorché l’appaltatore debba prestare anche il materiale o la somministrazione abbia ad oggetto la prestazione di cose prodotte dal somministrante. Rispetto alla locazione con la quale ugualmente si attribuisce il godimento di determinate cose, il contratto di somministrazione è caratterizzato dalla reiterazione delle prestazione. Sottospecie del contratto di somministrazione, rientrante nella fattispecie di cui all’art. 1559 c.c. è il contratto di Catering, di derivazione anglosassone, con cui una parte si obbliga verso corrispettivo di un prezzo ad approvvigionare l’altra di pasti pronti per il consumo.

6) La vendita di cosa futura che, come detto, si inquadra nei casi di vendita obbligatoria può essere “vendita della speranza” oppure vendita della “cosa sperata”. Il primo è un contratto aleatorio: il compratore dovrà pagare il prezzo o, se lo ha pagato, non potrà chiederne la restituzione se la cosa non viene ad esistenza (la grandine che distrugge il raccolto o l’edificio che non viene costruito per la mancanza di licenza di costruzione ). Il secondo è un contratto commutativo che è nullo se la cosa non viene ad esistenza. La vendita di cosa futura è di regola la vendita della “cosa sperata” , salvo che non risulti che le parti abbiano voluto concludere un contratto aleatorio.

7) Il lease-back (anche sale and lease-back) è una particolare forma di finanziamento di un'azienda che consiste in un contratto di vendita di un bene stipulato tra il soggetto che lo possiede e l'istituzione finanziaria che contestualmente lo assegna in locazione finanziaria (o leasing finanziario ) al cedente; il cedente pertanto si trasforma da proprietario del bene ad utilizzatore. Come in tutti i contratti di leasing, anche nel contratto di lease-back l'utilizzatore ha la possibilità di riscattare il bene al termine del contratto di locazione (diritto d'opzione d'acquisto). E’ dunque assimilabile a vendita con diritto di riscatto : il venditore si riserva il diritto di riacquistare la proprietà della cosa venduta mediante la restituzione del medesimo prezzo,maggiorato delle spese che l'acquirente ha dovuto affrontare per la vendita,per le riparazioni necessarie e,nei limiti dell'aumento,delle spese che hanno aumentato il valore della cosa. Il compratore soggiace ad un diritto potestativo del venditore. Il termine per il riscatto non può essere maggiore di 2 anni nella vendita di cose mobili e di 5 anni per gli immobili. Il patto di riscatto crea sulla cosa venduta un vincolo reale: se il compratore vende la cosa, il venditore può riscattarla anche nei confronti del terzo acquirente,purché il patto sia ad esso opponibile. Possono essere oggetto di cessione sia beni materiali che immateriali, anche se per questi ultimi esistono vincoli legislativi circa la durata minima del leasing. Pur essendo una forma contrattuale atipica, la Corte di Cassazione ne ha riconosciuto la validità e una sua piena autonomia causale rispetto a altre fattispecie contrattuali con le quali presenta dei punti di contatto. Il lease-back consente all'alienante di liberare capitali altrimenti immobilizzati in mezzi aziendali ottenendo liquidità pur conservandone l'utilizzo contro la corresponsione all'istituto erogante il leasing dei canoni mensili. Tipici esempi di contatti di lease-back possono essere: - la cessione dei immobili o di impianti produttivi - la cessione di un flotta aziendale di automezzi che si intende continuare ad utilizzare tramite un contratto di leasing; - la cessione della proprietà di un marchio pur continuando ad averne i diretti di utilizzo; La funzione del contratto è essenzialmente quella di finanziamento ed, in correlazione ad essa, per lungo tempo si è dubitato della sua compatibilità con il divieto del patto commissorio. Esso ha avuto notevole successo nella pratica soprattutto a causa dei notevoli vantaggi tributari che potevano lucrarsi per suo tramite. Con il contratto di “Sale & lease back” (vendita con leasing di ritorno) un’impresa vende un proprio bene (strumentale alla propria attività) alla società di leasing la quale lo concede contestualmente, tramite locazione finanziaria, all’alienante. Quest’ultimo, per l’utilizzo del bene, paga dei canoni periodici con facoltà di riscattare il bene medesimo al termine del contratto di locazione. Richiamando l’attenzione sulla doppia funzione svolta dall’utilizzatore, che assume contestualmente anche la parte di fornitore del bene, dobbiamo ricordare che l’orientamento legislativo in materia di lease back è cambiato in questi ultimi anni. Infatti, sino alla sentenza del SECIT (Servizio Centrale degli Ispettori Tributari) del 07/06/1999, vigeva l’impostazione che riteneva nullo il contratto di lease back poiché considerato come un mutuo assistito da garanzia reale; secondo tale indirizzo interpretativo, i canoni di leasing non costituivano il corrispettivo del godimento del bene ma una mera restituzione di denaro ottenuto in prestito, gravato da interessi. Inoltre, il trasferimento della proprietà del bene alla società finanziaria, non avendo il fine di procurare al finanziato la disponibilità dello stesso, aveva soltanto lo scopo di garanzia. Pertanto, secondo la tesi originaria del SECIT, il contratto di lease back poteva anche essere considerato nullo, in quanto caratterizzato da una causa illecita, perché diretto ad eludere il divieto del patto commissorio di cui agli articoli 1963 e 2744 del Codice Civile. La giurisprudenza ha però sempre manifestato un orientamento contrario alle tesi dell’Amministrazione Finanziaria; infatti la Corte di Cassazione, con la sentenza n° 10805 del 16/10/95, ha di fatto stabilito l’autonomia contrattuale del lease back. Secondo la Suprema Corte, la locazione finanziaria di ritorno non è identificabile come una vendita con patto di riscatto ma è una fattispecie diversa che si concretizza nella vendita con patto di cedere il bene in locazione finanziaria. Inoltre, in base a questa impostazione, l’opzione finale di acquisto è da considerarsi come una nuova manifestazione di volontà che si può esercitare, eventualmente, solo al termine del contratto di leasing. Comunque, il nostro ordinamento giuridico, prevede alcuni elementi suscettibili di ricevere tutela quali, ad esempio, la strumentalità del bene all’attività dell’utilizzatore, l’esistenza di situazioni debitorie pregresse tra la società concedente e l’utilizzatore medesimo, la sproporzione tra l’eventuale valore elevato del bene e l’esiguo prezzo pagato dalla società di leasing. Ammessa dunque la fattibilità del lease back, si tratta di compiere alcune osservazioni circa la convenienza di questo contratto. In via generale, il ricorso al “sale & lease back” potrebbe nascere dalla necessità di procurarsi una pronta disponibilità di capitali freschi da destinare alla propria attività, attraverso lo smobilizzo di una parte del patrimonio che, in ogni caso, rimane nella sfera di utilizzo dell’impresa. Il lease back potrebbe consentire alle imprese il raggiungimento di un buon equilibrio finanziario, favorendo da un lato l’utilizzo di fonti di approvvigionamento a medio/lungo periodo e la distribuzione degli interessanti vantaggi fiscali offerti dalla locazione finanziaria. La valutazione relativa alla convenienza della locazione finanziaria di ritorno, può essere però compiuta solo conoscendo la situazione economico patrimoniale e la politica fiscale “propria” dell’impresa. Non potendo quindi generalizzare, si ricorda che rispetto alla locazione finanziaria “tradizionale”, il lease back - causa la cessione del bene dal cliente alla società di leasing – potrebbe fare emergere una plusvalenza imponibile o una minusvalenza deducibile dal reddito; ciò può accadere in ragione della differenza tra il valore residuo (prezzo storico comprese le eventuali rivalutazioni - al netto degli ammortamenti) e prezzo di cessione alla società di leasing. PATTO COMMISSORIO E CONTRATTO DI LEASE BACK L'articolo 2744 dei codice civile - Divieto dei patto commissorio - prescrive che "E' nullo il patto col quale si conviene che, in mancanza dei pagamento dei credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore. Il patto è nullo anche se posteriore alla costituzione dell'ipoteca e dei pegno". La ratio di tale norma è quella di tutelare l'interesse dei contraente più debole ed in particolare di impedire che quest'ultimo, spinto dal bisogno, conferisca al creditore la facoltà di fare propria la cosa data in pegno, anticresi o ipoteca, sperando di riscattarla in tempo mediante estinzione del debito. Nonostante l'art. 2744 c.c. enunci espressamente i casi della dazione di ipoteca e di pegno e dell'anticresi, la giurisprudenza uniforme ha sancito che il suindicato divieto vige anche al di fuori di tali casi, estendendosi a qualunque negozio mediante il quale le parti intendano realizzare il fine concreto vietato dalla legge. Pertanto non è possibile identificare in astratto una categoria di atti potenzialmente soggetti a nullità perché in violazione con il divieto dei patto commissorio, e limitare a questi l'efficacia di tale divieto, ma si deve riconoscere che tutti i negozi o contratti possono incorrere in tale sanzione, qualunque ne sia il contenuto, se vengono impiegati per conseguire lo scopo vietato ( cfr. 74/282; Cass. 22 aprile 1998 n. 4095; 10 febbraio 1997 n. 1233), tesi che peraltro ha trovato un favorevole riscontro anche nella dottrina (Carnevali, Patto commissorio, voce dell'Enciclopedia dei diritto, Milano 1982 XXXII, 501). Detto orientamento è giustificato dalla necessità di fronteggiare il tentativo di aggirare il divieto ex art. 2744 c.c., ponendo in essere dei negozi che in sé non sono proibiti dalla legge, ma che in realtà combinandosi con altre operazioni negoziali, realizzano il risultato vietato e ciò dicasi anche per i contratti innominati e socialmente tipici. La nullità dei contratti posti in essere in violazione dell'art.2744 c.c. trova il proprio fondamento nella maggiore insidiosità1 insita nell'alienazione con patto di retrovendita condizionato - oppure in tutti i negozi che ne costituiscano l'equivalente funzionale -insidia che porta colui che si trova nella dura necessità di procurarsi rapidamente dei capitale a compiere scelte avventate quando si tratta di alienare sì un proprio bene, ma con la speranza di poterlo riscattare facilmente (situazione che ben si differenzia dalla alienazione definitiva, ove insussistendo la suindicata speranza anche in casi estremi il venditore appare più accorto). In particolare appare interessante svolgere qualche riflessione in merito al contratto ben noto nella prassi degli affari, di Lease Back con il quale l'impresa vende un proprio bene di natura strumentale per l'esercizio dell'impresa o dell'attività ad una società di leasing, la quale lo concede contestualmente in leasing all’alienante che corrisponde per l'utilizzazione dei bene un canone con facoltà alla scadenza dei leasing di riacquistare la proprietà esercitando un diritto di opzione, per un determinato prezzo. Pertanto detto negozio realizza una vendita all'impresa di leasing, la quale non è certamente diretta alla garanzia di un preesistente o concorrente mutuo, ma costituisce il presupposto per la concessione dei bene in leasing: si tratta dunque di una vendita a scopo di leasing o contratto con causa di finanziamento Il fine del suindicato contratto sostanzialmente è quello di permettere al venditore utilizzatore di ottenere liquidità con immediatezza per finanziare riconversioni o acquisizioni di nuovi impianti tecnologici, mediante alienazione di un suo bene strumentale, conservando di questo l'uso e con facoltà di riacquistarne la proprietà al termine dei rapporto. Tuttavia la validità del suindicato contratto è stata fortemente discussa in passato in quanto inizialmente lo si considerava affetto da nullità perché contrario al divieto imposto dall'art.2744 c.c. (in tal senso Trib. Verona sentenza 15 dicembre 1988 e Trib. di Pavia, sent. 1 aprile 1988). Pertanto la giurisprudenza ha ritenuto che il contratto Lease Back debba ritenersi valido solo qualora sia accertata la sussistenza di determinati requisiti fondamentali ed in particolare: - insussistenza tra le parti di un credito preesistente e indipendente da garantire; -realtà e veridicità della vendita, non sottoposta ad alcuna condizione, di un bene avente natura strumentale per l'esercizio dell'impresa o dell'attività; - l'investimento della somma ricavata dalla vendita in riconversioni o acquisizioni di nuovi impianti tecnologici; - il diritto di opzione in capo al venditore - utilizzatore ad un prezzo predeterminato, tenuto conto dei criteri di determinazione dei prezzo dì vendita, dei canoni e dei prezzo di opzione e della qualità delle parti contrattuali (la locazione finanziaria deve essere realizzata da intermediaria finanziari abilitati all'esercizio dell'attività finanziaria ai sensi del testo unico del credito). Il giudice dovrà dunque analizzare caso per caso ogni singolo contratto al fine di verificare in concreto la sussistenza di tali necessari requisiti ed invero, qualora il contratto in esame difetti dei requisiti sopra indicati dovrà giudicarsi nullo in quanto atto al perseguimento di uno scopo di garanzia con caratteristiche integranti un mutuo con patto commissorio. Esiste anche un orientamento secondo il quale, al fine di dimostrare l'insussistenza della "presunzione" sanzionata dall'art. 2744 c.c., è sufficiente per i contratti di Lease Back la presenza di una clausola che consenta al termine dei rapporto di valutare il valore che in quel momento ha il bene oggetto di garanzia, onde consentire la validità dell'alienazione se il valore dei bene è equiparabile al valore dei credito inadempiuto, o quantificare il maggior costo che dovrebbe sopportare il creditore per ottenere l'acquisizione dei bene. In assenza di detta clausola il contratto dovrebbe pertanto ritenersi nullo. Diversa dalla vendita con patto di riscatto è la vendita con patto di retrovendita: con questo patto il compratore si obbliga nei confronti del venditore a ricedergli il bene in un secondo momento. In questo caso non basta la semplice dichiarazione del venditore per riacquistare il bene, ma serve un ulteriore negozio di trasferimento, in cui oltre alla volontà del venditore c'è quella del compratore. Il patto di retrovendita ha la stessa funzione di un contratto preliminare, con il patto di retrovendita le parti si vincolano reciprocamente a stipulare un nuovo negozio di vendita. Nel caso in cui il compratore non volesse ritrasferire il bene, il venditore può agire in via esecutiva e ottenere (ex art 2932 c.c.) una sentenza costitutiva che produce gli stessi effetti del contratto che si sarebbe dovuto porre in essere.

 
 
 
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