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« RISPOSTE ALL'UNDICESIMA...QUESITI DELLA PROVA DEL 21.04.08 »

RISPOSTE ALLA DODICESIMA ESERCITAZIONE

Post n°23 pubblicato il 19 Aprile 2008 da dirittoprivato2008

Eccovi un esempio di risposte alla dodicesima esercitazione.

1) Il lavoro subordinato, attualmente la forma lavorativa ancora più diffusa nel mondo economico, è la figura di lavoro posta al centro del diritto del lavoro. La nozione giuridica di lavoro subordinato più recente, parte dal presupposto dell'assoggettamento del prestatore di lavoro nei confronti del datore di lavoro, assoggettamento identificabile nella possibilità da parte del datore di lavoro di poter determinare modalità e tempi di esecuzione dell'oggetto dell'obbligazione sorta dal contratto stipulato dalle parti. Inoltre, per l'identificazione di una fattispecie di lavoratore subordinato, la giurisprudenza ha individuato alcuni criteri indiziari (mentre quello fondamentale rimane solo l'assoggettamento): la continuità della prestazione, che presuppone la natura dell'oggetto come attività e non risultato; l'obbligo di un determinato orario di lavoro più o meno flessibile, ma comunque determinato; una retribuzione anch'essa fissa e determinata, con l'assenza di rischio per il lavoratore. Il vincolo della subordinazione si ha quando il prestatore mette a disposizione del datore le sue energie psico-fisiche al fine della realizzazione di un bene o servizio nell'interesse del datore. Si avrebbe pertanto un fenomeno di alienazione delle energie psico-fisiche del lavoratore al datore. La natura sociale di tale vincolo sarebbe da rintracciare nel fatto che il prestatore subordinato, anche a livelli dirigenziali, può svolgere il proprio lavoro solo tramite i mezzi e le strutture di cui dispone il datore. Fa eccezione il rapporto di lavoro a domicilio, per il quale il vincolo di subordinazione assume una definizione "tecnica", ossia quella che definisce il vincolo di subordinazione come l'assoggettamento del prestatore di lavoro nei confronti delle direttive del datore di carattere organizzativo, sulle modalità di esecuzione della prestazione, i requisiti, le caratteristiche e le finalità del rapporto di lavoro. A differenza del lavoratore subordinato, il lavoratore autonomo assume un'obbligazione di risultato e non di mezzi: egli, cioè, non si obbliga a mettere a disposizione la propria forza lavoro per un determinato tempo, ma garantisce il raggiungimento di determinati risultati, Conseguenza di tale diversa natura è che il lavoratore autonomo svolge la propria attività con mezzi prevalentemente propri e non del committente, e con piena discrezionalità circa il tempo, il luogo e le modalità della prestazione. Non ha, dunque, vincoli di subordinazione nei confronti del committente, il quale non ha i poteri direttivi, di controllo e disciplinare tipici del datore di lavoro subordinato. In ogni caso il prestatore di lavoro autonomo può essere obbligato al rispetto dei limiti e delle condizioni contenute nel contratto. Nel lavoro autonomo si distinguono le ampie categorie delle prestazioni d'opera manuale ed intellettuale: in quest'ultima categoria rientrano essenzialmente le libere professioni intellettuali protette da iscrizione in un albo professionale). Inoltre nel lavoro autonomo rientrano alcune forme di collaborazione parasubordinata, che si distinguono per la prestazione dell'attività lavorativa in forma non subordinata ma neanche totalmente autonoma: bensì in forma coordinata e, spesso, compenetrata nell'organizzazione di mezzi dell'imprenditore committente. Rientrano in queste forme di collaborazione autonoma le cosiddette co.co.co, ormai sostituite dal lavoro a progetto anche detto Co.Co.Pro, e altre forme di Lavoro parasubordinato. Norme del codice civile Art. 2222 Contratto d'opera Quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo (1351) un'opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo Capo, salvo che il rapporto abbia una disciplina particolare nel Libro IV( art.1655). Art. 2229 Esercizio delle professioni intellettuali La legge determina le professioni intellettuali per l'esercizio delle quali è necessaria l'iscrizione in appositi albi o elenchi. L'accertamento dei requisiti per l'iscrizione negli albi o negli elenchi, la tenuta dei medesimi e il potere disciplinare sugli iscritti sono demandati alle associazioni professionali sotto la vigilanza dello Stato, salvo che la legge disponga diversamente. Contro il rifiuto dell'iscrizione o la cancellazione dagli albi o elenchi, e contro i provvedimenti disciplinari che importano la perdita o la sospensione del diritto all'esercizio della professione e ammesso ricorso in via giurisdizionale nei modi e nei termini stabiliti dalle leggi speciali. Definizione della posizione di prestatore di lavoro subordinato o lavoratore dipendente. E’ colui che si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro (intellettuale o manuale) alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore. La sua posizione è chiaramente definita nell’articolo 2094 del Codice Civile. Nell’art. 2095 vengono poi determinate le categorie dei prestatori di lavoro subordinato.

2) Il licenziamento è l'atto con il quale il datore di lavoro recede unilateralmente dal contratto di lavoro con un suo dipendente. È un diritto potestativo fortemente procedimentalizzato. Nell'ordinamento italiano, il potere di licenziare può essere esercitato solo nel rispetto di precisi limiti e modalità, sia sotto l'aspetto dei motivi del recesso sia sotto quello della procedura da seguire. Motivazioni del licenziamento Nella maggior parte dei casi, il licenziamento del lavoratore dipendente è possibile solo in presenza di specifiche motivazioni socialmente giustificate (art. 1 l. 15 luglio 1966, n. 604; art. 18 dello Statuto dei lavoratori), che possono riguardare la condotta del lavoratore (licenziamento disciplinare, per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo) ovvero la situazione in cui si trova l'azienda (licenziamento per giustificato motivo oggettivo). Il licenziamento per colpa del lavoratore (licenziamento disciplinare) La motivazione più frequente del licenziamento riguarda comportamenti colposo o dolosi del lavoratore, la cui gravità non consente la prosecuzione del rapporto di lavoro per via della lesione del vincolo fiduciario. In relazione alla gravità della condotta, nel diritto italiano si distingue tradizionalmente tra licenziamenti per "giusta causa" e per "giustificato motivo". La giusta causa "Giusta causa" è un concetto usato dal codice civile italiano (art. 2119 ) per riferirsi ad un comportamento talmente grave da non consentire la prosecuzione del rapporto neppure a titolo provvisorio (in sostanza: neppure per il tempo previsto per il preavviso di licenziamento). In queste ipotesi, il datore può licenziare in tronco, senza dare alcun preavviso. A titolo esemplificativo, possono costituire giusta causa di licenziamento: • rifiuto ingiustificato e reiterato di eseguire la prestazione lavorativa • rifiuto a riprendere il lavoro dopo visita medica che ha constatato l'insussistenza di una malattia • lavoro prestato a favore di terzi durante il periodo di malattia, se tale attività pregiudica la pronta guarigione e il ritorno al lavoro • sottrazione di beni aziendali nell'esercizio delle proprie mansioni (specie se fiduciarie) • condotta extralavorativa penalmente rilevante ed idonea a far venir meno il vincolo fiduciario (es. rapina commessa da dipendente bancario) Il giustificato motivo soggettivo Il "giustificato motivo" (soggettivo) è un'ipotesi meno grave di inadempimento degli obblighi contrattuali, che giustifica il licenziamento ma con l'obbligo da parte del datore di lavoro di concedere il preavviso previsto (ovvero di pagarne il relativo ammontare). Possono costituire ipotesi di giustificato motivo soggettivo: • l'abbandono ingiustificato del posto di lavoro • minacce,percosse,ingiurie e/o grave diffamazione nei confronti del datore di lavoro o di superiori gerarchici • reiterate violazioni del codice disciplinare di gravità tale da condurre al licenziamento Differenze tra le due nozioni Al di là delle elencazioni esemplificative, a volte proposte anche dai contratti collettivi, la condotta del lavoratore dipendente deve essere valutata sia con riguardo alle modalità concrete del comportamento (tipo di rapporto, grado di affidamento fiduciario, gravità intrinseca della condotta, ecc.) sia all'elemento soggettivo (intensità del dolo, grado della colpa, motivazioni, circostanze di fatto, effetti dell'atto). A valutare l' ascrivibilità di una condotta all'una o all'altra nozione è, qualora invocato, il giudice del lavoro, che in tale valutazione dispone di ampia discrezionalità. Sul piano pratico, la differenza tra le due nozioni si risolve in questo: in caso di licenziamento per giustificato motivo, il datore è tenuto a dare un periodo di preavviso, stabilito dai contratti collettivi; se vuole interrompere subito il rapporto di lavoro, è tenuto corrispondere al lavoratore una indennità di mancato preavviso, pari alla retribuzione, complessiva di tutte le sue voci, che gli sarebbe spettata se avesse lavorato durante tale periodo. In caso di licenziamento per giusta causa, il rapporto si interrompe immediatamente e il datore non deve corrispondere alcuna indennità di mancato preavviso. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo A volte il licenziamento è reso necessario da una riorganizzazione del lavoro, da ragioni relative all'attività produttiva (innovazioni tecnologiche, modifica dei cicli produttivi, ecc.), ovvero da una crisi aziendale. Nelle ipotesi, cioè, in cui l'azienda, per vari motivi, non ricava più utilità dal lavoro svolto da quel dipendente, o, in generale, da una categoria di dipendenti. Per ragioni di natura economica o tecnica, il datore può quindi decidere di licenziare uno o più lavoratori. Se il licenziamento interessa cinque o più lavoratori nell'arco di 120 giorni, il datore è tenuto ad osservare la speciale disciplina prevista per i licenziamenti collettivi.. Se tali soglie non sono raggiunte, si applica la generale disciplina sui licenziamenti qui esposta. Casi di giustificato motivo oggettivo Possono costituire casi di giustificato motivo oggettivo: • la chiusura dell'attività produttiva • la soppressione del posto di lavoro • introduzione di nuovi macchinari che necessitano di minori interventi umani • affidamento di servizi ad imprese esterne Va precisato che le ragioni sopra esposte devono sussistere effettivamente e al momento in cui il licenziamento viene intimato, a pena dell'inefficacia dello stesso. Il giudice può controllare l'effettiva sussistenza delle ragioni tecniche ed organizzative, anche se non può sindacare sulla loro reale convenienza ed opportunità. Una presunzione di illegittimità del licenziamento si ha qualora il datore assuma, nei mesi successivi al licenziamento, nuovi lavoratori (anche a termine) per ricoprire le stesse mansioni in precedenza esercitate dai dipendenti licenziati. In caso di contestazione in giudizio, è sempre il datore di lavoro a dover provare: 1. l'effettiva sussistenza delle ragioni tecniche o organizzative 2. l'impossibilità di adibire il lavoratore ad attività equivalente in azienda, ad esempio perché al momento del licenziamento non sussisteva in azienda alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa alla quale il lavoratore licenziato avrebbe potuto essere assegnato per l’espletamento di mansioni equivalenti a quelle da lui in precedenza svolte, tenuto conto della professionalità raggiunta dal lavoratore medesimo 3. il nesso tra le esigenze aziendali e il licenziamento intimato. Scelta del dipendente e obbligo di repêchage Il lavoratore da licenziare deve essere scelto secondo correttezza e buona fede. Se esistono, devono essere applicati i criteri concordati con le associazioni sindacali (es. minore anzianità di servizio, minore carico di famiglia, età, ecc.). In ogni caso è ovviamente vietato scegliere il lavoratore da licenziare sulla base di motivazioni discriminatorie (razziali, di sesso, di orientamento sessuale, ecc.). Prima di procedere al licenziamento, il datore di lavoro ha l'obbligo di verificare che il lavoratore non possa essere adibito, nella medesima azienda, a mansioni equivalente in altro posto di lavoro. Le ipotesi di libera recedibilità Fanno eccezione alla regola della necessaria motivazione del licenziamento solo pochi rapporti di lavoro, in cui il recesso può essere intimato. Tra questi vanno ricordati: • lavoratori domestici • lavoratori in prova • lavoratori con più di 65 anni e diritto alla pensione di vecchiaia • lavoratori assunti con contratto a termine (alla scadenza del termine) • lavoratori assunti con contratto di apprendistato (al termine dell'apprendistato) • lavoratori in malattia (al superamento del cosiddetto periodo di comporto) • atleti professionisti Una specifica disciplina vale infine per i lavoratori a domicilio e per i dirigenti. Forma del licenziamento Sotto il profilo della procedura da seguire, si deve distinguere il licenziamento disciplinare (per giusta causa o giustificato motivo soggettivo) da quello non disciplinare (giustificato motivo oggettivo). Licenziamento non disciplinare Deve essere intimato necessariamente per iscritto, pena l'inefficacia del provvedimento. Secondo costante giurisprudenza, infatti, la forma scritta del licenziamento è richiesta ad substantiam, in base all’art. 2 della legge n. 604/66, anche dopo la riformulazione di questa norma operata con la legge n. 108/90. Il licenziamento produce i suoi effetti quando giunge a conoscenza del lavoratore. In particolare l’art. 2 della legge n. 604/1966 esige che lo scritto, da utilizzare come strumento di comunicazione, non solo sia espressamente diretto all’interessato, ma sia anche a lui consegnato, con la conseguenza che è inidonea a realizzare la comunicazione scritta voluta dalla legge la conoscenza che il lavoratore abbia avuto altrimenti del licenziamento. Ciò comporta che, maggior parte dei casi, la lettera di licenziamento assuma la forma di una raccomandata, consegnata direttamente all'interessato (raccomandata a mano) o a mezzo posta (raccomandata con ricevuta di ritorno), presso la sua residenza o il suo domicilio. Finché la comunicazione è meramente orale, il lavoratore resta dipendente in forza presso il datore di lavoro, ed è tenuto a presentarsi sul luogo di lavoro, potendo rappresentare le assenze non giustificate (senza certificati medici) un giustificato motivo di licenziamento. Il licenziamento dispiega i suoi effetti quando la lettera con cui è intimato perviene all'indirizzo del lavoratore (articolo 1335 c.c.). Lo scritto con cui è intimato il licenziamento potrebbe non contenere alcun riferimento ai motivi del provvedimento datoriale. In questo caso il lavoratore può richiedere - nel termine di 15 giorni - i motivi del licenziamento, richiesta cui il datore di lavoro deve rispondere entro i successivi sette giorni, pena l'inefficacia del provvedimento. Anche la comunicazione dei motivi deve, a pena di inefficacia, rivestire la forma scritta. I motivi comunicati in questa fase dal datore di lavoro non sono modificabili successivamente. Licenziamento disciplinare In caso di licenziamento disciplinare, la procedura da seguire è quella prevista dallo Statuto dei lavoratori per il corretto esercizio del potere disciplinare (art. 7 legge 300 del 1970). Al datore di lavoro sono posti vari obblighi, tra i quali assumono rilevanza centrale: • la predisposizione di un codice disciplinare che individui le infrazioni e le relative sanzioni (di norma si tratta di un estratto del contratto collettivo di settore). Non è necessario elencare i comportamenti comunemente avvertiti come antisociali e/o previsti dalla legge come reato, in quanto il dipendente non può non sapere che un comportamento considerato illecito dalla legge può essere sanzionato anche in azienda. • la pubblicazione del codice disciplinare, da effettuarsi esclusivamente mediante affissione dello stesso in luogo accessibile a tutti i dipendenti • la contestazione per iscritto dell'addebito. La contestazione deve rispettare alcuni principi: o Immediatezza: l'addebito va contestato prima possibile, e in ogni caso entro il termine stabilito dal contratto collettivo. Per la Cassazione, l'immediatezza è presupposto di legittimità del provvedimento. o Specificità: i fatti vanno individuati in modo preciso, per consentire una difesa puntuale. o Immutabilità: il fatto risultante dalla contestazione non può essere successivamente modificato. Contestato l'addebito, il datore deve consentire l'esercizio del diritto di difesa da parte del prestatore, che deve essere sentito qualora ne faccia richiesta. Il licenziamento disciplinare non può essere intimato prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione. Impugnazione del licenziamento Il licenziamento non sorretto da giusta causa o giustificato motivo, o intimato senza rispetto della prescritta procedura, o contrario a norme imperative (es. perché discriminatorio, o comminato nei periodi in cui non è possibile recedere per tutela della lavoratrice madre) può essere impugnato. L'impugnazione è di norma proposta dal lavoratore personalmente, ovvero dal sindacato cui questi è iscritto o da un legale munito di procura speciale. Per impugnare il licenziamento è sufficiente qualsiasi atto scritto (di norma una lettera) con cui il lavoratore comunichi al datore di lavoro la sua intenzione di contestare la legittimità del provvedimento espulsivo. Tale impugnazione deve avvenire entro il termine di sessanta giorni dalla data del licenziamento ovvero dalla successiva data di comunicazione dei motivi, qualora richiesti (art. 6 l. 604/66). Il termine ha natura decadenzale: se il licenziamento non è impugnato, si decade dalla possibilità di richiedere al Giudice del lavoro l'accertamento della illegittimità del provvedimento datoriale e la conseguente condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno. Impugnato per tempo il licenziamento, il lavoratore ha cinque anni di tempo (termine prescrizionale) per iniziare la causa contro il datore di lavoro, cioè per impugnare giudizialmente il licenziamento, con ricorso al Tribunale in funzione di Giudice del lavoro. Sotto il profilo procedurale, trovano applicazione le norme sul processo del lavoro, compresa la necessità di dar corso al tentativo obbligatorio di conciliazione in sede sindacale o amministrativa. Dimissioni e licenziamento Le dimissioni, a differenza del licenziamento, comportano la corresponsione entro mesi delle sole spettanze (ferie e PAr non goduti e il TFR). Dimettendosi il lavoratore, perde il diritto alla tutela reale e obbligatoria. Talora, le dimissioni volontarie sono incentivate dal datore di lavoro, che propone un'indennità, subordinata alla firma di un verbale di accordo con il quale le parti rinunciano a ogni altra successiva rivendicazione.

3) Aziende oltre i 15 dipendenti: la "tutela reale" In diritto del lavoro, la "tutela reale" ,che si differenzia come vedremo, dalla cd. "tutela obbligatoria", ha ad oggetto la tutela dagli esiti di un licenziamento nullo od illegittimo in aziende che hanno più di 15 dipendenti. In dette aziende, infatti, il lavoratore ingiustamente licenziato ha diritto non solo ad un risarcimento del danno pari alle retribuzioni maturate e/o maturande dal licenziamento alla reintegra, con un limite di 5 mensilità, ma anche alla reintegra stessa nel posto di lavoro che consiste nella ripresa della medesima attività lavorativa con azzeramento, quindi, degli effetti del recesso. In sostituzione della reintegra, il lavoratore può richiedere la corresponsione di 15 mensilità della retribuzione globale di fatto, ai sensi dell'art. 18 legge n. 300 del 1970 ( Statuto dei lavoratori ). Area di applicabilità La tutela più rigida, prevista dall'art. 18 St.lav., si applica ai datori di lavoro (imprenditori o non imprenditori) che presentino le seguenti soglie occupazionali: • datori che occupino, in una singola unità produttiva, più di 15 dipendenti • datori che occupino, anche in più unita produttive ma nell'ambito dello stesso comune, più di 15 dipendenti • datori che occupino complessivamente più di 60 dipendenti Il computo dei dipendenti va fatto considerando i lavoratori stabilmente occupati in azienda al momento dell'intimazione del licenziamento. Tra i lavoratori da considerare rientrano: • quelli assunti con contratto a tempo indeterminato • quelli assunti con contratto a tempo parziale (part time), ma in proporzione all'orario svolto rapportato al tempo pieno (2 lavoratori part time al 50% si contano come una unità) Restano esclusi dal computo, per previsione di legge: • gli apprendisti (art. 53, d.lgs. 276/2003) • i dipendenti assunti con contratto di inserimento (art. 59, d.lgs. 276/2003) • il coniuge del datore di lavoro, nonché i suoi parenti entro il secondo grado (art. 18, l. 300 del 1970) La giurisprudenza ha inoltre escluso: • i lavoratori assunti a tempo determinato per sopperire ad esigenze eccezionali e momentanee dell'azienda • il socio consigliere di amministrazione, anche qualora prestasse stabilmente la propria attività nell'azienda. Regime sanzionatorio In caso di licenziamento illegittimo comminato da un'azienda con più di 15 dipendenti, la sentenza del giudice del lavoro comprende 1. un ordine al datore di lavoro di reintegrare il dipendente nel posto di lavoro 2. la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno arrecato, pari alla retribuzione globale di fatto che il lavoratore avrebbe avuto diritto a percepire dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione in azienda; in ogni caso la somma dovuta a titolo di risarcimento del danno non può essere inferiore ad un importo pari a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. 3. la condanna del datore a versare i contributi assistenziali e previdenziali dovuti per il periodo compreso tra il licenziamento e il provvedimento di reintegra (in quanto né il rapporto di lavoro, né quello assicurativo - INAIL e previdenziale - INPS si possono considerare interrotti) Se il lavoratore non vuole ritornare in azienda, può scegliere di rinunciare alla reintegrazione e richiedere il pagamento di una indennità sostitutiva, pari a 15 mensilità della sua retribuzione globale di fatto. La scelta va comunicata entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza. Qualora il lavoratore, invitato a riprendere il lavoro a seguito di ordine di reintegrazione, non si presenti in azienda entro 30 giorni, ovvero non comunichi la sua volontà di optare per l'indennità sostitutiva, il rapporto di lavoro si intende definitivamente risolto (art. 18, comma 5, l. 300/1970). Indennità di mancato preavviso I Contratti Collettivi Nazionali definiscono, per ogni livello di inquadramento, un periodo di preavviso che datore e dipendente devono osservare prima di recedere unilateralmente dal contratto. Il periodo da osservare è indicato nel contratto e può essere aumentato dalla trattativa individuale in sede di assunzione. se non specificato nel contratto, il riferimento è il CCNL di categoria. Il dipendente che presenta le dimissioni o il datore che licenzia devono dare alla controparte un preavviso durante il quale resta in vigore il rapporto di lavoro. Le dimissioni e il licenziamento sono effettivi, e il rapporto di lavoro estinto, al termine di questo periodo. Il preavviso serve al lavoratore ad avere un tempo idoneo a trovarsi un'altra occupazione, e al datore ad assumere un'altra persona con un eventuale periodo di affinacamento e travaso di conoscenza. Diversamente, il dipendente dimissionario o il datore licenziante devono corrispondere alla controparte un'indennità di mancato preavviso, pari alle mensilità previste (es.: preavviso di un mese, una mensilità da pagare). L'indennità decade per dimissioni o licenziamento per giusta causa, anche sopraggiunte durante il periodo di preavviso, o per verbale di accordo fra le parti (vale, come detto, per recesso unilaterale, non bilaterale delle parti contraenti). L'indennità di mancato preavviso è distinta e cumulabile con le mensilità corrisposte in base alla tutela reale e obbligatoria. L'art. 2118 del c.c. prevede un periodo di preavviso per l'esercizio del diritto di recesso da parte di una delle parti contraenti. La norma si applica a contratti di qualunque tipo, non solamente a contratti di lavoro. La durata del preavviso è disciplinata dalla contrattazione collettiva, e, in assenza di una specifica contrattuale a riguardo, dai termini di preavviso di cui all'art. 10, R.D.L. n. 1825/1924 (legge sull'impiego privato). Aziende fino a 15 dipendenti: la "tutela obbligatoria" Quando il licenziamento illegittimo è intimato da aziende di dimensioni più ridotte (sino a 15 dipendenti), la sentenza stabilisce un obbligo alternativo in capo al datore di lavoro (art. 8 legge n. 604/66), il quale può scegliere tra • riassumere il lavoratore entro tre giorni dalla pubblicazione della sentenza • ovvero pagare all'ex dipendente una indennità risarcitoria, compresa tra 2,5 e 6 mensilità (estensibile sino a 10 per i lavoratori con almeno dieci anni di anzianità, e fino a 14 per i dipendenti in servizio da più di venti anni). La misura dell'indennità è stabilita dal giudice sulla base dell'anzianità di servizio, delle dimensioni aziendali, nonché al comportamento tenuto dalle parti. A differenza di quanto stabilito per le aziende maggiori, nell'area della tutela obbligatoria il licenziamento - seppur illegittimo - determina la cessazione del rapporto. L'obbligo imposto al datore di lavoro soccombente nel giudizio è quindi diverso da quello previsto in regime di tutela reale: non si tratta infatti di reintegrazione nel rapporto di lavoro, ma di riassunzione. Il lavoratore è quindi assunto nuovamente sulla base di un nuovo contratto, con conseguente azzeramento della pregressa anzianità di servizio. Per il periodo intercorrente tra licenziamento e riassunzione il datore di lavoro non è tenuto a pagare né la retribuzione, né i contributi assistenziali e previdenziali. Qualora il datore non provveda alla riassunzione nel termine di legge, egli è tenuto a pagare l'indennità prevista, oltre all'indennità di mancato preavviso (che recente giurisprudenza ha ritenuto compatibile con il sistema sanzionatorio della tutela obbligatoria). La differenza sostanziale fra tutela reale e tutela obbligatoria, ossia fra reintegra e riassunzione, è che dove vige la tutela obbligatoria, nelle aziende con meno di 15 dipendenti, il datore può rifiutarsi di riammettere il dipendente nel posto di lavoro, e pagare un'indennità. Sopra i 15 dipendenti, la decisione spetta al lavoratore, ma a seguito della sua richiesta, il datore ha l'obbligo di riassumerlo. Se il datore impedisce materialmente l'accesso alla sede di lavoro, ovvero sottrae al lavoratore mezzi e attrezzature (quali computer, telefono aziendale, etc.) necessarie a esperire la sua attività, il lavoratore può avvalersi della forza pubblica per i verbali e contestazioni del caso, e adire nuovamente il giudice del lavoro. La tutela obbligatoria si distingue qundi da quella reale sotto due profili principali: 1. nella tutela obbligatoria la scelta tra riassunzione e pagamento dell'indennità spetta al datore di lavoro; nella tutela reale è il lavoratore ad avere la libertà di scelta; 2. la misura del risarcimento è significativamente minore nell'area della tutela obbligatoria. Licenziamenti discriminatori e altri casi di nullità In talune ipotesi espressamente previste dalla legge, il licenziamento è considerato radicalmente nullo. Le ipotesi principali previste dall'ordinamento italiano sono le seguenti: • licenziamento intimato alla lavoratrice madre, nel periodo compreso tra l'inizio della gravidanza e il compimento del primo anno di vita del bambino (art. 54 d.lgs. 151 del 2001) • licenziamento intimato al lavoratore padre, in caso di fruizione del congedo di paternità, per la durata del congedo e fino al compimento del primo anno di vita del bambino • licenziamento intimato per appartenenza ad un sindacato o partecipazione ad uno sciopero, ovvero per motivi di discriminazione politica, religiosa, razziale, di sesso, di lingua, di nazionalità, di età, ovvero legati ad un handicap, all'orientamento sessuale, alle convinzioni personali (art. 15 l. 300 del 1970; art. 3 l. 108/90; art. 4 l. 604/66). • licenziamento intimato per rappresaglia o altro motivo illecito (art. 1345 c.c.) • licenziamento intimato alla lavoratrice a causa di matrimonio (l. 7 del 1963) L'onere della prova spetta al lavoratore che sostenga la nullità del licenziamento. In conseguenza della nullità giudizialmente accertata, il datore è tenuto a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e a risarcirgli tutti i danni subiti. Questo particolare regime, assimilabile a quello della tutela reale previsto dall'art. 18 St.lav., si applica indipendentemente dalle soglie occupazionali (quindi anche nell'area della tutela obbligatoria), e persino nell'area di libera recedibilità (lavoratori domestici, ecc.) e ai dirigenti. Risarcimento dei danni ulteriori Sia in regime di tutela obbligatoria che in regime di tutela reale, il lavoratore può richiedere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza del licenziamento ulteriori rispetto a quelli previsti dall'art. 18 St.lav. In determinati casi, il licenziamento può comportare infatti un pregiudizio alla professionalità o all'immagine del lavoratore, del quale può essere chiesto giudizialmente il risarcimento. La prova del danno subito grava sul lavoratore. Licenziamento dei dirigenti Il licenziamento del dirige

 
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