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RISPOSTE ALLA DODICESIMA ESERCITAZIONE

Post n°23 pubblicato il 19 Aprile 2008 da dirittoprivato2008

Eccovi un esempio di risposte alla dodicesima esercitazione.

1) Il lavoro subordinato, attualmente la forma lavorativa ancora più diffusa nel mondo economico, è la figura di lavoro posta al centro del diritto del lavoro. La nozione giuridica di lavoro subordinato più recente, parte dal presupposto dell'assoggettamento del prestatore di lavoro nei confronti del datore di lavoro, assoggettamento identificabile nella possibilità da parte del datore di lavoro di poter determinare modalità e tempi di esecuzione dell'oggetto dell'obbligazione sorta dal contratto stipulato dalle parti. Inoltre, per l'identificazione di una fattispecie di lavoratore subordinato, la giurisprudenza ha individuato alcuni criteri indiziari (mentre quello fondamentale rimane solo l'assoggettamento): la continuità della prestazione, che presuppone la natura dell'oggetto come attività e non risultato; l'obbligo di un determinato orario di lavoro più o meno flessibile, ma comunque determinato; una retribuzione anch'essa fissa e determinata, con l'assenza di rischio per il lavoratore. Il vincolo della subordinazione si ha quando il prestatore mette a disposizione del datore le sue energie psico-fisiche al fine della realizzazione di un bene o servizio nell'interesse del datore. Si avrebbe pertanto un fenomeno di alienazione delle energie psico-fisiche del lavoratore al datore. La natura sociale di tale vincolo sarebbe da rintracciare nel fatto che il prestatore subordinato, anche a livelli dirigenziali, può svolgere il proprio lavoro solo tramite i mezzi e le strutture di cui dispone il datore. Fa eccezione il rapporto di lavoro a domicilio, per il quale il vincolo di subordinazione assume una definizione "tecnica", ossia quella che definisce il vincolo di subordinazione come l'assoggettamento del prestatore di lavoro nei confronti delle direttive del datore di carattere organizzativo, sulle modalità di esecuzione della prestazione, i requisiti, le caratteristiche e le finalità del rapporto di lavoro. A differenza del lavoratore subordinato, il lavoratore autonomo assume un'obbligazione di risultato e non di mezzi: egli, cioè, non si obbliga a mettere a disposizione la propria forza lavoro per un determinato tempo, ma garantisce il raggiungimento di determinati risultati, Conseguenza di tale diversa natura è che il lavoratore autonomo svolge la propria attività con mezzi prevalentemente propri e non del committente, e con piena discrezionalità circa il tempo, il luogo e le modalità della prestazione. Non ha, dunque, vincoli di subordinazione nei confronti del committente, il quale non ha i poteri direttivi, di controllo e disciplinare tipici del datore di lavoro subordinato. In ogni caso il prestatore di lavoro autonomo può essere obbligato al rispetto dei limiti e delle condizioni contenute nel contratto. Nel lavoro autonomo si distinguono le ampie categorie delle prestazioni d'opera manuale ed intellettuale: in quest'ultima categoria rientrano essenzialmente le libere professioni intellettuali protette da iscrizione in un albo professionale). Inoltre nel lavoro autonomo rientrano alcune forme di collaborazione parasubordinata, che si distinguono per la prestazione dell'attività lavorativa in forma non subordinata ma neanche totalmente autonoma: bensì in forma coordinata e, spesso, compenetrata nell'organizzazione di mezzi dell'imprenditore committente. Rientrano in queste forme di collaborazione autonoma le cosiddette co.co.co, ormai sostituite dal lavoro a progetto anche detto Co.Co.Pro, e altre forme di Lavoro parasubordinato. Norme del codice civile Art. 2222 Contratto d'opera Quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo (1351) un'opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo Capo, salvo che il rapporto abbia una disciplina particolare nel Libro IV( art.1655). Art. 2229 Esercizio delle professioni intellettuali La legge determina le professioni intellettuali per l'esercizio delle quali è necessaria l'iscrizione in appositi albi o elenchi. L'accertamento dei requisiti per l'iscrizione negli albi o negli elenchi, la tenuta dei medesimi e il potere disciplinare sugli iscritti sono demandati alle associazioni professionali sotto la vigilanza dello Stato, salvo che la legge disponga diversamente. Contro il rifiuto dell'iscrizione o la cancellazione dagli albi o elenchi, e contro i provvedimenti disciplinari che importano la perdita o la sospensione del diritto all'esercizio della professione e ammesso ricorso in via giurisdizionale nei modi e nei termini stabiliti dalle leggi speciali. Definizione della posizione di prestatore di lavoro subordinato o lavoratore dipendente. E’ colui che si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro (intellettuale o manuale) alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore. La sua posizione è chiaramente definita nell’articolo 2094 del Codice Civile. Nell’art. 2095 vengono poi determinate le categorie dei prestatori di lavoro subordinato.

2) Il licenziamento è l'atto con il quale il datore di lavoro recede unilateralmente dal contratto di lavoro con un suo dipendente. È un diritto potestativo fortemente procedimentalizzato. Nell'ordinamento italiano, il potere di licenziare può essere esercitato solo nel rispetto di precisi limiti e modalità, sia sotto l'aspetto dei motivi del recesso sia sotto quello della procedura da seguire. Motivazioni del licenziamento Nella maggior parte dei casi, il licenziamento del lavoratore dipendente è possibile solo in presenza di specifiche motivazioni socialmente giustificate (art. 1 l. 15 luglio 1966, n. 604; art. 18 dello Statuto dei lavoratori), che possono riguardare la condotta del lavoratore (licenziamento disciplinare, per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo) ovvero la situazione in cui si trova l'azienda (licenziamento per giustificato motivo oggettivo). Il licenziamento per colpa del lavoratore (licenziamento disciplinare) La motivazione più frequente del licenziamento riguarda comportamenti colposo o dolosi del lavoratore, la cui gravità non consente la prosecuzione del rapporto di lavoro per via della lesione del vincolo fiduciario. In relazione alla gravità della condotta, nel diritto italiano si distingue tradizionalmente tra licenziamenti per "giusta causa" e per "giustificato motivo". La giusta causa "Giusta causa" è un concetto usato dal codice civile italiano (art. 2119 ) per riferirsi ad un comportamento talmente grave da non consentire la prosecuzione del rapporto neppure a titolo provvisorio (in sostanza: neppure per il tempo previsto per il preavviso di licenziamento). In queste ipotesi, il datore può licenziare in tronco, senza dare alcun preavviso. A titolo esemplificativo, possono costituire giusta causa di licenziamento: • rifiuto ingiustificato e reiterato di eseguire la prestazione lavorativa • rifiuto a riprendere il lavoro dopo visita medica che ha constatato l'insussistenza di una malattia • lavoro prestato a favore di terzi durante il periodo di malattia, se tale attività pregiudica la pronta guarigione e il ritorno al lavoro • sottrazione di beni aziendali nell'esercizio delle proprie mansioni (specie se fiduciarie) • condotta extralavorativa penalmente rilevante ed idonea a far venir meno il vincolo fiduciario (es. rapina commessa da dipendente bancario) Il giustificato motivo soggettivo Il "giustificato motivo" (soggettivo) è un'ipotesi meno grave di inadempimento degli obblighi contrattuali, che giustifica il licenziamento ma con l'obbligo da parte del datore di lavoro di concedere il preavviso previsto (ovvero di pagarne il relativo ammontare). Possono costituire ipotesi di giustificato motivo soggettivo: • l'abbandono ingiustificato del posto di lavoro • minacce,percosse,ingiurie e/o grave diffamazione nei confronti del datore di lavoro o di superiori gerarchici • reiterate violazioni del codice disciplinare di gravità tale da condurre al licenziamento Differenze tra le due nozioni Al di là delle elencazioni esemplificative, a volte proposte anche dai contratti collettivi, la condotta del lavoratore dipendente deve essere valutata sia con riguardo alle modalità concrete del comportamento (tipo di rapporto, grado di affidamento fiduciario, gravità intrinseca della condotta, ecc.) sia all'elemento soggettivo (intensità del dolo, grado della colpa, motivazioni, circostanze di fatto, effetti dell'atto). A valutare l' ascrivibilità di una condotta all'una o all'altra nozione è, qualora invocato, il giudice del lavoro, che in tale valutazione dispone di ampia discrezionalità. Sul piano pratico, la differenza tra le due nozioni si risolve in questo: in caso di licenziamento per giustificato motivo, il datore è tenuto a dare un periodo di preavviso, stabilito dai contratti collettivi; se vuole interrompere subito il rapporto di lavoro, è tenuto corrispondere al lavoratore una indennità di mancato preavviso, pari alla retribuzione, complessiva di tutte le sue voci, che gli sarebbe spettata se avesse lavorato durante tale periodo. In caso di licenziamento per giusta causa, il rapporto si interrompe immediatamente e il datore non deve corrispondere alcuna indennità di mancato preavviso. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo A volte il licenziamento è reso necessario da una riorganizzazione del lavoro, da ragioni relative all'attività produttiva (innovazioni tecnologiche, modifica dei cicli produttivi, ecc.), ovvero da una crisi aziendale. Nelle ipotesi, cioè, in cui l'azienda, per vari motivi, non ricava più utilità dal lavoro svolto da quel dipendente, o, in generale, da una categoria di dipendenti. Per ragioni di natura economica o tecnica, il datore può quindi decidere di licenziare uno o più lavoratori. Se il licenziamento interessa cinque o più lavoratori nell'arco di 120 giorni, il datore è tenuto ad osservare la speciale disciplina prevista per i licenziamenti collettivi.. Se tali soglie non sono raggiunte, si applica la generale disciplina sui licenziamenti qui esposta. Casi di giustificato motivo oggettivo Possono costituire casi di giustificato motivo oggettivo: • la chiusura dell'attività produttiva • la soppressione del posto di lavoro • introduzione di nuovi macchinari che necessitano di minori interventi umani • affidamento di servizi ad imprese esterne Va precisato che le ragioni sopra esposte devono sussistere effettivamente e al momento in cui il licenziamento viene intimato, a pena dell'inefficacia dello stesso. Il giudice può controllare l'effettiva sussistenza delle ragioni tecniche ed organizzative, anche se non può sindacare sulla loro reale convenienza ed opportunità. Una presunzione di illegittimità del licenziamento si ha qualora il datore assuma, nei mesi successivi al licenziamento, nuovi lavoratori (anche a termine) per ricoprire le stesse mansioni in precedenza esercitate dai dipendenti licenziati. In caso di contestazione in giudizio, è sempre il datore di lavoro a dover provare: 1. l'effettiva sussistenza delle ragioni tecniche o organizzative 2. l'impossibilità di adibire il lavoratore ad attività equivalente in azienda, ad esempio perché al momento del licenziamento non sussisteva in azienda alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa alla quale il lavoratore licenziato avrebbe potuto essere assegnato per l’espletamento di mansioni equivalenti a quelle da lui in precedenza svolte, tenuto conto della professionalità raggiunta dal lavoratore medesimo 3. il nesso tra le esigenze aziendali e il licenziamento intimato. Scelta del dipendente e obbligo di repêchage Il lavoratore da licenziare deve essere scelto secondo correttezza e buona fede. Se esistono, devono essere applicati i criteri concordati con le associazioni sindacali (es. minore anzianità di servizio, minore carico di famiglia, età, ecc.). In ogni caso è ovviamente vietato scegliere il lavoratore da licenziare sulla base di motivazioni discriminatorie (razziali, di sesso, di orientamento sessuale, ecc.). Prima di procedere al licenziamento, il datore di lavoro ha l'obbligo di verificare che il lavoratore non possa essere adibito, nella medesima azienda, a mansioni equivalente in altro posto di lavoro. Le ipotesi di libera recedibilità Fanno eccezione alla regola della necessaria motivazione del licenziamento solo pochi rapporti di lavoro, in cui il recesso può essere intimato. Tra questi vanno ricordati: • lavoratori domestici • lavoratori in prova • lavoratori con più di 65 anni e diritto alla pensione di vecchiaia • lavoratori assunti con contratto a termine (alla scadenza del termine) • lavoratori assunti con contratto di apprendistato (al termine dell'apprendistato) • lavoratori in malattia (al superamento del cosiddetto periodo di comporto) • atleti professionisti Una specifica disciplina vale infine per i lavoratori a domicilio e per i dirigenti. Forma del licenziamento Sotto il profilo della procedura da seguire, si deve distinguere il licenziamento disciplinare (per giusta causa o giustificato motivo soggettivo) da quello non disciplinare (giustificato motivo oggettivo). Licenziamento non disciplinare Deve essere intimato necessariamente per iscritto, pena l'inefficacia del provvedimento. Secondo costante giurisprudenza, infatti, la forma scritta del licenziamento è richiesta ad substantiam, in base all’art. 2 della legge n. 604/66, anche dopo la riformulazione di questa norma operata con la legge n. 108/90. Il licenziamento produce i suoi effetti quando giunge a conoscenza del lavoratore. In particolare l’art. 2 della legge n. 604/1966 esige che lo scritto, da utilizzare come strumento di comunicazione, non solo sia espressamente diretto all’interessato, ma sia anche a lui consegnato, con la conseguenza che è inidonea a realizzare la comunicazione scritta voluta dalla legge la conoscenza che il lavoratore abbia avuto altrimenti del licenziamento. Ciò comporta che, maggior parte dei casi, la lettera di licenziamento assuma la forma di una raccomandata, consegnata direttamente all'interessato (raccomandata a mano) o a mezzo posta (raccomandata con ricevuta di ritorno), presso la sua residenza o il suo domicilio. Finché la comunicazione è meramente orale, il lavoratore resta dipendente in forza presso il datore di lavoro, ed è tenuto a presentarsi sul luogo di lavoro, potendo rappresentare le assenze non giustificate (senza certificati medici) un giustificato motivo di licenziamento. Il licenziamento dispiega i suoi effetti quando la lettera con cui è intimato perviene all'indirizzo del lavoratore (articolo 1335 c.c.). Lo scritto con cui è intimato il licenziamento potrebbe non contenere alcun riferimento ai motivi del provvedimento datoriale. In questo caso il lavoratore può richiedere - nel termine di 15 giorni - i motivi del licenziamento, richiesta cui il datore di lavoro deve rispondere entro i successivi sette giorni, pena l'inefficacia del provvedimento. Anche la comunicazione dei motivi deve, a pena di inefficacia, rivestire la forma scritta. I motivi comunicati in questa fase dal datore di lavoro non sono modificabili successivamente. Licenziamento disciplinare In caso di licenziamento disciplinare, la procedura da seguire è quella prevista dallo Statuto dei lavoratori per il corretto esercizio del potere disciplinare (art. 7 legge 300 del 1970). Al datore di lavoro sono posti vari obblighi, tra i quali assumono rilevanza centrale: • la predisposizione di un codice disciplinare che individui le infrazioni e le relative sanzioni (di norma si tratta di un estratto del contratto collettivo di settore). Non è necessario elencare i comportamenti comunemente avvertiti come antisociali e/o previsti dalla legge come reato, in quanto il dipendente non può non sapere che un comportamento considerato illecito dalla legge può essere sanzionato anche in azienda. • la pubblicazione del codice disciplinare, da effettuarsi esclusivamente mediante affissione dello stesso in luogo accessibile a tutti i dipendenti • la contestazione per iscritto dell'addebito. La contestazione deve rispettare alcuni principi: o Immediatezza: l'addebito va contestato prima possibile, e in ogni caso entro il termine stabilito dal contratto collettivo. Per la Cassazione, l'immediatezza è presupposto di legittimità del provvedimento. o Specificità: i fatti vanno individuati in modo preciso, per consentire una difesa puntuale. o Immutabilità: il fatto risultante dalla contestazione non può essere successivamente modificato. Contestato l'addebito, il datore deve consentire l'esercizio del diritto di difesa da parte del prestatore, che deve essere sentito qualora ne faccia richiesta. Il licenziamento disciplinare non può essere intimato prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione. Impugnazione del licenziamento Il licenziamento non sorretto da giusta causa o giustificato motivo, o intimato senza rispetto della prescritta procedura, o contrario a norme imperative (es. perché discriminatorio, o comminato nei periodi in cui non è possibile recedere per tutela della lavoratrice madre) può essere impugnato. L'impugnazione è di norma proposta dal lavoratore personalmente, ovvero dal sindacato cui questi è iscritto o da un legale munito di procura speciale. Per impugnare il licenziamento è sufficiente qualsiasi atto scritto (di norma una lettera) con cui il lavoratore comunichi al datore di lavoro la sua intenzione di contestare la legittimità del provvedimento espulsivo. Tale impugnazione deve avvenire entro il termine di sessanta giorni dalla data del licenziamento ovvero dalla successiva data di comunicazione dei motivi, qualora richiesti (art. 6 l. 604/66). Il termine ha natura decadenzale: se il licenziamento non è impugnato, si decade dalla possibilità di richiedere al Giudice del lavoro l'accertamento della illegittimità del provvedimento datoriale e la conseguente condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno. Impugnato per tempo il licenziamento, il lavoratore ha cinque anni di tempo (termine prescrizionale) per iniziare la causa contro il datore di lavoro, cioè per impugnare giudizialmente il licenziamento, con ricorso al Tribunale in funzione di Giudice del lavoro. Sotto il profilo procedurale, trovano applicazione le norme sul processo del lavoro, compresa la necessità di dar corso al tentativo obbligatorio di conciliazione in sede sindacale o amministrativa. Dimissioni e licenziamento Le dimissioni, a differenza del licenziamento, comportano la corresponsione entro mesi delle sole spettanze (ferie e PAr non goduti e il TFR). Dimettendosi il lavoratore, perde il diritto alla tutela reale e obbligatoria. Talora, le dimissioni volontarie sono incentivate dal datore di lavoro, che propone un'indennità, subordinata alla firma di un verbale di accordo con il quale le parti rinunciano a ogni altra successiva rivendicazione.

3) Aziende oltre i 15 dipendenti: la "tutela reale" In diritto del lavoro, la "tutela reale" ,che si differenzia come vedremo, dalla cd. "tutela obbligatoria", ha ad oggetto la tutela dagli esiti di un licenziamento nullo od illegittimo in aziende che hanno più di 15 dipendenti. In dette aziende, infatti, il lavoratore ingiustamente licenziato ha diritto non solo ad un risarcimento del danno pari alle retribuzioni maturate e/o maturande dal licenziamento alla reintegra, con un limite di 5 mensilità, ma anche alla reintegra stessa nel posto di lavoro che consiste nella ripresa della medesima attività lavorativa con azzeramento, quindi, degli effetti del recesso. In sostituzione della reintegra, il lavoratore può richiedere la corresponsione di 15 mensilità della retribuzione globale di fatto, ai sensi dell'art. 18 legge n. 300 del 1970 ( Statuto dei lavoratori ). Area di applicabilità La tutela più rigida, prevista dall'art. 18 St.lav., si applica ai datori di lavoro (imprenditori o non imprenditori) che presentino le seguenti soglie occupazionali: • datori che occupino, in una singola unità produttiva, più di 15 dipendenti • datori che occupino, anche in più unita produttive ma nell'ambito dello stesso comune, più di 15 dipendenti • datori che occupino complessivamente più di 60 dipendenti Il computo dei dipendenti va fatto considerando i lavoratori stabilmente occupati in azienda al momento dell'intimazione del licenziamento. Tra i lavoratori da considerare rientrano: • quelli assunti con contratto a tempo indeterminato • quelli assunti con contratto a tempo parziale (part time), ma in proporzione all'orario svolto rapportato al tempo pieno (2 lavoratori part time al 50% si contano come una unità) Restano esclusi dal computo, per previsione di legge: • gli apprendisti (art. 53, d.lgs. 276/2003) • i dipendenti assunti con contratto di inserimento (art. 59, d.lgs. 276/2003) • il coniuge del datore di lavoro, nonché i suoi parenti entro il secondo grado (art. 18, l. 300 del 1970) La giurisprudenza ha inoltre escluso: • i lavoratori assunti a tempo determinato per sopperire ad esigenze eccezionali e momentanee dell'azienda • il socio consigliere di amministrazione, anche qualora prestasse stabilmente la propria attività nell'azienda. Regime sanzionatorio In caso di licenziamento illegittimo comminato da un'azienda con più di 15 dipendenti, la sentenza del giudice del lavoro comprende 1. un ordine al datore di lavoro di reintegrare il dipendente nel posto di lavoro 2. la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno arrecato, pari alla retribuzione globale di fatto che il lavoratore avrebbe avuto diritto a percepire dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione in azienda; in ogni caso la somma dovuta a titolo di risarcimento del danno non può essere inferiore ad un importo pari a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. 3. la condanna del datore a versare i contributi assistenziali e previdenziali dovuti per il periodo compreso tra il licenziamento e il provvedimento di reintegra (in quanto né il rapporto di lavoro, né quello assicurativo - INAIL e previdenziale - INPS si possono considerare interrotti) Se il lavoratore non vuole ritornare in azienda, può scegliere di rinunciare alla reintegrazione e richiedere il pagamento di una indennità sostitutiva, pari a 15 mensilità della sua retribuzione globale di fatto. La scelta va comunicata entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza. Qualora il lavoratore, invitato a riprendere il lavoro a seguito di ordine di reintegrazione, non si presenti in azienda entro 30 giorni, ovvero non comunichi la sua volontà di optare per l'indennità sostitutiva, il rapporto di lavoro si intende definitivamente risolto (art. 18, comma 5, l. 300/1970). Indennità di mancato preavviso I Contratti Collettivi Nazionali definiscono, per ogni livello di inquadramento, un periodo di preavviso che datore e dipendente devono osservare prima di recedere unilateralmente dal contratto. Il periodo da osservare è indicato nel contratto e può essere aumentato dalla trattativa individuale in sede di assunzione. se non specificato nel contratto, il riferimento è il CCNL di categoria. Il dipendente che presenta le dimissioni o il datore che licenzia devono dare alla controparte un preavviso durante il quale resta in vigore il rapporto di lavoro. Le dimissioni e il licenziamento sono effettivi, e il rapporto di lavoro estinto, al termine di questo periodo. Il preavviso serve al lavoratore ad avere un tempo idoneo a trovarsi un'altra occupazione, e al datore ad assumere un'altra persona con un eventuale periodo di affinacamento e travaso di conoscenza. Diversamente, il dipendente dimissionario o il datore licenziante devono corrispondere alla controparte un'indennità di mancato preavviso, pari alle mensilità previste (es.: preavviso di un mese, una mensilità da pagare). L'indennità decade per dimissioni o licenziamento per giusta causa, anche sopraggiunte durante il periodo di preavviso, o per verbale di accordo fra le parti (vale, come detto, per recesso unilaterale, non bilaterale delle parti contraenti). L'indennità di mancato preavviso è distinta e cumulabile con le mensilità corrisposte in base alla tutela reale e obbligatoria. L'art. 2118 del c.c. prevede un periodo di preavviso per l'esercizio del diritto di recesso da parte di una delle parti contraenti. La norma si applica a contratti di qualunque tipo, non solamente a contratti di lavoro. La durata del preavviso è disciplinata dalla contrattazione collettiva, e, in assenza di una specifica contrattuale a riguardo, dai termini di preavviso di cui all'art. 10, R.D.L. n. 1825/1924 (legge sull'impiego privato). Aziende fino a 15 dipendenti: la "tutela obbligatoria" Quando il licenziamento illegittimo è intimato da aziende di dimensioni più ridotte (sino a 15 dipendenti), la sentenza stabilisce un obbligo alternativo in capo al datore di lavoro (art. 8 legge n. 604/66), il quale può scegliere tra • riassumere il lavoratore entro tre giorni dalla pubblicazione della sentenza • ovvero pagare all'ex dipendente una indennità risarcitoria, compresa tra 2,5 e 6 mensilità (estensibile sino a 10 per i lavoratori con almeno dieci anni di anzianità, e fino a 14 per i dipendenti in servizio da più di venti anni). La misura dell'indennità è stabilita dal giudice sulla base dell'anzianità di servizio, delle dimensioni aziendali, nonché al comportamento tenuto dalle parti. A differenza di quanto stabilito per le aziende maggiori, nell'area della tutela obbligatoria il licenziamento - seppur illegittimo - determina la cessazione del rapporto. L'obbligo imposto al datore di lavoro soccombente nel giudizio è quindi diverso da quello previsto in regime di tutela reale: non si tratta infatti di reintegrazione nel rapporto di lavoro, ma di riassunzione. Il lavoratore è quindi assunto nuovamente sulla base di un nuovo contratto, con conseguente azzeramento della pregressa anzianità di servizio. Per il periodo intercorrente tra licenziamento e riassunzione il datore di lavoro non è tenuto a pagare né la retribuzione, né i contributi assistenziali e previdenziali. Qualora il datore non provveda alla riassunzione nel termine di legge, egli è tenuto a pagare l'indennità prevista, oltre all'indennità di mancato preavviso (che recente giurisprudenza ha ritenuto compatibile con il sistema sanzionatorio della tutela obbligatoria). La differenza sostanziale fra tutela reale e tutela obbligatoria, ossia fra reintegra e riassunzione, è che dove vige la tutela obbligatoria, nelle aziende con meno di 15 dipendenti, il datore può rifiutarsi di riammettere il dipendente nel posto di lavoro, e pagare un'indennità. Sopra i 15 dipendenti, la decisione spetta al lavoratore, ma a seguito della sua richiesta, il datore ha l'obbligo di riassumerlo. Se il datore impedisce materialmente l'accesso alla sede di lavoro, ovvero sottrae al lavoratore mezzi e attrezzature (quali computer, telefono aziendale, etc.) necessarie a esperire la sua attività, il lavoratore può avvalersi della forza pubblica per i verbali e contestazioni del caso, e adire nuovamente il giudice del lavoro. La tutela obbligatoria si distingue qundi da quella reale sotto due profili principali: 1. nella tutela obbligatoria la scelta tra riassunzione e pagamento dell'indennità spetta al datore di lavoro; nella tutela reale è il lavoratore ad avere la libertà di scelta; 2. la misura del risarcimento è significativamente minore nell'area della tutela obbligatoria. Licenziamenti discriminatori e altri casi di nullità In talune ipotesi espressamente previste dalla legge, il licenziamento è considerato radicalmente nullo. Le ipotesi principali previste dall'ordinamento italiano sono le seguenti: • licenziamento intimato alla lavoratrice madre, nel periodo compreso tra l'inizio della gravidanza e il compimento del primo anno di vita del bambino (art. 54 d.lgs. 151 del 2001) • licenziamento intimato al lavoratore padre, in caso di fruizione del congedo di paternità, per la durata del congedo e fino al compimento del primo anno di vita del bambino • licenziamento intimato per appartenenza ad un sindacato o partecipazione ad uno sciopero, ovvero per motivi di discriminazione politica, religiosa, razziale, di sesso, di lingua, di nazionalità, di età, ovvero legati ad un handicap, all'orientamento sessuale, alle convinzioni personali (art. 15 l. 300 del 1970; art. 3 l. 108/90; art. 4 l. 604/66). • licenziamento intimato per rappresaglia o altro motivo illecito (art. 1345 c.c.) • licenziamento intimato alla lavoratrice a causa di matrimonio (l. 7 del 1963) L'onere della prova spetta al lavoratore che sostenga la nullità del licenziamento. In conseguenza della nullità giudizialmente accertata, il datore è tenuto a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e a risarcirgli tutti i danni subiti. Questo particolare regime, assimilabile a quello della tutela reale previsto dall'art. 18 St.lav., si applica indipendentemente dalle soglie occupazionali (quindi anche nell'area della tutela obbligatoria), e persino nell'area di libera recedibilità (lavoratori domestici, ecc.) e ai dirigenti. Risarcimento dei danni ulteriori Sia in regime di tutela obbligatoria che in regime di tutela reale, il lavoratore può richiedere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza del licenziamento ulteriori rispetto a quelli previsti dall'art. 18 St.lav. In determinati casi, il licenziamento può comportare infatti un pregiudizio alla professionalità o all'immagine del lavoratore, del quale può essere chiesto giudizialmente il risarcimento. La prova del danno subito grava sul lavoratore. Licenziamento dei dirigenti Il licenziamento del dirige

 
 
 

RISPOSTE ALL'UNDICESIMA ESERCITAZIONE

Post n°22 pubblicato il 19 Aprile 2008 da dirittoprivato2008

Eccovi un esempio di risposte all'undicesima esercitazione:
1) Il generale criterio di comportamento delle parti contraenti è quello della buona fede che è anche criterio di interpretazione del contratto, che non ha altro significato se non correttezza e lealtà. La buona fede è un dovere : le regole non scritte della correttezza e della lealtà sono regole di costume e spetta al giudice stabilire ciò che è secondo buona fede e ciò che è contrario alla buona fede. Il dovere di buona fede opera nello svolgimento delle trattative con il carattere di informazione di una parte nei confronti dell’altra. Chi violando il dovere di buona fede nelle trattative contrattuali ha cagionato un danno all’altra parte è tenuto a risarcirlo (responsabilità precontrattuale). Una specifica ipotesi di responsabilità precontrattuale è prevista dalla legge e prevede che chi conoscendo l’esistenza di una causa di invalidità del contratto non ne ha dato notizia all’altra parte è tenuto a risarcire il danno considerando che potrebbe esserci anche l’interesse contrattuale negativo cioè il danno emergente e il lucro cessante. La buona fede opera anche nella esecuzione del contratto e la legge obbliga di comportarsi secondo buona fede in pendenza della condizione e il divieto di rifiutare la propria prestazione avvalendosi dell’eccezione di inadempimento se il rifiuto è contrario alla buona fede. La buona fede nell’esecuzione del contratto può comportare anche l’adempimento degli obblighi non previsti dalla legge (obbligazioni accessorie). La violazione del dovere di buona fede può anche configurarsi come abuso del diritto e accade quando un contraente esercita verso l’altro i diritti che gli derivano dalla legge o dal contratto per realizzare uno scopo diverso da quello cui questi diritti sono preordinati. La violazione del dovere di buona fede comporta di regola l’obbligazione di risarcire il danno che si è cagionato alla controparte. Quando per l’efficacia del recesso non è richiesta una giusta causa l’effetto estintivo del vincolo contrattuale dovrebbe prodursi per mera volontà del recedente.
2) Il contratto , fatto di parole scritte in un documento o dette a voce, può creare evidentemente un problema interpretativo e ciò, di conseguenza, può dar luogo a controversie. Ne derivano dunque criteri di legge per l’interpretazione del contratto: sono criteri che vincolano le parti e di questi si può avvalere il giudice se rimane controversa tra le parti l’interpretazione del contratto dedotto in giudizio. Detti criteri si distinguono in : • criteri di interpretazione soggettiva basata sulla ricerca della comune intenzione delle parti e quindi non limitandosi al senso letterale delle parole usate • criteri di interpretazione oggettiva basata sulla buona fede contrattuale o altri elementi oggettivi nono riconducibili all’intenzione delle parti Nel primo caso si può scoprire la reale intenzione delle parti valutando il complessivo storico comportamento delle stesse anche seguente la conclusione del contratto o interpretando le singole clausole ( criterio di carattere logico ) attribuendo a ciascuna il significato che risulta dal complesso del contratto ( 1363 c.c. ).
3) Al di là della prospettiva giurisprudenziale e storica , si può dire che con il termine causa del contratto si intende comunemente la ragione dell'atto, l'elemento unificante del regolamento di interessi tra le parti, idoneo a giustificare lo spostamento di beni e valori. Non può esserci, quindi, alcun atto senza giustificazione funzionale, ossia senza causa. Di qui la ripetibilità (cioè la restituzione) dell' arricchimento senza causa. Su un diverso piano di giudizio si colloca, invece, la reazione dell'ordinamento avverso negozi a causa illecita, (vale a dire contraria a norme imperative, ordine pubblico o buon costume), giacché questi negozi sono sì dotati di una ragione giustificativa lo spostamento patrimoniale, ma tale ragione è incompatibile con i valori fondanti, in un determinato momento storico, quella determinata società civile. L'illiceità della causa va estesa anche al caso in cui il contratto costituisca il mezzo per eludere l'applicazione della norma imperativa in frode alla legge (funzione in astratto lecita ma piegata in concreto ad un fine contrario alla legge), articolo 1344. La causa va infine distinta dal motivo, ossia dalla ragione soggettivo dell'agire della persona, che rientra a far parte del contratto soltanto nel caso di apposizione di condizioni sospensive. Il contratto diventa poi illecito, e quindi nullo, quando le parti si sono determinate a concluderlo esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe. Fatta questa premessa distinguiamo tra vendita e permuta: La vendita è un contratto a titolo oneroso: il trasferimento del bene avviene attraverso il corrispettivo di una somma in danaro, il prezzo: la causa è dunque lo scambio tra un diritto e una somma di danaro. Si realizza così una duplica funzione economica : la circolazione dei beni da una parte e la circolazione del danaro dall’altra. La permuta è il contratto che ha per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose, o di altri diritti, da un contraente all'altro. (art. 1552 c.c.) Sebbene si applicano, in quanto compatibili, le norme stabilite per la vendita (art. 1555 c.c.), la permuta differisce da quest'ultima in quanto lo scambio non avviene verso il corrispettivo di un prezzo, ma tramite il reciproco trasferimento della proprietà di cose o della titolarità di altri diritti. La permuta, infatti, deriva da quella forma primitiva di scambio chiamata baratto.( scambio di cosa con cosa). Tranne le norme generali, che richiamano la disciplina della vendita, la permuta è regolata in particolare in tema di evizione ( si ha evizione quando , dopo la vendita, un terzo rivendica con successo la proprietà della cosa e il compratore ne perde la proprietà ) e di spese a carico dei contraenti. Il permutante, se ha subito l'evizione e non intende riavere la cosa data, ha diritto, come per la vendita, al valore della cosa evinta, salvo in ogni caso al risarcimento del danno. (art. 1553 cod.civ.) Infine, salvo patto contrario, le spese della permuta e le altre accessorie sono a carico di entrambi i contraenti in parti uguali, a differenza della vendita in cui, sempre salvo patto contrario, sono a carico del compratore. (art. 1554 cod.civ.).
4) Si può esaminare il caso di compravendita di un immobile di nuova costruzione privo del prescritto certificato di abitabilità. E' prevalsa, soprattutto in giurisprudenza, la tesi per cui l'oggetto di tale contratto non sarebbe affetto da vizi o privo delle qualità essenziali, ovvero gravato di oneri che ne diminuiscano il libero godimento ai sensi dell'art. 1489 c.c., ma di un bene diverso con la conseguente possibilità per l'acquirente di chiedere la risoluzione del contratto ex art. 1453 c.c. Il compratore della cosa viziata è tutelato con le azioni edilizie, la cui origine storica va ricercata nel diritto romano. Tali azioni sono: a) la risoluzione del contratto (azione redibitoria) b) la riduzione del prezzo (azione estimatoria o quanti minoris), previste dall'art. 1492, comma II, c.c. L'azione redibitoria non è un'azione sui generis, ma ha la stessa natura dell'azione generale di risoluzione per inadempimento; trova il proprio fondamento in un difetto funzionale della causa che sussiste indipendentemente dall'eventuale colpa o dolo del venditore. La risoluzione del contratto comporta, per sua natura, il ripristino della situazione anteriore, così come previsto dall'art. 1493 c.c.: il venditore deve restituire il prezzo e rimborsare le spese ed i pagamenti legittimamente fatti per la vendita, mentre il compratore deve restituire la cosa vendutagli. Questa restituzione non potrà avvenire se la cosa sia perita in conseguenza dei vizi (artt. 1492, co.III e 1493, co.II). L'azione estimatoria, invece, consiste nella riduzione del prezzo in rapporto alla minore utilità offerta dalla cosa al compratore; tale riduzione si eseguirà diminuendo il prezzo pattuito di una percentuale pari a quella che rappresenta la menomazione che il valore effettivo della cosa subisce a causa dei vizi. 5) La vendita obbligatoria è riferita ai casi in cui il trasferimento della proprietà della cosa venduta non è effetto immediato del contratto (1476 c.c. ). Il venditore ha inncapo l’obbligazione di far acquistare al compratore la proprietà del bene venduto. L’effetto traslativo della proprietà resta un effetto reale ma questo effetto può prodursi in tempi successivi. I casi di vendita obbligatoria sono: a) vendita di cose determinate solo nel genere: la proprietà passa solo al momento dell’individuazione (es: quella partita di legno di faggio pregiato ) nei modi di legge o di contratto; b) vendita di cose future : cose che ancora non esistono al momento della conclusione del contratto ma che si spera vengano ad esistenza ( futuro raccolto di un fondo agricolo oppure nuovi appartamenti ancora da costruire). La proprietà passa nel momento in cui la cosa viene ad esistenza (art. 1472 c.c.) In questo contesto il contratto di somministrazione è un tipo a sé stante di contratto che si inquadra però nello schema della vendita obbligatoria. E’ un contratto a esecuzione continuata o periodica : una parte si obbliga, per il corrispettivo di un prezzo, ad eseguire verso l’altra prestazioni periodiche o continuative di cose (art. 1559 c.c.) E’ contratto consensuale, ad efficacia obbligatoria nel caso di somministrazione d’uso (di bottiglie per la vendita di bevande, che devono essere restituite), o ad effetti reali nella somministrazione di consumo (fornitura di gas, energia elettrica ecc. in cui le cose fornite vengono trasferite in proprietà al somministrato). Si tratta di un contratto di durata avente ad oggetto più prestazioni autonome e differenti, ma tra loro collegate in funzione di soddisfare esigenze di tipo continuativo o periodico. La prestazione è periodica quando va ripetuta a distanza di tempo, a scadenze determinate. Continuativa è invece la prestazione che si prolunga ininterrottamente per tutta la durata del contratto. Di frequente ricorrenza nel contratto di somministrazione è la c.d. clausola di esclusiva, in virtù della quale uno o entrambi i contraenti si impegnano a non offrire e/o chiedere la stessa prestazione ad altri in un determinato ambito territoriale e per il tempo della durata del contratto. Rivela in fine il c.d. patto di preferenza, di efficacia al massimo quinquennale, con cui somministrato si obbliga a preferire il somministrante, a parità di condizioni, per la stipula di un futuro contratto di somministrazione avente lo stesso oggetto: la clausola viene indicata come tipo es di prelazione convenzionale. Il contratto di somministrazione differisce dall’appalto in quanto quest’ultimo ha ad oggetto la prestazione di servizi; la distinzione diventa però evanescente allorché l’appaltatore debba prestare anche il materiale o la somministrazione abbia ad oggetto la prestazione di cose prodotte dal somministrante. Rispetto alla locazione con la quale ugualmente si attribuisce il godimento di determinate cose, il contratto di somministrazione è caratterizzato dalla reiterazione delle prestazione. Sottospecie del contratto di somministrazione, rientrante nella fattispecie di cui all’art. 1559 c.c. è il contratto di Catering, di derivazione anglosassone, con cui una parte si obbliga verso corrispettivo di un prezzo ad approvvigionare l’altra di pasti pronti per il consumo.

6) La vendita di cosa futura che, come detto, si inquadra nei casi di vendita obbligatoria può essere “vendita della speranza” oppure vendita della “cosa sperata”. Il primo è un contratto aleatorio: il compratore dovrà pagare il prezzo o, se lo ha pagato, non potrà chiederne la restituzione se la cosa non viene ad esistenza (la grandine che distrugge il raccolto o l’edificio che non viene costruito per la mancanza di licenza di costruzione ). Il secondo è un contratto commutativo che è nullo se la cosa non viene ad esistenza. La vendita di cosa futura è di regola la vendita della “cosa sperata” , salvo che non risulti che le parti abbiano voluto concludere un contratto aleatorio.

7) Il lease-back (anche sale and lease-back) è una particolare forma di finanziamento di un'azienda che consiste in un contratto di vendita di un bene stipulato tra il soggetto che lo possiede e l'istituzione finanziaria che contestualmente lo assegna in locazione finanziaria (o leasing finanziario ) al cedente; il cedente pertanto si trasforma da proprietario del bene ad utilizzatore. Come in tutti i contratti di leasing, anche nel contratto di lease-back l'utilizzatore ha la possibilità di riscattare il bene al termine del contratto di locazione (diritto d'opzione d'acquisto). E’ dunque assimilabile a vendita con diritto di riscatto : il venditore si riserva il diritto di riacquistare la proprietà della cosa venduta mediante la restituzione del medesimo prezzo,maggiorato delle spese che l'acquirente ha dovuto affrontare per la vendita,per le riparazioni necessarie e,nei limiti dell'aumento,delle spese che hanno aumentato il valore della cosa. Il compratore soggiace ad un diritto potestativo del venditore. Il termine per il riscatto non può essere maggiore di 2 anni nella vendita di cose mobili e di 5 anni per gli immobili. Il patto di riscatto crea sulla cosa venduta un vincolo reale: se il compratore vende la cosa, il venditore può riscattarla anche nei confronti del terzo acquirente,purché il patto sia ad esso opponibile. Possono essere oggetto di cessione sia beni materiali che immateriali, anche se per questi ultimi esistono vincoli legislativi circa la durata minima del leasing. Pur essendo una forma contrattuale atipica, la Corte di Cassazione ne ha riconosciuto la validità e una sua piena autonomia causale rispetto a altre fattispecie contrattuali con le quali presenta dei punti di contatto. Il lease-back consente all'alienante di liberare capitali altrimenti immobilizzati in mezzi aziendali ottenendo liquidità pur conservandone l'utilizzo contro la corresponsione all'istituto erogante il leasing dei canoni mensili. Tipici esempi di contatti di lease-back possono essere: - la cessione dei immobili o di impianti produttivi - la cessione di un flotta aziendale di automezzi che si intende continuare ad utilizzare tramite un contratto di leasing; - la cessione della proprietà di un marchio pur continuando ad averne i diretti di utilizzo; La funzione del contratto è essenzialmente quella di finanziamento ed, in correlazione ad essa, per lungo tempo si è dubitato della sua compatibilità con il divieto del patto commissorio. Esso ha avuto notevole successo nella pratica soprattutto a causa dei notevoli vantaggi tributari che potevano lucrarsi per suo tramite. Con il contratto di “Sale & lease back” (vendita con leasing di ritorno) un’impresa vende un proprio bene (strumentale alla propria attività) alla società di leasing la quale lo concede contestualmente, tramite locazione finanziaria, all’alienante. Quest’ultimo, per l’utilizzo del bene, paga dei canoni periodici con facoltà di riscattare il bene medesimo al termine del contratto di locazione. Richiamando l’attenzione sulla doppia funzione svolta dall’utilizzatore, che assume contestualmente anche la parte di fornitore del bene, dobbiamo ricordare che l’orientamento legislativo in materia di lease back è cambiato in questi ultimi anni. Infatti, sino alla sentenza del SECIT (Servizio Centrale degli Ispettori Tributari) del 07/06/1999, vigeva l’impostazione che riteneva nullo il contratto di lease back poiché considerato come un mutuo assistito da garanzia reale; secondo tale indirizzo interpretativo, i canoni di leasing non costituivano il corrispettivo del godimento del bene ma una mera restituzione di denaro ottenuto in prestito, gravato da interessi. Inoltre, il trasferimento della proprietà del bene alla società finanziaria, non avendo il fine di procurare al finanziato la disponibilità dello stesso, aveva soltanto lo scopo di garanzia. Pertanto, secondo la tesi originaria del SECIT, il contratto di lease back poteva anche essere considerato nullo, in quanto caratterizzato da una causa illecita, perché diretto ad eludere il divieto del patto commissorio di cui agli articoli 1963 e 2744 del Codice Civile. La giurisprudenza ha però sempre manifestato un orientamento contrario alle tesi dell’Amministrazione Finanziaria; infatti la Corte di Cassazione, con la sentenza n° 10805 del 16/10/95, ha di fatto stabilito l’autonomia contrattuale del lease back. Secondo la Suprema Corte, la locazione finanziaria di ritorno non è identificabile come una vendita con patto di riscatto ma è una fattispecie diversa che si concretizza nella vendita con patto di cedere il bene in locazione finanziaria. Inoltre, in base a questa impostazione, l’opzione finale di acquisto è da considerarsi come una nuova manifestazione di volontà che si può esercitare, eventualmente, solo al termine del contratto di leasing. Comunque, il nostro ordinamento giuridico, prevede alcuni elementi suscettibili di ricevere tutela quali, ad esempio, la strumentalità del bene all’attività dell’utilizzatore, l’esistenza di situazioni debitorie pregresse tra la società concedente e l’utilizzatore medesimo, la sproporzione tra l’eventuale valore elevato del bene e l’esiguo prezzo pagato dalla società di leasing. Ammessa dunque la fattibilità del lease back, si tratta di compiere alcune osservazioni circa la convenienza di questo contratto. In via generale, il ricorso al “sale & lease back” potrebbe nascere dalla necessità di procurarsi una pronta disponibilità di capitali freschi da destinare alla propria attività, attraverso lo smobilizzo di una parte del patrimonio che, in ogni caso, rimane nella sfera di utilizzo dell’impresa. Il lease back potrebbe consentire alle imprese il raggiungimento di un buon equilibrio finanziario, favorendo da un lato l’utilizzo di fonti di approvvigionamento a medio/lungo periodo e la distribuzione degli interessanti vantaggi fiscali offerti dalla locazione finanziaria. La valutazione relativa alla convenienza della locazione finanziaria di ritorno, può essere però compiuta solo conoscendo la situazione economico patrimoniale e la politica fiscale “propria” dell’impresa. Non potendo quindi generalizzare, si ricorda che rispetto alla locazione finanziaria “tradizionale”, il lease back - causa la cessione del bene dal cliente alla società di leasing – potrebbe fare emergere una plusvalenza imponibile o una minusvalenza deducibile dal reddito; ciò può accadere in ragione della differenza tra il valore residuo (prezzo storico comprese le eventuali rivalutazioni - al netto degli ammortamenti) e prezzo di cessione alla società di leasing. PATTO COMMISSORIO E CONTRATTO DI LEASE BACK L'articolo 2744 dei codice civile - Divieto dei patto commissorio - prescrive che "E' nullo il patto col quale si conviene che, in mancanza dei pagamento dei credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore. Il patto è nullo anche se posteriore alla costituzione dell'ipoteca e dei pegno". La ratio di tale norma è quella di tutelare l'interesse dei contraente più debole ed in particolare di impedire che quest'ultimo, spinto dal bisogno, conferisca al creditore la facoltà di fare propria la cosa data in pegno, anticresi o ipoteca, sperando di riscattarla in tempo mediante estinzione del debito. Nonostante l'art. 2744 c.c. enunci espressamente i casi della dazione di ipoteca e di pegno e dell'anticresi, la giurisprudenza uniforme ha sancito che il suindicato divieto vige anche al di fuori di tali casi, estendendosi a qualunque negozio mediante il quale le parti intendano realizzare il fine concreto vietato dalla legge. Pertanto non è possibile identificare in astratto una categoria di atti potenzialmente soggetti a nullità perché in violazione con il divieto dei patto commissorio, e limitare a questi l'efficacia di tale divieto, ma si deve riconoscere che tutti i negozi o contratti possono incorrere in tale sanzione, qualunque ne sia il contenuto, se vengono impiegati per conseguire lo scopo vietato ( cfr. 74/282; Cass. 22 aprile 1998 n. 4095; 10 febbraio 1997 n. 1233), tesi che peraltro ha trovato un favorevole riscontro anche nella dottrina (Carnevali, Patto commissorio, voce dell'Enciclopedia dei diritto, Milano 1982 XXXII, 501). Detto orientamento è giustificato dalla necessità di fronteggiare il tentativo di aggirare il divieto ex art. 2744 c.c., ponendo in essere dei negozi che in sé non sono proibiti dalla legge, ma che in realtà combinandosi con altre operazioni negoziali, realizzano il risultato vietato e ciò dicasi anche per i contratti innominati e socialmente tipici. La nullità dei contratti posti in essere in violazione dell'art.2744 c.c. trova il proprio fondamento nella maggiore insidiosità1 insita nell'alienazione con patto di retrovendita condizionato - oppure in tutti i negozi che ne costituiscano l'equivalente funzionale -insidia che porta colui che si trova nella dura necessità di procurarsi rapidamente dei capitale a compiere scelte avventate quando si tratta di alienare sì un proprio bene, ma con la speranza di poterlo riscattare facilmente (situazione che ben si differenzia dalla alienazione definitiva, ove insussistendo la suindicata speranza anche in casi estremi il venditore appare più accorto). In particolare appare interessante svolgere qualche riflessione in merito al contratto ben noto nella prassi degli affari, di Lease Back con il quale l'impresa vende un proprio bene di natura strumentale per l'esercizio dell'impresa o dell'attività ad una società di leasing, la quale lo concede contestualmente in leasing all’alienante che corrisponde per l'utilizzazione dei bene un canone con facoltà alla scadenza dei leasing di riacquistare la proprietà esercitando un diritto di opzione, per un determinato prezzo. Pertanto detto negozio realizza una vendita all'impresa di leasing, la quale non è certamente diretta alla garanzia di un preesistente o concorrente mutuo, ma costituisce il presupposto per la concessione dei bene in leasing: si tratta dunque di una vendita a scopo di leasing o contratto con causa di finanziamento Il fine del suindicato contratto sostanzialmente è quello di permettere al venditore utilizzatore di ottenere liquidità con immediatezza per finanziare riconversioni o acquisizioni di nuovi impianti tecnologici, mediante alienazione di un suo bene strumentale, conservando di questo l'uso e con facoltà di riacquistarne la proprietà al termine dei rapporto. Tuttavia la validità del suindicato contratto è stata fortemente discussa in passato in quanto inizialmente lo si considerava affetto da nullità perché contrario al divieto imposto dall'art.2744 c.c. (in tal senso Trib. Verona sentenza 15 dicembre 1988 e Trib. di Pavia, sent. 1 aprile 1988). Pertanto la giurisprudenza ha ritenuto che il contratto Lease Back debba ritenersi valido solo qualora sia accertata la sussistenza di determinati requisiti fondamentali ed in particolare: - insussistenza tra le parti di un credito preesistente e indipendente da garantire; -realtà e veridicità della vendita, non sottoposta ad alcuna condizione, di un bene avente natura strumentale per l'esercizio dell'impresa o dell'attività; - l'investimento della somma ricavata dalla vendita in riconversioni o acquisizioni di nuovi impianti tecnologici; - il diritto di opzione in capo al venditore - utilizzatore ad un prezzo predeterminato, tenuto conto dei criteri di determinazione dei prezzo dì vendita, dei canoni e dei prezzo di opzione e della qualità delle parti contrattuali (la locazione finanziaria deve essere realizzata da intermediaria finanziari abilitati all'esercizio dell'attività finanziaria ai sensi del testo unico del credito). Il giudice dovrà dunque analizzare caso per caso ogni singolo contratto al fine di verificare in concreto la sussistenza di tali necessari requisiti ed invero, qualora il contratto in esame difetti dei requisiti sopra indicati dovrà giudicarsi nullo in quanto atto al perseguimento di uno scopo di garanzia con caratteristiche integranti un mutuo con patto commissorio. Esiste anche un orientamento secondo il quale, al fine di dimostrare l'insussistenza della "presunzione" sanzionata dall'art. 2744 c.c., è sufficiente per i contratti di Lease Back la presenza di una clausola che consenta al termine dei rapporto di valutare il valore che in quel momento ha il bene oggetto di garanzia, onde consentire la validità dell'alienazione se il valore dei bene è equiparabile al valore dei credito inadempiuto, o quantificare il maggior costo che dovrebbe sopportare il creditore per ottenere l'acquisizione dei bene. In assenza di detta clausola il contratto dovrebbe pertanto ritenersi nullo. Diversa dalla vendita con patto di riscatto è la vendita con patto di retrovendita: con questo patto il compratore si obbliga nei confronti del venditore a ricedergli il bene in un secondo momento. In questo caso non basta la semplice dichiarazione del venditore per riacquistare il bene, ma serve un ulteriore negozio di trasferimento, in cui oltre alla volontà del venditore c'è quella del compratore. Il patto di retrovendita ha la stessa funzione di un contratto preliminare, con il patto di retrovendita le parti si vincolano reciprocamente a stipulare un nuovo negozio di vendita. Nel caso in cui il compratore non volesse ritrasferire il bene, il venditore può agire in via esecutiva e ottenere (ex art 2932 c.c.) una sentenza costitutiva che produce gli stessi effetti del contratto che si sarebbe dovuto porre in essere.

 
 
 

ESAME!!!

Post n°21 pubblicato il 15 Aprile 2008 da dirittoprivato2008

 Milano, lì 15 aprile 2008

 

 

                                                Agli studenti frequentanti

 

 

 

Insegnamento serale di Istituzioni di diritto privato

 

 

Cari studenti,

ho bisogno di conoscere tempestivamente il nominativo di coloro che volessero presentarsi all’appello d’esame fissato dal prof. Ugo Minneci per giovedì 17 aprile c.m. alle ore 12.30.

 

A presto, e con i più cari saluti.

 
 
 

DODICESIMA ESERCITAZIONE (lezioni di riferimento 7, 8, 9 aprile)

Post n°20 pubblicato il 11 Aprile 2008 da dirittoprivato2008

 Milano, 11 aprile 2008

    

                                                   

Cari studenti,

Vi sottopongo i seguenti quesiti.

 

1. Descrivete quali sono i criteri enunciati dalla giurisprudenza per poter valutare se un rapporto collaborativo tra prestatore di lavoro e datore di lavoro sia di carattere autonomo o subordinato. E quali sono le norme del codice che individuano il “lavoratore subordinato” e il rapporto autonomo?

 

2. Indicate quali sono le tipologie di licenziamento di un lavoratore subordinato e quali sono le fonti normative di riferimento.

 

3. Cosa si intende per “tutela obbligatoria” e “tutela reale”?

 

4. Com’è definito il mobbing dalla giurisprudenza?

 

Buon studio, buon week-end e con i più cari saluti.

 
 
 

A tutta pizza!!!

Post n°19 pubblicato il 05 Aprile 2008 da dirittoprivato2008

 Milano, lì 3 aprile 2008

 

 

 Agli studenti frequentanti

 

 

Cari Studenti,

su intelligente suggerimento di Chiara Largura, il nostro amico Pierpaolo Rizzo sta organizzando una cena per comitiva nel suo locale “Ciripizza” in via Canonica n. 81 di Milano, per la sera di mercoledì 16 aprile c.m. dalle ore 20.30.

 

Ci verrà riservato l’intero locale, o sarà a noi destinata una saletta che possa contenere almeno una quarantina di coperti.

 

Nell’ultima lezione Vi è stato un coro di adesioni a tale simpatica cena conviviale.

 

Date conferma della Vostra eventuale disponibilità per fissare definitivamente i posti che andremmo a prenotare.

 

A presto, dunque, ad esempio alle lezioni del 7, 8 e 9 aprile c.m., od a quelle ultime del 14, 15 e 16 aprile c.m.,  e con i più cari saluti.

 
 
 
 

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