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« c'è tanta gente al café Belgíëho sorpreso la mia giove... »

ombra lasciva palpo le ultime gambe di sole

Post n°147 pubblicato il 27 Novembre 2013 da andrea_firenze
 

ombra lasciva palpo le ultime gambe di sole di un eterno ritorno mentre la sera, muta, insacca laghi, pioggia e montagna con un taglio di forbice e furiosa dai ponti addensa occhi di mica alle case. Vado ai cessi che puzzano di vecchio e marcio, ai cessi che sanno di merda. Vado nei miei passi fusi alla musica di plastica che abita il notturno sogno di grazia; vago alle cose, alle mogli e alle figlie dalle linee anoressiche e i profili etruschi, alle vie di fuga in cui assottigliarsi e dissolversi come Sileni ubriachi; vie bizantine, tratti dove si sfiorisce, accenni che ricorrono e a tratti si rincorrono, mentre ululo e afferro ogni strada in cui il sangue ti camminava nelle vene, per camminarti dentro: a te che sei presente al niente di una breve distanza; e chissà se mai sia stato un uomo immenso, senza patria, che abbia ruggito, di fuoco, strappo intestino all'unico infinito locale personale, intuito nell'ombra della notte; respiro irregolare di una ortopunzione ortodossa. Prendo posto, mi accomodo; stretto, come sul sedile dell'autobus; porto a giro un carico, in orizzontale, in verticale, lo poso; mi rompo in pose, atti e posizioni. Sogno l'America chimera e la gioventù in colonne di una città fiorita; sogno sogni, singhiozzi della notte che ride. Spremo notti di dilemmi in poche dita di seme: se il padre impari dalla morte del figlio o il figlio da quella del padre, o se non impari mai nulla nessuno; e poi, che importa. Penso ai giorni di vita senza filosofia: il basilico e la caccia ai bruchi. Rapisco, stupro, saccheggio corpi; ballo la tarantella dei pederasti. Passeggio, vedo, rincorro il tempo, non diversamente da come fai tu all'Armani Cafè, in Saint-Germain-des-Prés. Sai, hanno potato gli alberi del nostro giardino e insieme ci hanno potato le braccia: sei in una città straniera, non ne provi dolore; hanno potato gli alberi al nostro giardino, ci hanno potato le braccia. La luna dalla finestra continua a ritagliare corpi, scolora e cova di macchie e brividi la pelle che sbuffa e s'increspa di mare come superficie di una terra che bolle di case, alberi e palazzi, che trema di civiltà nel suo inganno consueto di digestioni, valvole e membrane, d'avvenimenti di carta carbone. Qualche sconosciuto, come un padre, non smette mai di fartene ritratti, mentre tu ti sciogli per questa città d'acquerello ed incandescenze nelle prostitute rasserenanti dalla fica amichevole di madre, che vestono strade storte; nei pagliacci olimpici e nei clown eletti in luce di fanale, illusionisti confessi d'inganno; nei trucchi della notte, bianchi come calce di cliniche opaline. E l'ebrietà è la tua sola poesia in cerchio che alita sulla città in un'alba d'antenne e croci.

 
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