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guardo oltre ciò che ignoro vicino

Post n°142 pubblicato il 19 Novembre 2013 da andrea_firenze
 

guardo oltre ciò che ignoro vicino per vedere più vicino; per scoprire quale sia la vera faccia della quotidianità, vestita di verisimiglianza, più attendibile della realtà. Anche le cose di cui penso di essere convinto non sono che imposizioni, tentativi di coercizione di sé al segno, cemento sui muri che uniscono l'esistenza alla non appartenenza, l'appartenenza alla non esistenza. Penso e faccio in modo di celebrare ciò che so era destinato a essere spazzato via da un cambiamento; mi scuso per quanto sono cambiato e cambio, per quante cose ho perso e quanto loro hanno perso me. Considero la morte, l'abbandono, la sofferenza: eventi curiosi su cui studio le mie reazioni, con cui misuro il mondo e ciò che sono. Come se i soli accadimenti veri fossero quelli che presuppongano, implichino, provochino una conseguenza. Invece piccoli slittamenti, leggeri spostamenti hanno fatto la differenza nella mia vita. In alcune occasioni, un po' per caso, certe cose le ho messe fuori posto; non che fossero andate smarrite o non esistessero più; semplicemente le ho dimenticate, con innocenza. Se le scorgessi un giorno sul fondo di una scatola o dietro un libro nello scaffale, forse allora le userei ancora un po'; e non sarebbero poi da buttare. Altri hanno fatto lo stesso di me. Il dolore è fatto di vuoti senza tappo ed etichetta, pieni di suono; e la coscienza non è altro che ciò che riesci a trattenere o che ti ritrovi, camminando, fra le scarpe. Ed i ricordi sono come le campagne; si allargano in un grande bacino e restano lì nel tempo che passa, mimetizzati, confusi, ma sempre presenti. Basta una nevicata perché tu vi riconosca la capanna dei cacciatori, la strada di ghiaia che porta alla chiesa della parrocchia, costeggiata dai filari delle viti, le punte aguzze dello steccato; e l'ansia e l'inquietudine di te che cosa sono se non un ricordo che somiglia meno al tuo corpo della infastidita spensieratezza di un bambino che dorma con la testa poggiata su un grande guanciale di lana soffice fra cui il pastore abbia dimenticato qualche ago di pino. Ne ho pochi di ricordi di vita, forse perché la speranza delle occasioni prevale sulla necessità delle consolazioni. È piccolo il mio mondo, proprio come il tuo; una città posata sul fondo di un imbuto di colline, colline spaziose come ricci di negro: ho pensato che avremmo finito per incontrarci per forza, per caso, in qualche modo, in una delle solite strade, così poche se confrontate alle volte che ti ho pensata; probabilmente nel punto più stretto, nello spazio angusto dove è rimasta incastrata. Anche adesso tu resti un posto dove ho messo il mio amore, e non vedo l'ora che arrivi il fine settimana quando so che torni a casa dalla città dove insegui i tuoi sogni, come se facesse differenza la vicinanza, visto che comunque è tanto tempo ormai che non ci sentiamo; ed è come se venissi per restituirmelo indietro. Almeno questa illusione ancora serve a rassicurarmi. Ma non andrà così; siamo soprattutto ciò che non saremo, insoddisfatti, inquieti; e so con certezza che un giorno, quando verrà il momento, continueremo a cadere più in basso e non ci incroceremo mai più perché seguiremo in eterno rette parallele. Non mi rimprovero di non aver lottato, c'era troppo sole per trattenerti: il massimo che ho potuto fare per la vittoria è che chi l'ha avuta non ne abbia sentito il bisogno. Gli eventi continuano a venirmi incontro impassibili come cariatidi. Le parole non dette oggi si perdono nelle occasioni come i fili che si sfrangiano in una camicia. I sogni, impressioni di casuale intensità di forza sulla pellicola della vita, lasciano segni dei miei e dei tuoi gomiti sul prato soffice della discesa da cui rotoliamo, sulla barba del signore. Sotto, nel petto, c'è un capriolo appena nato che scalcia, che prova a liberarsi della placenta, e non cresce mai, non ne esce mai. Come biasimarlo: è soprattutto per gli altri che si cammina sulle uova. Io non avrei voluto romperne nessuna. Avevi il viso color caramello e denti bianchi d'avorio, come grandine in bocca; le guance gonfie, come le avessi riempite di cotone e fossi sul punto di soffiare fuori delle nubi. Se ti guardo adesso, nel ricordo, non so dire se fossero miei o tuoi quegli occhi luccicanti e fragili come candele instabili, con le vertigini; non so se sia mia o tua questa felicità d'acqua e di cristallo.

 
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Commenti al Post:
Fanny_Wilmot
Fanny_Wilmot il 24/11/13 alle 17:55 via WEB
Faccio "miei" due concetti: dimenticare con innocenza e la felicità fatta d'acqua e di cristallo. Per me è sempre stata d'acqua, ho potuta trattenerla troppo poco, fosse stata di cristallo, non l'avrei toccata, mi sarei limitata a guardarla. Immagino avrei potuto trattenerla un minuto di più. E quando si parla di lei non è mai un tempo irrisorio.
(Rispondi)
 
 
andrea_firenze
andrea_firenze il 24/11/13 alle 23:05 via WEB
vero, non lo è...
(Rispondi)
 
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