“Thimar” con Anouar Brahem, John Surman, Dave Holland , ECM 1998
Prendi con te questo disco e usa per primo lo sguardo: sogna sulla copertina, osservala di tanto in tanto mentre rientri a casa. Poi fatti un favore, rilassati, fai una doccia, rallenta i movimenti. Abbatti le luci violente, mettilo su e chiudi gli occhi.
Vedrai ancora quella foto. L’immagine di steli dorati, sipario riarso di una scena ignota, di un cielo reso profondo dall’uso sapiente di un filtro. Gli steli sono piegati e forse c’è vento. Nel quadro del tuo sogno vola un foglio di carta. È così che, all’inizio, ti apparirà quello che stai ascoltando: un foglio, un mondo bidimensionale. C’è la tradizione di una musica che non ha grande profondità armonica, si sviluppa in orizzontale, su frasi lineari.
C’è l’Oud. “Al oud”: in arabo significa “legno”. Ed è di legno che è fatto l’Oud. E di corde, di seta, budello, nylon. Cinque ordini di corde doppie e un basso singolo. È così che si chiama il Liuto, nei Paesi dove questo strumento è nato. In tempi di terrori oscuri il suo corto manico traccia un ponte da Tunisi al continente Vecchio. Vi sale su un signore con la barba che suona corde più spesse, austere. Si presenta usando l’archetto ma presto passa a snocciolare le note con indice e medio. Lo spazio diventa pian piano tridimensionale, ma devi attendere il terzo invitato per trovarti in un luogo del tutto nuovo: sei entrato, tuffandoti a piedi uniti nel foglio.
Il disegno cambia. Ciò che era una linea di matita, sinuosa di scale minori armoniche (così…arabesche), ora è la linea delle montagne all’orizzonte. E tra te e loro esiste tutto un mondo di colori e forme che prima non c’era. Le intuisci come in un ologramma, sono nella nebbia, si creano e si sfaldano. Non vedrai rocce ma fantasmi di rocce, non sentirai accordi ma fili di suoni intrecciati. Buon viaggio.
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