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RISORGIMENTO

Post n°715 pubblicato il 19 Marzo 2012 da antonio.gambini
 

(1815-1870). Processo di rinnovamento culturale, politico e sociale che consentì la formazione dello stato nazionale in Italia.

RIVOLUZIONE NAZIONALE BORGHESE URBANA.
Il termine, benché già utilizzato nella prima metà dell'Ottocento, si affermò nel linguaggio comune solo sul finire del secolo, quando, in occasione dell'Esposizione generale di Torino (1884), al Risorgimento fu dedicato un padiglione in onore di Vittorio Emanuele II. L'interpretazione nazionalista, orientata a evidenziare la matrice autoctona della lotta per l'indipendenza, ne scorse i prodromi nelle idee dell'illuminismo italiano, in pieno XVIII secolo, mentre la tradizione liberaldemocratica privilegiò l'apporto delle idee rivoluzionarie, diffuse nella penisola dalle armate napoleoniche a partire dal 1796. Le esperienze della Repubblica cisalpina e del Regno d'Italia consentirono alle classi dirigenti del nord di venire in contatto con la cultura politico-amministrativa della Francia, ma il passaggio da un'aspirazione unitaria di carattere puramente letterario a una consapevolmente politica si compì durante la Restaurazione, in pieno clima romantico. Tanto i moti del 1820-1821 nel Regno delle Due Sicilie e nel Regno di Sardegna, quanto quelli scoppiati a Modena e nelle Legazioni dello stato pontificio (1831), tutti falliti, non ebbero ancora, tuttavia, un prevalente carattere nazionale: i primi, di matrice carbonara, mirarono soprattutto a ottenere istituzioni più liberali (la costituzione), mentre gli ultimi furono sorretti da un vasto consenso locale proprio perché si limitavano a richiedere al papa la concessione di prudenti riforme amministrative. Il superamento di queste generiche aspirazioni fu compiuto da Giuseppe Mazzini. Il suo pensiero politico e la sua attività di cospiratore segnarono l'avvio del Risorgimento consapevole, espressione di una riflessione originale sulla nazionalità italiana fortemente intrisa di elementi volontaristici, morali, culturali. Per Mazzini, che avversava le concezioni naturalistiche della nazione, l'Italia unita doveva essere il frutto della libera scelta di un destino comune da parte di un popolo finalmente educato attraverso l'adesione a valori e istituzioni democratiche. Nella sua prospettiva, la cacciata dello straniero, la repubblica, il suffragio universale e lo spirito di associazione costituivano un tutto unico. Gli ambienti settentrionali della borghesia, del commercio e dell'artigianato urbani furono i primi che raccolsero il messaggio mazziniano. Esso non riuscì a produrre la rivoluzione promessa, ma solo tentativi abortiti o repressi. Fino al 1834, tuttavia l'adesione alla mazziniana Giovane Italia fu sinonimo di lotta per l'indipendenza nazionale. Il radicalismo politico di Mazzini si scontrò con l'arretratezza sociale ed economica della penisola, dominata da campagne povere e da una drammatica ristrettezza dei mercati. Solo nella Lombardia austriaca e in Piemonte (a partire dal 1840) esisteva un ceto imprenditoriale relativamente avanzato, legato a un mondo agricolo moderno e interessato a un mercato nazionale (o almeno padano). Di questi interessi si rese interprete, dopo il 1848, il conte di Cavour, primo ministro del Regno di Sardegna, l'unico stato italiano che, conclusa la temperie rivoluzionaria, con lo Statuto albertino (1848) aveva mantenuto fede al costituzionalismo, attirando le simpatie e le speranze di tutti i liberali della penisola. Estranee le masse contadine, cioè la maggioranza degli italiani, il Risorgimento fu dunque una rivoluzione nazionale borghese e urbana: borghese, perché i protagonisti, moderati o democratici, appartenevano in larga misura agli ambienti delle professioni liberali, dei commerci, degli impieghi o della scuola; urbana, perché nelle città, da Milano a Brescia, a Bologna, a Roma vasti strati popolari collaborarono attivamente alla lotta per l'indipendenza, spinti ora dall'impulso all'emancipazione, ora da un istintivo sentimento patriottico. L'esilio cui furono costretti molti rivoluzionari prima e dopo il 1848 e i lunghi viaggi d'istruzione, soprattutto in Francia e in Gran Bretagna, intrapresi dai giovani della nobiltà e della borghesia più avanzate, contribuirono a rendere europea la classe dirigente che avrebbe governato il paese dopo il 1861, che si nutrì di una cultura liberale in politica, liberista in economia e separatista in materia di rapporti fra stato e Chiesa. All'interno del movimento risorgimentale esisteva, d'altra parte, una forte resistenza a concepire l'Italia in termini unitari.

UNITÁ, FEDERALISMO, MODERNIZZAZIONE.
Fino al 1848, il pensiero moderato, da V. Gioberti a C. Balbo, aveva cercato di accreditare l'ipotesi di una confederazione di stati, aperti a istituzioni moderatamente rappresentative, presieduta dal papa o dal re di Sardegna, cui sarebbe spettato il compito di unificare il mercato della penisola attraverso una grande lega doganale. L'elezione di Pio IX al soglio pontificio parve confortare questa tesi; il biennio riformista 1846-1847 vide quasi ovunque la concessione della libertà di stampa e della Guardia civica, e la nascita di un'opinione pubblica moderna, prerequisito indispensabile alla concessione delle costituzioni (1848). Sembrava possibile un'unità federalista e neoguelfa, guidata dai notabilati dei vecchi stati restaurati. La rivoluzione del febbraio 1848 a Parigi dimostrò la precoce obsolescenza non solo di questo programma, ma persino di quello, altrettanto limitato, legato a un ancora incerto liberalismo sabaudo, incapace di coinvolgere nella Prima guerra d'indipendenza gli altri sovrani italiani. Sconfitti i piemontesi, nell'estate la guida del moto passò ai democratici, che sperimentarono governi rivoluzionari a Venezia, Firenze e Roma. La Repubblica romana (1849) di Mazzini e GaribaldiVittorio Emanuele II. Durante il decennio di preparazione (1849-1859), il Regno di Sardegna attuò una rapida modernizzazione delle istituzioni politiche in senso liberalcostituzionale e delle infrastrutture necessarie al decollo economico; i governi di Cavour, inoltre, crearono le condizioni diplomatiche favorevoli a una soluzione della "questione italiana" concertata a livello europeo. La partecipazione sabauda alla guerra di Crimea e gli accordi di Plombières con Napoleone III (1859) in funzione antiaustriaca affiancarono la mobilitazione del mondo patriottico intorno a Vittorio Emanuele e permisero, nel biennio 1859-1860, la Seconda guerra d'indipendenza e quindi la conclusione in chiave monarchico-unitaria della vittoriosa spedizione dei Mille di Garibaldi nel Mezzogiorno, inizialmente osteggiata da Torino. Nel 1861, con la proclamazione del Regno d'Italia, si esauriva la prima fase del Risorgimento, definitivamente concluso con la liberazione del Veneto (1866) e di Roma (1870). Le tradizioni democratica e nazionalistica, identificando il Risorgimento con l'aspirazione a uno stato che comprendesse tutti gli italiani, considerarono, tuttavia, la partecipazione alla Prima guerra mondiale come l'ultima delle campagne per l'indipendenza, dato che solo in seguito alla vittoria del 1918 Trento e Trieste, terre irredente, entrarono a far parte del regno. L'espressione secondo Risorgimento indica, infine, la guerra partigiana combattuta fra il 1943 e il 1945 per la liberazione del territorio nazionale dalle truppe nazifasciste (vedi Resistenza in Europa).


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"Il mondo … questo grosso essere assurdo. Non ci si poteva nemmeno domandare da dove uscisse fuori, tutto questo, né come mai esisteva un mondo invece che niente. Non aveva senso, il mondo era presente dappertutto, davanti, dietro. Non c’era stato niente prima di esso. Niente. Non c’era stato un momento in cui esso avrebbe potuto non esistere. Era appunto questo che m’irritava : senza dubbio non c’era alcuna ragione perché esistesse, questa larva strisciante. Ma non era possibile che non esistesse.

 
Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. Esistere è essere lì, semplicemente : gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare ma non li si può mai dedurre. C’è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. orbene, non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza : la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare … ecco la Nausea".

"Eravamo un mucchio di esistenti impacciati, imbarazzati da noi stessi, non avevamo la minima ragione d'esser lì, né gli uni né gli altri, ciascun esistente, confuso, vagamente inquieto si sentiva di troppo in rapporto agli altri. Di troppo: era il solo rapporto ch'io potessi stabilire tra quegli alberi, quelle cancellate, quei ciottoli. Invano cercavo di contare i castagni, di situarli in rapporto alla Velleda, di confrontare la loro altezza con quella dei platani: ciascuno di essi sfuggiva dalle relazioni nelle quali io cercavo di rinchiuderli, s'isolava, traboccava. Di queste relazioni (che m'ostinavo a mantenere per ritardare il crollo del mondo umano, il mondo delle misure, delle quantità, delle direzioni) sentivo l'arbitrarietà; non avevano più mordente sulle cose. Di troppo, il castagno, lì davanti a me, un po' a sinistra. Di troppo la Velleda…
 
Ed io - fiacco, illanguidito, osceno, digerente, pieno di cupi pensieri - anch'io ero di troppo. Fortunatamente non lo sentivo, più che altro lo comprendevo, ma ero a disagio perché avevo paura di sentirlo (anche adesso ho paura - ho paura che questo mi prenda dietro la testa e mi sollevi come un'onda). Pensavo vagamente di sopprimermi, per annientare almeno una di queste esistenze superflue.
 
Ma la mia stessa morte sarebbe stata di troppo. Di troppo il mio cadavere, il mio sangue su quei ciottoli, tra quelle piante, in fondo a quel giardino sorridente. E la carne corrosa sarebbe stata di troppo nella terra che l'avrebbe ricevuta, e le mie ossa, infine, ripulite, scorticate, nette e pulite come denti, sarebbero state anch'esse di troppo: io ero di troppo per l'eternità"

(JP Sartre, La nausea)
 

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