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IL SENSO CARNESCIALESCO DELL'ESISTENZA

Post n°701 pubblicato il 21 Dicembre 2011 da antonio.gambini
 
Tag: CANDY

Il Carnevale nel Medioevo: il contributo di Bachtin.
Lo studioso russo Michail Bachtin (1895-1975), nel libro “L'opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e
festa nella tradizione medievale e rinascimentale” uscito nel 1965, dà particolare rilievo al capovolgimento di valori
(il materiale al posto dello spirituale, il basso al posto dell'alto, il ventre e il sesso al posto della testa, il comico al posto del
serio, il popolo al posto dei potenti) che si realizza durante il Carnevale medievale e rinascimentale. Tale capovolgimento
era proprio delle feste popolari non ufficiali, e dalla tradizione popolare passerà alla "letteratura carnevalizzata ", a quel tipo di
letteratura, cioè, che assume la prospettiva "altra" del Carnevale dando vita così a un mondo "alla rovescia " rispetto a quello
tradizionale che è invece rispettoso delle consuete autorità e dei valori "normali".
I divertimenti di tipo carnevalesco e le azioni o i riti comici ad essi collegati avevano un ruolo enorme
nella vita dell' uomo del Medioevo. Oltre al carnevale propriamente detto, con tutte le sue azioni e
processioni complicate che occupavano per giorni interi le piaz ze e le strade, si celebrava la «festa dei
folli» (festa stultorum) e la «festa dell'asino»; ed esisteva anc he uno speciale «riso pasquale» (risus
paschalis ) libero, consacrato dalla tra dizione. Inoltre, quasi tutte le feste religiose avevano un loro aspetto
comico, pubblico e popolare, anch'esso consacrato dalla tradizione. Questo era il caso, per esempio, del le
«feste del tempio», accompagnate di solito da fiere, con il loro apparato ricco e vario di divertimenti
pubblici (vi si esibivano giganti, nani, mostri, bestie «sapienti»). L'atmosfera carnevalesca dominava
anche la rappresentazione dei misteri e delle sotie 1s. E regnava egualmente in alcune feste agricole, come
la vendemmia (vendange), che era celebrata anche in città. Il riso accompagnava anche le cerimonie e i riti
civili della vita di ogni gior no: buffoni e stolti vi partecipavano sempre e parodiava no tutti i diversi
momenti del ce rimoniale serio (proclamazione dei nomi dei vincitori di un torneo, cerimonie per la con -
cessione di diritti feudali, vestizione di cavalieri, ecc.). E nessuna festa aveva luogo senza che vi
mancassero elementi dell'organizzazione comica come, per esempio, l'elezione, per il periodo della festa,
di re e regine «per burla» (roi p uor rire2).
Tutte queste forme di riti e spettacoli organizzati in modo comico erano molto diffu se in tutti i paesi
dell'Europa medievale, ma si di stinguevano per la loro ricchezza e la lo ro complessità nei paesi di cultura
romanza, e in particolare in Francia. [...]
Tutte queste forme, organizzate sul principio del riso, presentavano una differenza estremamente netta, di
principio si potrebbe dire, rispetto alle forme di culto e alle ceri monie ufficiali serie della chiesa e dello
stato feudale. Esse rivelavano un aspetto comple tamente diverso del mondo, dell'uomo e dei rapporti
umani, marcatamente non ufficiale, esterno alla chiesa e allo stato; s embravano aver edificato accanto al
mondo ufficiale un secondo mondo e una seconda vita, di cui erano partecipi, in misura più o meno
grande, tutti gli uomini del Medioevo, e in cui essi vivevano in corrispondenza con alcune date par ticolari.
Tutto ciò aveva creato un particolare dualismo del mondo 3 e non sarebbe possi bile comprendere né la
coscienza culturale del Medioevo, né la cultura del Rinascimento senza tenere in considerazione questo
dualismo. L'ignorare o il sottovalutare il riso popo lare del Me dioevo porta a snaturare il quadro di tutta
l'evoluzione storica della cultura europea nei secoli seguenti. [...]
Il carnevale, in opposizione alla festa ufficiale, era il trionfo di una sorta di liberazione temporanea dalla
verità dominante e dal reg ime esistente, l'abolizione provvisoria di tutti i rapporti gerarchici, dei privilegi,
delle regole e dei tabù. Era l'autentica festa del tempo, del divenire, degli avvicendamenti e del
rinnovamento. Si opponeva ad ogni perpetuazione, ad ogni carattere def initivo e ad ogni fine. Volgeva il
suo sguardo all'avvenire incompiuto. Un significato del tutto particolare aveva l'abolizione di tutti i
rapporti gerarchici. In effetti durante le feste ufficiali le differenze gerarchiche erano mostrate in modo
evidente: in esse bisognava apparire con tutte le insegne del proprio titolo, grado e stato, e oc cupare il posto
assegnato al proprio rango. La festa consacrava l'ineguaglianza. Al contra rio, nel carnevale tutti erano
considerati uguali, e nella piazza carnevalesc a regnava la for ma particolare del contatto familiare e libero
fra le persone, separate nella vita normale — non carnevalesca — dalle barriere insormontabili della loro
condizione, dei loro beni, del loro lavoro, della loro età e della loro situazione fam iliare.
(Michail Bactin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione
medievale e rinascimentali)


_________

1 Soties: satira dialogata del teatro francese del XV-XVI secolo i cui personaggi appartengono ad un
immaginario popolo degli stolti, allegoria del mondo reale.
2 “re per ridere”
3 Due concezioni del mondo opposte: quella ufficiale da un lato e quella carnevalesca dall’altro.

 
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Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
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riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
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"Il mondo … questo grosso essere assurdo. Non ci si poteva nemmeno domandare da dove uscisse fuori, tutto questo, né come mai esisteva un mondo invece che niente. Non aveva senso, il mondo era presente dappertutto, davanti, dietro. Non c’era stato niente prima di esso. Niente. Non c’era stato un momento in cui esso avrebbe potuto non esistere. Era appunto questo che m’irritava : senza dubbio non c’era alcuna ragione perché esistesse, questa larva strisciante. Ma non era possibile che non esistesse.

 
Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. Esistere è essere lì, semplicemente : gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare ma non li si può mai dedurre. C’è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. orbene, non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza : la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare … ecco la Nausea".

"Eravamo un mucchio di esistenti impacciati, imbarazzati da noi stessi, non avevamo la minima ragione d'esser lì, né gli uni né gli altri, ciascun esistente, confuso, vagamente inquieto si sentiva di troppo in rapporto agli altri. Di troppo: era il solo rapporto ch'io potessi stabilire tra quegli alberi, quelle cancellate, quei ciottoli. Invano cercavo di contare i castagni, di situarli in rapporto alla Velleda, di confrontare la loro altezza con quella dei platani: ciascuno di essi sfuggiva dalle relazioni nelle quali io cercavo di rinchiuderli, s'isolava, traboccava. Di queste relazioni (che m'ostinavo a mantenere per ritardare il crollo del mondo umano, il mondo delle misure, delle quantità, delle direzioni) sentivo l'arbitrarietà; non avevano più mordente sulle cose. Di troppo, il castagno, lì davanti a me, un po' a sinistra. Di troppo la Velleda…
 
Ed io - fiacco, illanguidito, osceno, digerente, pieno di cupi pensieri - anch'io ero di troppo. Fortunatamente non lo sentivo, più che altro lo comprendevo, ma ero a disagio perché avevo paura di sentirlo (anche adesso ho paura - ho paura che questo mi prenda dietro la testa e mi sollevi come un'onda). Pensavo vagamente di sopprimermi, per annientare almeno una di queste esistenze superflue.
 
Ma la mia stessa morte sarebbe stata di troppo. Di troppo il mio cadavere, il mio sangue su quei ciottoli, tra quelle piante, in fondo a quel giardino sorridente. E la carne corrosa sarebbe stata di troppo nella terra che l'avrebbe ricevuta, e le mie ossa, infine, ripulite, scorticate, nette e pulite come denti, sarebbero state anch'esse di troppo: io ero di troppo per l'eternità"

(JP Sartre, La nausea)
 

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