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Qualche parola sui diritti

Post n°795 pubblicato il 31 Luglio 2013 da antonio.gambini
 

Il lancio di banane al ministro della Repubblica Cécile Kyenge è solo l’ultimo episodio che fa da indicatore per valutare il livello d’inciviltà raggiunto dal nostro Paese. Non ci sono mezze misure: ci riempiamo la bocca di parole apparentemente piene di senso ma non ne conosciamo il valore. Inutile continuare ancora a discutere di diritti solo come espressione di domande individuali. Occorre invece insistere sul concetto di cittadinanza e sui doveri di solidarietà che esso porta con sé, che costituiscono l’altra faccia della libertà. Doveri di appartenenza a una comunità politica, che abbiamo dimenticato, presi da una vertigine egotistica nella quale stiamo precipitando senza rendercene conto. In una comunità politica contano i valori che uniscono, non le rivendicazioni che dividono. I diritti fondamentali, da pretese di inclusione sociale, stanno diventando strumenti di esclusione e di divisione. La colpa non è dell’ignoranza diffusa, però: è piuttosto di chi fa “cultura” delle libertà senza senso di appartenenza a un comune destino; di chi enfatizza il momento della scelta individuale, dimenticando che ogni persona è necessariamente un “essere situato”; di chi esalta l’autodeterminazione senza considerare, nella polis, l’altro da sé. Proprio questo significato di profonda condivisione di una comune esistenza politica sta alla base dell’idea di nazione, sulla quale ha tanto insistito Ernest Renan. In altro modo, possiamo ricorrere al concetto onnicomprensivo di libertà-eguale, dove il mio diritto ha senso non in sé, ma solo insieme al riconoscimento di un eguale diritto dell’altro.

Un caso ormai eclatante e insopportabile di negazione dell’eguale libertà riguarda i gay: non ci sono ragioni, neppure costituzionali, che impediscono il pieno riconoscimento dei diritti degli omosessuali, in primis quello al matrimonio. Neppure l’articolo 29 della Costituzione è un ostacolo insuperabile. Lo è, purtroppo, per il nostro inconcludente Parlamento. Ma solo una politica cha ha completamente abdicato alla propria funzione può continuare a ritardare una modifica costituzionale che è espressione di una cultura finalmente adeguata ai nostri tempi. In altri Paesi di questi temi si discute, animosamente certo, ma poi si decide. Nel nostro Paese una discussione seria neppure inizia. Il limite è proprio quell’idea zoppa di libertà che esalta solo il proprio ego; quell’idea che spesso viene fatta coincidere con una pretesa opinione di maggioranza da imporre perciò alla minoranza, ma che dimentica l’esigenza imprescindibile di considerare tutti gli individui parte di una medesima nazione.

È bene che il governo delle larghe intese approfitti della storica occasione che gli viene offerta dalla convergenza di opposte opzioni politiche: non per rinviare ciò che non può più attendere risposta, ma per affrontare con decisione questioni che stanno al cuore di una autentica cultura per una cittadinanza inclusiva.

di Andrea Morrone, 29 luglio 201 - La testata "il Mulino" è di proprietà della omonima Associazione di politica e di cultura

 
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"Il mondo … questo grosso essere assurdo. Non ci si poteva nemmeno domandare da dove uscisse fuori, tutto questo, né come mai esisteva un mondo invece che niente. Non aveva senso, il mondo era presente dappertutto, davanti, dietro. Non c’era stato niente prima di esso. Niente. Non c’era stato un momento in cui esso avrebbe potuto non esistere. Era appunto questo che m’irritava : senza dubbio non c’era alcuna ragione perché esistesse, questa larva strisciante. Ma non era possibile che non esistesse.

 
Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. Esistere è essere lì, semplicemente : gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare ma non li si può mai dedurre. C’è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. orbene, non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza : la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare … ecco la Nausea".

"Eravamo un mucchio di esistenti impacciati, imbarazzati da noi stessi, non avevamo la minima ragione d'esser lì, né gli uni né gli altri, ciascun esistente, confuso, vagamente inquieto si sentiva di troppo in rapporto agli altri. Di troppo: era il solo rapporto ch'io potessi stabilire tra quegli alberi, quelle cancellate, quei ciottoli. Invano cercavo di contare i castagni, di situarli in rapporto alla Velleda, di confrontare la loro altezza con quella dei platani: ciascuno di essi sfuggiva dalle relazioni nelle quali io cercavo di rinchiuderli, s'isolava, traboccava. Di queste relazioni (che m'ostinavo a mantenere per ritardare il crollo del mondo umano, il mondo delle misure, delle quantità, delle direzioni) sentivo l'arbitrarietà; non avevano più mordente sulle cose. Di troppo, il castagno, lì davanti a me, un po' a sinistra. Di troppo la Velleda…
 
Ed io - fiacco, illanguidito, osceno, digerente, pieno di cupi pensieri - anch'io ero di troppo. Fortunatamente non lo sentivo, più che altro lo comprendevo, ma ero a disagio perché avevo paura di sentirlo (anche adesso ho paura - ho paura che questo mi prenda dietro la testa e mi sollevi come un'onda). Pensavo vagamente di sopprimermi, per annientare almeno una di queste esistenze superflue.
 
Ma la mia stessa morte sarebbe stata di troppo. Di troppo il mio cadavere, il mio sangue su quei ciottoli, tra quelle piante, in fondo a quel giardino sorridente. E la carne corrosa sarebbe stata di troppo nella terra che l'avrebbe ricevuta, e le mie ossa, infine, ripulite, scorticate, nette e pulite come denti, sarebbero state anch'esse di troppo: io ero di troppo per l'eternità"

(JP Sartre, La nausea)
 

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